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22 Marzo 2020

L'acqua del Turkana

Il 22 marzo si celebra la giornata mondiale dell'acqua. Questa storia racconta la situazione drammatica delle bambine del Turkana, in Africa, dove l'acqua è il bene più prezioso
L'acqua del Turkana
Foto di Gianluca Uda
Mi chiamo Iman, ho 10 anni, vivo nel nord del Kenya e ho dovuto imparare presto che una delle prime regole è partire il mattino quando ancora fa buio. Prima i contenitori per l’acqua erano di terracotta, pesavano molto, oggi invece i secchi sono di plastica e anche una bambina come me può andare alle sorgenti. I secchi di plastica: questo è quello che il mondo moderno ci ha dato.

Turkana: un popolo, un lago, una terra

Ci chiamano Turkana, lo stesso nome che ha la nostra terra ed il nostro lago e partiamo il mattino presto per evitare un po’ di sole. Il sole qui non è come il vostro. Il nostro sole non fa differenze e brucia ogni cosa gli si presenti attorno: arde uomini, bestie e pietre allo stesso modo.
Siamo noi bambine che più spesso andiamo alle sorgenti, ci alziamo la mattina presto, a stomaco vuoto o con al massimo mezzo bicchiere di latte e un po’ di riso e partiamo. Alcune volte dobbiamo trascinarci dietro anche i fratelli più piccoli. Le raccomandazioni che ci fanno sono sempre le stesse: occhio agli scorpioni, attenta ai serpenti e non fidarti degli uomini. Sì, soprattutto degli uomini delle tribù vicine, uomini che ci fanno del male, uomini che una volta erano nostri fratelli e che ora hanno nomi diversi dal nostro e sono diventati il nostro più grande pericolo. Alcuni di loro ci violentano lungo il tragitto, altri invece non vogliono il nostro giovane corpo, ma la nostra acqua. Le violenze che subiamo noi bambine mentre attraversiamo il deserto roccioso del Turkana è uno di quegli avvenimenti che qui dobbiamo mettere in conto.

L'acqua, il bene più prezioso

Soldato sorveglia un pozzo
L'acqua è un bene prezioso in Turkana: un guerriero Samburo sorveglia la cisterna d'acqua del suo villaggio.
Foto di Gianluca Uda

Cammino in fila con le altre bambine, alcune di loro già sfoggiano il taglio rasato ai lati con piccole trecce sul capo per creare una cresta tribale. Piedi scalzi, pochi stracci sul corpo e qualche collana portafortuna e proseguiamo lungo il cammino dell’acqua.
I chilometri per arrivare all’acqua sono molti: a volte dieci, altre volte cinque, ma noi lo spazio lo misuriamo a tempo più che a chilometri, e il nostro orologio rimane sempre e comunque quel grande sole che dall’alto ci giudica.
Noi siamo il popolo del bue grigio, il nome Turkana è arrivato dopo. Turkana in realtà è il nome del grande lago, quel grande specchio di acqua che qualche divinità nascosta ha reso salato. Avere un lago vicino con le acque salate è una punizione e per questo dobbiamo scavare nella terra, in questo deserto di roccia, alla ricerca di una fonte, di un’infiltrazione del lago che la sabbia e le rocce abbiano pulito dal sale.
Bambini del Turkana
Il Turkana è una regione del Kenya dove la siccità si fa sentire in modo drammatico
Foto di Gianluca Uda

Appena partite, già dopo pochi passi, le capanne della tribù si fanno più piccole, fino a sparire, il sole si alza ed il cammino è ancora lungo. Noi bambine conosciamo bene la strada, la nostra bussola è nel cuore e anche in qualche albero di acacia che marca il cammino.
Noi bambine abbiamo un valore, lo abbiamo sempre avuto: gli uomini del nostro popolo per averci in sposa devono donare degli animali alle nostre famiglie; più animali hanno, più mogli avranno al loro cospetto. L’acqua in questa terra di deserto roccioso è il bene più prezioso, la vera fonte di vita, agli uomini andrebbe detto di scambiarci in cambio di acqua, non solo per qualche animale, ma questo loro non lo sanno.

Turkana: i figli del deserto

Neonato in Turkana
Una mamma Turkana mostra il suo figlio nato da pochi giorni, la mortalità infantile è una delle piaghe che più colpiscono la regione.
Foto di Gianluca Uda

Non sono molti i figli del Turkana che arrivano a superare i 12 anni e questo fa parte del grande mistero che è la vita, o almeno la nostra di vita. I primi anni dei figli del deserto sono quelli più delicati e le madri lo sanno, ma non possono farci nulla: malattie, fame e miseria sono una falce che costantemente compie il suo macabro lavoro.
A volte con noi viene anche qualche adulto, nella maggior parte dei casi delle donne. Quando da lontano vediamo delle persone radunate insieme, capiamo che il cammino è quasi finito.
Arrivati sul posto, dobbiamo aspettare il nostro turno vicino al buco. Poi iniziamo a riempire secchi e contenitori: una giostra che ogni giorno si ripete e spesso mi chiedo perché non siano gli uomini a fare questo lavoro così faticoso. Ogni bambina deve imparare a prendere l’acqua, ad adagiare i secchi sulla testa, alla base di quella cresta di capelli intrecciati che a volte è più comoda di un cuscino. Gli uomini si prendono cura degli animali, è questo il loro lavoro. Noi dobbiamo saperlo e rispettare le loro decisioni se un giorno vogliamo diventare delle brave mogli.
Più siamo belle, più siamo capaci nei nostri mestieri e più animali riceveranno i nostri genitori: questa è una legge antica quanto questo deserto di roccia.
Scavare per acqua in Turkana
Un gruppo di bambini della tribù dei Turkana raccoglie acqua dalle sorgenti che scavano nel deserto.
Foto di Gianluca Uda

Gli uomini bianchi con le loro congregazioni e le loro associazioni dicono che la situazione sta pian piano peggiorando: l’acqua sta diventando sempre più rara ed il clima sta cambiano. Ma noi bambine del Turkana tutto questo lo sappiamo già: vediamo i pozzi che si svuotano sempre più in fretta, sentiamo il sole che cuoce ogni giorno di più. Noi bambine del Turkana sappiamo quali sono i mali del mondo, ma nessuno ci può sentire.
Una volta riempiti i secchi il percorso si ripete al contrario e la strada è sempre la stessa. A volte si rientra che il sole è già morto e la luna è un cerchio luminoso: sembra un sollievo poter vedere quel grande sole che non brucia, ma che culla le notti.