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10 Dicembre 2021

La musicoterapia entra in carcere

La musica può dare voce a emozioni, ferite profonde, sogni: per questo può avere una funzione terapeutica per i giovani detenuti.
La musicoterapia entra in carcere
«Qual è il bisogno dei ragazzi in carcere? Avere qualcuno che li ascolti, che racconti la loro storia e porti fuori da lì la loro bellezza». L'esperienza di Salvatore Farruggio, educatore e musicista, che ha utilizzato la musica per incontrare i giovani detenuti.
All’altezza del civico 6 di Via Gozzano a Catania, vicini eppur distanti, da un lato c’è il liceo classico della città con duemila studenti iscritti, dall’altro, le porte del carcere minorile dove uno sparuto numero di giovani detenuti conta i secondi di un tempo che non passa mai.
E lì, nell’Istituto Penale Minorile di Acireale che Salvatore Farruggio e Mario Danilo Rosa, hanno regolarmente scelto di recarsi per 7 anni per portare la loro esperienza umana e professionale.
Libro Sono come suono
Il libro Sono come suono. La musicoterapia entra in carcere (Ed. Nous), racconta l'esperienza di 7 anni con i giovani detenuti.
Entrambi educatori, musicisti, con la specifica formazione di musicoterapisti e uniti da una grande amicizia hanno scelto di utilizzare l’elemento sonoro come strumento d’incontro coi giovani detenuti.
Dall’analisi di quanto vissuto e dal diario di lavoro rigorosamente descritto ne è venuto fuori un interessante studio, il primo che parla di approccio musicoterapico nel carcere tradottosi poi in un libro per addetti ai lavori e non solo dal titolo: Sono come suono. La musicoterapia entra in carcere (Ed. Nous).
Una storia di vita da leggere tutta in chiave educativa e musicale quella di Salvatore Farruggio: percussionista, insegnante di musica presso le scuole medie della città e, nel tempo libero musicista e musicoterapista oltre ad essere papà di una casa famiglia.
Diplomatosi al Conservatorio di Catania in strumenti a percussione, si specializza alla scuola di Musicoterapia presso il conservatorio di Verona, suona da sempre in varie formazioni tra cui quella storica dei Lautari, gruppo musicale che ha portato alla ribalta la musica tradizionale siciliana adattandola al gusto moderno e lanciandola anche oltre i confini nazionali. Tutto questo senza venire a meno ad una vita di condivisione in una casa famiglia della Comunità papa Giovanni XXIII  aperta da lui e la moglie nel 2008: una grande famiglia formata dai loro 4 figli naturali e da altri 5 figli “speciali” accolti.

Salvatore, come riesci a tenere assieme la realtà musicale e quella dell’accoglienza?

«A chi mi conosce dico ridendo che la musica non è quello che faccio, ma è quello che sono, nel senso che tutto prende spunto dalle mie diverse anime. Anche a casa, nel mio essere papà sento di privilegiare sempre una dimensione creativa, estetica nella relazione. Dal preparare il pranzo in casa a un concerto importante, tutto quello che ci sta in mezzo è vissuto sempre con questo tipo di approccio: la ricerca della bellezza. Una bellezza sempre da ricercare anche nelle storie delle persone diversamente abili con cui condivido in casa, anzi è anche in questa condivisione che ci leggo la continuità con la mia professione e la mia voglia di specializzarmi come musicoterapista.
La difficoltà quotidiana di utilizzare il linguaggio verbale con alcuni di questi ragazzi, mi ha spinto a cercare altri canali comunicativi. Gli studi tecnici mi hanno formato per essere un bravo musicista, ma sicuramente l’esperienza delle accoglienze ha rafforzato in me la convinzione che tutti debbano avere la dignità di essere considerati e valorizzati per quello che sono, cercando di trovare canali di comunicazione sempre nuovi quando sono chiusi quelli normali.
È con una delle nostre bimbe, apparentemente la più problematica, che io paradossalmente riesco meglio nella comunicazione. Per me è una scommessa, un piacere dedicarmici.
Con noi c’è anche una ragazzina Down di 33 anni. Non sa parlare, ma in certi momenti, quando stiamo assieme, prende la chitarra e canticchia: “Mamma bene io, papà bene io” e così, coi nomi di tutta la famiglia.
A parte la commozione di padre, come musicoterapista per me passa un concetto importante. Coi suoi mezzi a disposizione, tramite l’utilizzo dell’elemento sonoro lei è riuscita a concretizzare e dire agli altri cose che diversamente non avrebbe avuto l’opportunità di esprimere; un’attività senza dubbio ispirata dal fatto che tutti lì in casa cantiamo canzoni, suoniamo. Insomma in casa è naturale comunicare così.»
Salvatore Farruggio
Salvatore Farruggio: percussionista, insegnante di musica presso le scuole medie della città e, nel tempo libero, musicista e musicoterapista. È anche papà di una casa famiglia in Sicilia.

Com’è nata l’idea di andare al carcere minorile come musicista e musicoterapista?

«È nato tutto per caso. Ho ricevuto una chiamata direttamente da un educatore del carcere minorile di Catania. Avevano ricevuto in dono degli strumenti musicali e cercavano qualcuno che aiutasse i ragazzi ad imparare ad usarli. Ho coinvolto fin da subito un amico fraterno musicista che ha fatto del mondo dell’educazione una sua bandiera: Mario Danilo Rosa.
Siamo partiti tra mille difficoltà. All’interno del carcere non potevano entrare per esempio né chitarre - perché con le corde i ragazzi potevano farsi male -, né bacchette perché ritenute pericolose. Nonostante ciò, abbiamo per il primo anno realizzato una sorta di avviamento agli strumenti. Da lì ci siamo resi conto che la necessità per questi ragazzi non era tanto imparare a suonare uno strumento, ma di avere qualcuno che li ascoltasse, che raccontasse la loro storia e portasse fuori da lì la loro bellezza. Negli anni successivi abbiamo così virato verso laboratori non più di tipo tecnico, ma più di tipo laboratoriale/musicoterapico.»

La musica dunque come agente trasformante?

«Non è che facendo musicoterapia il ragazzo che ha rubato esce e non ruba più. Non è un percorso terapeutico per come lo si intende da un punto di vista clinico. Non curo un sintomo, né tanto meno una malattia, ma all’interno del setting offro ai ragazzi la possibilità di sperimentarsi in un luogo protetto, stimolandoli così a porre attenzione anche a quelle parti che magari in altri contesti non hanno mai considerato: l’affettività, l’emotività, la rabbia. L’elemento sonoro diventa allora un elemento facilitatore di comunicazione. E già questo ha una sua funzione terapeutica: lo stare insieme, il mettersi in gioco o in discussione attraverso l’elemento sonoro. Elemento, peraltro che ha saputo tenere insieme un gruppo difficile, eterogeneo per lingue e culture.
Sono avvenuti, poi, anche processi educativi significativi; per esempio un ragazzo molto chiuso e che faticava a mettere in discussione il suo vissuto, al termine di un laboratorio incentrato sull’elaborazione di storie ha scelto per la prima volta di confrontarsi con gli educatori del carcere.»

Avete anche realizzato delle produzioni musicali coi ragazzi?

«Abbiamo sintetizzato l’esperienza laboratoriale in alcune canzoni realizzando la canzone: Volere è potere che è anche raccontata nel libro. Quando abbiamo fatto sentire la canzone completa, registrata, i ragazzi, sono rimasti increduli.
Ricordo ancora il loro entusiasmo davanti a un microfono, al mixer o quando hanno ascoltato la loro voce in cuffia per la prima volta; erano estasiati, non avevano mai sentito la loro voce in quel modo. Porto con me la luce negli occhi di chi scopre che sa fare anche qualcosa di bello, interessante per sé e per gli altri. Quando il magistrato presente alla cerimonia finale ascoltando la canzone ha fatto un elogio al testo, i ragazzi, fieri, dicevano: “Quella frase l’ho scritta io!”. Come a dire: “Anche io valgo qualcosa, nonostante sia qui perché ho rubato”.»

Un’esperienza umana e professionale davvero ricca, suggellata anche dalla pubblicazione del libro Sono come suono, il primo che parla di applicazione di musicoterapia all’interno di un istituto penale. Che progetti avete ora che la vostra esperienza nel carcere si è temporaneamente conclusa?

«Anche attraverso il libro intendiamo tenere acceso l’interesse sul tema, e sulla fattibilità di esperienze di questo tipo, avvicinando anche altri a fare altrettanto. Dopo i nostri 7 anni il testimone è stato raccolto da un gruppo di ragazzi ventenni, di Catania, componenti di una piccola orchestra, che hanno scelto di partecipare come frequentanti un laboratorio di scrittura creativa realizzata dentro al carcere minorile. Da questa partecipazione sono nati dei testi di canzoni che hanno pubblicato e per le quali hanno avuto anche un riconoscimento dalla Fondazione Treccani. I ragazzi hanno pubblicato un disco e alcuni testi delle loro canzoni sono stati scritti a 4 mani con dei ragazzi detenuti.
È bello pensare che attraverso il nostro racconto e l’arrivo di altre persone dopo di noi, non si sia fermata per i ragazzi in carcere la possibilità di continuare ad esprimersi. In quella situazione di estrema fragilità c’è davvero tanto bello ancora da raccontare.»