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21 Aprile 2019

C'è posto per te

A Verona tante famiglie insieme per promuovere l'accoglienza in famiglia
C'è posto per te
Foto di Adobe Stock
Affido, adozione, prossimità familiare. I modi per aprire la propria famiglia sono tanti e diversificati, come le storie che raccontiamo qui
C’era una volta l’adozione, pratica riservata a famiglie senza figli che accoglievano figli senza famiglie, o a famiglie un po’ fuori dal comune che per follia o santità (a seconda dei punti di vista) si facevano carico di bambini orfani. Anni fa, quando era l’unica modalità di accoglienza, era vista dai più con un certo distacco, un gesto da guardare con ammirazione o con compassione, qualcosa comunque che non li riguardava.
Arriva poi l’affidamento familiare, una modalità un po’ più “light” con cui una famiglia normale (o quasi) può farsi carico di un minore la cui famiglia di origine non fosse temporaneamente nelle condizioni di potergli fornire un supporto adeguato alla crescita.
L’affidamento familiare è stato ampiamente riformato dalla Legge 149 del 2001, che ha chiarito che ogni minore ha diritto alla “sua” famiglia, e che quando questa viene ritenuta inidonea, si cerca di recuperarla. Nel frattempo si fornisce al minore una famiglia che non sostituisce la sua ma che gli dà un supporto affettivo ed educativo con l’obiettivo del rientro in casa sua.
Non è frequente che questo avvenga, in quanto nel momento in cui Servizi Sociali compiano la faticosa scelta di allontanare un minore, ci devono essere dei motivi abbastanza gravi che in quanto gravi poi sono difficilmente risolvibili; tuttavia avviene, ed è un successo per tutti. Per la famiglia di origine che si è recuperata, per quella affidataria che ha aperto le porte della sua casa e quindi il suo mondo di relazioni, e per il minore che non ha interrotto i suoi legami.
Questo aspetto di mantenere una armonia nei legami – i tuoi genitori rimangono comunque loro, e proprio per questo ti puoi affezionare a noi senza timore – oltre a rispondere alle più elementari norme della psicologia e del buon senso, rende superflui alcuni inutili equilibrismi affettivi.
Per legarsi alla nuova famiglia il bambino deve rinnegare la propria? Assolutamente no, anzi. Chi ha esperienze di affidamento sa che più valorizzerà i genitori biologici, per quanto acciaccati e inadeguati, più permetterà al figlio di provare un sincero affetto verso i genitori affidatari.
Il bisogno di non troncare con le proprie radici, lo ripeteva spesso anche don Benzi, è insopprimibile.
A parte rarissimi casi quindi è utile tenere una comunicazione sempre aperta tra i due sistemi familiari, anche quando dovesse essere faticosa.
Oggi molte famiglie affidatarie si incontrano con le famiglie di origine, in molti casi nascono anche dei rapporti duraturi.
Da una separazione netta, traumatica, il mondo dell’accoglienza è approdato a forme di apertura familiare più collaborative, semplici, alla portata di tutti.
Perché non tutte le famiglie possono pensare di adottare un nuovo figlio, magari straniero, o di accoglierlo in casa a tempo indeterminato, ma molte di più possono pensare di accogliere per un breve periodo, insieme ad altre, o dare un supporto per qualche giorno la settimana o per qualche ora al giorno.
#DÓNÀTI Verona. Palazzo Della Gran Guardia. Di fronte ad una sala gremita, diverse testimonianze dei differenti modi per vivere l'apertura familiare e farsi dono ai minori che ne hanno bisogno.
Foto di Emanuele Zamboni

Di questo, delle molteplici modalità per essere accoglienti, si è parlato in tutta Italia il 26 gennaio scorso con l’evento #dónàti promosso dal Forum delle Associazioni Familiari e organizzato in ogni regione. Non un convegno di esperti ma una carrellata di esperienze, una diversa dall’altra ma tutte belle, coraggiose, motivanti.
Le testimonianze che seguono sono state raccolte dall’evento che si è svolto a Verona, nella cornice del Palazzo della Gran Guardia, davanti ad una sala gremita.
Un successo dovuto alla collaborazione tra le associazioni che sul territorio si occupano di accoglienza: la Comunità Papa Giovanni XXIII, AiBi, Movimento per l’Affido e l’Adozione, Famiglie per l’Accoglienza, la Casa di Oreste, Una famiglia in più, Famiglie Nuove.
Perché l’apertura è uno stile, e quando si apre la propria famiglia, necessariamente si apre il cuore e ci si apre al mondo.


 
Foto di Emanuele Zamboni

Aspettavo con gioia altri fratelli.
Un desiderio ampiamente esaudito! 

«Avevo circa 8 anni quando i miei genitori ci hanno proposto di avvicinarci all'affidamento. Avevamo sperimentato forme di accoglienza di bambini bielorussi durante il periodo estivo e, alla proposta dei miei, non ho avuto dubbi, era un sì». È Elena – figlia naturale di una famiglia aperta all’accoglienza – a portare la prima testimonianza. «Aspettavo con gioia altri fratelli, desiderio che (dopo 15 anni) ritengo sia stato abbondantemente esaudito». E racconta con l’entusiasmo dei suoi 26 anni l’esperienza di famiglia aperta all'accoglienza ma anche con la paura e il timore di non essere all'altezza della responsabilità. «Ma ogni dubbio è stato da subito abbattuto dalla forza dell'amore, che ci ha sorpreso regalandoci energia, ricchezza e profonde emozioni».
L’amore è diffusivo, contagioso ed è così che «giunta in età adulta, io stessa ho scelto di essere famiglia affidataria con il desiderio di condividere il mio cammino con altre famiglie e altri bambini in momentanea difficoltà». «Questa esperienza mi sta donando moltissimo – continua – ho apprezzato la bellezza nella diversità, la meraviglia nel condividere insieme le difficoltà e le gioie del quotidiano. Farsi prossimi è un dono reciproco d'amore e di generosità»
È un processo d’amore, di dare e ricevere, evidentemente circolare e alla portata di tutti: «Accogliere e accogliersi. Donare e donarsi. È certamente una sfida impegnativa, che porta dolore, rinunce e fatiche, ma è soprattutto una sfida che genera amore, che genera vita. Una sfida possibile per tutti». 
 
 
 
Foto di Emanuele Zamboni

 
La nostra casa era troppo grande per noi,
abbiamo pensato di venderla ma poi…

 
«Abbiamo sentito che la nostra casa era troppo grande per noi, abbiamo pensato di venderla ma poi abbiamo sentito l'esigenza che i nostri figli imparassero a condividere quello che hanno con chi è in situazioni meno fortunate, non solo a parole, ma con i fatti». Elena e Andrea, di Famiglie per l’Accoglienza, che vivono con i loro 3 figli in un paese della bassa veronese
Data la disponibilità «Ci è stato proposto, dai servizi e da Famiglie per l'Accoglienza, di iniziare un affido diurno di due fratellini di 6 e 8 anni, di nazionalità marocchina, con un papà assente e una mamma che da sola lavora e porta avanti la famiglia seppur in difficoltà economica. L'esperienza non è stata facile per i nostri figli, e anche per noi, ma ha aperto il nostro cuore all'accoglienza e alla condivisione».
Altri aspetti positivi? «Noi abbiamo imparato ad essere più in ascolto delle esigenze sia dei figli in affido ma anche dei nostri figli, e siamo cresciuti con loro come genitori», spiega Andrea.
Non solo, continua Elena: «Si è creata una rete di famiglie a noi vicine. Una di queste famiglie adesso segue la prossimità di questi due bambini, visto che l'affido è durato un anno e si è concluso positivamente ad agosto dell'anno scorso. Nel frattempo quest'estate abbiamo vissuto l'esperienza di prossimità con una bambina senegalese che poi è andata in affido ad una coppia di amici».
Un’esperienza arricchente dentro e fuori le mura di casa.
 

Foto di Emanuele Zamboni

 

Si trattava di capire se chiudersi dietro ad un muro
o aprire il cuore

 
Elena ed Elia hanno voluto sperimentare esperienze di missione e solidarietà fin dagli anni del fidanzamento e una volta sposati si sono avvicinati fin da subito al mondo dell'affido.
«Dopo un periodo di formazione col Movimento per l’Affido e l’Adozione, e un periodo di discernimento, per la mancanza di figli naturali abbiamo iniziato lo studio di coppia; nel frattempo abbiamo continuato a partecipare alle attività organizzate dal movimento, a frequentare i minori e i genitori affidatari».
La loro esperienza, o meglio il loro colpo di fulmine, passa dall’Africa, dal Kenia per l’esattezza, ed è legata all’immagine di un frugoletto con una malformazione al femore aggrappato alla mamma.
«Si trattava allora di capire se chiudersi dietro ad un muro o aprire il cuore ad una vera esperienza di accoglienza»
A Luglio 2018 è iniziata l'esperienza di affido con Anù, bambina di 7 anni, con una storia di forte prematurità e una condizione familiare in cui il grande affetto non poteva corrispondere ad altrettanta attenzione organizzativa e gestionale. Anù richiedeva un percorso di riavvicinamento alla scuola, ma soprattutto un grande lavoro sull'autonomia.
«Ma la bambina si è rivelata fin da subito molto affettuosa nei nostri confronti, vive con gioia il ritorno a casa nei weekend, e con serenità il rientro presso la nostra casa.  La famiglia è molto collaborativa e riconoscente per i grandi passi avanti di Anu; ora lei sa lavarsi, gestirsi i compiti, leggere e scrivere, sa mangiare in autonomia ed è migliorata molto nella relazione con gli altri bambini». 
 

Foto di Emanuele Zamboni

 

Il desiderio di essere genitori, una domanda angosciante
e un atto di fede

 
Massimo e Marialuisa dell’AiBi hanno tre figli, tre figli accolti in tempi e in età differenti, tre diverse esperienze, tre ineguali rapporti, dissomiglianti e dissimili, come loro stessi sono, nella loro unicità.
«In una coppia che si ama c’è già iscritto il profondo desiderio del figlio – racconta Massimo – e con questa frase crediamo di poter sintetizzare il nostro vissuto nella prima fase dell’innamoramento, quando da giovani ragazzi impegnati nel servizio verso bambini e adolescenti della nostra parrocchia, ci sembrava di cogliere in ognuno di loro i tratti fisici e caratteriali che avrebbero avuto i nostri figli. Qualche anno dopo, la scoperta della nostra sterilità e la domanda angosciante: “Signore, perché proprio a noi?”»
La sterilità è un lutto, ma «la speranza ha prevalso sui momenti più difficili, ed il desiderio di accogliere ci ha aperto le porte verso un modo nuovo di essere famiglia».
«Il 12 marzo del 1995 – continua – siamo partiti per l’Ecuador, le nostre bambine vivevano in un istituto a tre ore dalla capitale. Allora avevano tre e quattro anni. Nei loro sguardi, segnati dall’abbandono, c’era la paura, il vuoto, lo smarrimento. Il nostro è stato l’incontro della speranza, la doverosa risposta al loro diritto di essere figlie, ma soprattutto il riconoscimento che Dio non abbandona nessuno dei propri figli. Dopo 37 giorni trascorsi in Ecuador, tornammo in Italia: e qui iniziò il cammino di nuova famiglia».
«L’adozione prima di un atto giuridico è un atto di fede: credo che tu sia mio figlio, credo che tu sia mio padre. È il più grande atto di giustizia».
Ed è mossi da questa convinzione che hanno proposto a Marisol e Cinthia di aprirsi nuovamente all’accoglienza e nel 2004 è arrivato Artiom: un bambino moldavo di 6 anni e mezzo.
 

Foto di Emanuele Zamboni

 

Non lo volevo
ma poi è entrato a far parte della mia vita

 
«Fin da piccolo – racconta Nicola, 27 anni – abbiamo ospitato a tratti qualcuno che aveva bisogno per brevi periodi e la cosa mi ha lasciato bei ricordi, un bel concetto di accoglienza, ma non molto di più.
A 13/14 anni, i miei genitori hanno detto a cena a me e ai miei fratelli che avevano in mente di ospitare per 2 giorni a settimana 1 ragazzino con dei problemi familiari e un ritardo, che aveva 2 anni in meno di me di nome Michele, e ci chiesero cosa ne pensammo : la mia risposta secca fu “NO”, perché casa mia era casa mia e non di altri».
Loro hanno accolto questo ragazzo in casa nonostante il mio dissenso.
Nicola non capiva perché i suoi genitori trattassero bene questo ragazzo, ma effettivamente lui, 14enne, era quello più vicino alla sua età. Suo fratello e sua sorella erano più grandi.
Poi, «crescendo ho realizzato pian piano che mi si poneva una scelta: o lo dovevo evitare e dovevo accettarlo. Principalmente per vivere meglio».
«Andando poi all'università dove sono stato accolto in casa di altri e a mia volta accogliendo ogni anno nuova gente, mi è rimasto il pungolo di Francesco a casa mia che nel frattempo cresceva e continuava a venire a casa a Verona».
«E pian piano ho accettato che lui ci sia, l'ho accolto semplicemente accettando che venisse e che fosse lì, con noi.  Poco: semplicemente una cena, 4 parole, forse una partita a carte… ha cambiato molto».
«Adesso sia lui che i suoi genitori, anche se sgangherati, sono entrati a far parte ella mia vita, e quando non lo vedo chiedo dov’è, con un senso di affetto».
 

Foto di Emanuele Zamboni

 

Dall’istituto ad una famiglia “normale”.
Adesso restituisco l’amore ricevuto

 
Asia, 19 anni, ha sperimentato l’esperienza di essere accolta. «Fin da quando ero piccola ho dovuto cambiare varie comunità, paesi, scuole, amici... non capivo il motivo per il quale una bambina dovesse vivere questi drastici cambiamenti senza la sua famiglia. È stato difficile e doloroso non sapere mai cosa sarebbe stato di me: se sarei potuta tornare a casa, rivedere i miei amici, giocare con i miei giochi... ho pensato spesso di non avere un posto nel mondo, che sarei sempre stata sorvegliata e che non avrei mai potuto, come gli altri, fare una vita normale»
Dopo anni trascorsi in comunità, ha avuto la possibilità di entrare nella grande famiglia di Jimmy Garbuyo, attuale presidente di Famiglie per l’Accoglienza «una famiglia normalissima – spiega Asia – con bambini che mangiavano insieme, giocavano, facevano sport, andavano a scuola».
Oggi che – maggiorenne – è tornata a vivere con sua mamma può dire che quelle esperienze «mi hanno trasformata in una persona sensibile, in grado di riflettere su se stessa e sugli altri. Negli ultimi anni ho fatto grandi passi avanti impegnandomi molto a la scuola, con gli amici e con la famiglia e cercando di tener duro nei momenti difficili».
La consapevolezza che ha raggiunto è ora il punto forte della sua persona e le permette di raccontare la sua con sicurezza, anche davanti a centinaia di persone.
«Adesso torno ancora a trovare la famiglia che mi ha accolto, ed è bello vedere i bambini che mi corrono incontro. Giochiamo, facciamo i compiti insieme», e così, come in un cerchio, l’accoglienza ricevuta viene restituita in un immenso dono d’amore.