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25 Maggio 2020

Morire di coronavirus o di fame?

Uno sguardo su quello che sta succedendo nei Paesi in via di sviluppo da quando è scoppiata la pandemia.
Morire di coronavirus o di fame?
Intervista alla dr.ssa Moramarco, nutrizionista che segue la parte nutrizionale del progetto Rainbow in Zambia.
Siamo ormai abituati in questo tempo a parlare del Covid 19. Lo conosciamo ormai in maniera approfondita e abbiamo visto la scia di morti e disperazione che si è portato dietro. Lo abbiamo però conosciuto in un’ottica occidentale, dalla parte di coloro che hanno gli strumenti per poter affrontare la pandemia sia dal punto di vista sanitario che sociale.
Ma nei Paesi in via di sviluppo cosa sta succedendo da quando è scoppiata la pandemia? Siamo, forse anche giustamente, concentrati su di noi e facciamo fatica ad alzare lo sguardo sul mondo.
Nei Paesi in via di sviluppo questa pandemia rischia di essere devastante non tanto per il virus in sé, quanto per le conseguenze che le misure restrittive hanno per la popolazione. In questi Paesi milioni di persone ogni giorno si muovono alla ricerca di cibo. Il non potersi muovere, a causa del lockdown rischia di far morire di fame tantissime persone.
Affronteremo qui le problematiche della pandemia dal punto di vista dello Zambia, il Paese in cui iniziò la presenza missionaria (1985) della Comunità Papa Giovanni XXIII. Abbiamo chiesto alla dr.ssa Stefania Moramarco di farci il punto della situazione. Stefania è nutrizionista e ricercatrice presso il dipartimento di Biomedicina e prevenzione dell’università di Roma Tor Vergata. Si occupa della supervisione della parte nutrizionale del progetto Rainbow in Zambia in collaborazione con l’università di Roma.

La situazione in Zambia prima del coronavirus

Stefania, parlaci intanto dello Zambia, per farci conoscere la situazione economica e sociale prima dello scoppio della pandemia.
«Lo Zambia è un Paese che non se la passava bene già prima del coronavirus. Con quasi il 50% della popolazione malnutrita, il valore della moneta locale diminuito anno dopo anno a differenza del prezzo del cibo che è incrementato periodicamente, il problema della fornitura di corrente elettrica che da qualche anno scarseggia e viene centellinata tra la popolazione (con aree di lockdown alternate di 8 e più ore)… questi sono tutti fattori che hanno contribuito a dichiarare nel 2019 lo stato di emergenza e a fare destinare dalla FAO specifici supporti per contrastare la grande crisi alimentare che ne è derivata (circa 10% della popolazione in emergenza fame – 2 milioni di persone).
A questo si deve aggiungere la difficoltà di accesso ai servizi (servizi sanitari, pubblici), con solo il 60% della popolazione con accesso ad acqua potabile, il 30% a servizi igienici, e solo il 15% della popolazione con accesso a servizi igienici con integrate strutture di lavaggio delle mani e sapone. L’unico ospedale pediatrico del Copperbelt si trova a Ndola (dove operano i centri del Progetto Rainbow) è ha una utenza di circa 2,5 milioni di persone, in un contesto però dove la malnutrizione infantile è una emergenza di sanità Pubblica.
Queste condizioni già prima del Covid sono importanti per inquadrare le problematiche e le domande che ci facciamo ogni giorno sul futuro di questo Paese e dei nostri beneficiari».

L'importanza della prevenzione e lotta alle fake news

Come è cambiato lo Zambia con il Covid?
«Erano gli inizi di marzo quando è scoppiata l’emergenza in Italia. Ricordo che era già iniziato il lockdown per me a Roma quando con Gloria Gozza, coordinatore del Progetto Rainbow in Zambia, abbiamo valutato necessario convocare un meeting con gli operatori dei centri nutrizionali. In quel momento non ci erano ancora stati casi in Zambia ma temevano che non sarebbero stati esentati a lungo. La prima cosa era cercare di spiegare agli operatori cosa fosse il Covid e da quale situazione surreale fossimo stati travolti, in Italia ma in generale nel mondo. Informare e Formare: alcuni delle chiavi di sostenibilità su cui si basa in Progetto Rainbow. Informare sulle problematiche, sui rischi, sull’invulnerabilità di nessuno e formare sulle norme di prevenzione. Abbiamo fatto vedere dei video pubblicati dall’OMS e distribuito materiale informativo.

Coronavirus in Zambia
Dispenser d'acqua per lavarsi le mani, messo a disposizione dal progetto Rainbow in Zambia


La lotta alle fake news è più che mai necessaria in Zambia, dove il ricorso alla stregoneria e all medicina tradizionale è ancora troppo radicato (non tardarono ad arrivarmi immagini con raccomandazioni locali per sconfiggere il virus: mangiare cibi piccanti, bere liquidi caldi ed immancabilmente bere tanta acqua!). Poi abbiamo distribuito prodotti per la disinfezione dei centri e un bucket (dispenser) per l’acqua, in quanto doveva essere richiesto il lavaggio delle mani a chiunque prima di entrare nel centro, compreso nelle community schools. Ci siamo confrontate con gli operatori e abbiamo convenuto che fosse necessario limitare alcune attività di gruppo dei centri nutrizionali per evitare assembramenti: stop momentaneo a dimostrazioni di cucina e lezioni di gruppo, si poteva procedere solo con le visite individuali sullo stato nutrizionale e di salute dei bambini…e poi velocemente tutti a casa. Gli operatori avrebbero dovuto informare tutte le mamme e fornire loro le informazioni necessarie per prevenire l’infezione di Covid-19 anche nella vita quotidiana.
Ma i primi 2 casi di infezione da coronavirus non tardarono ad arrivare anche in Zambia, ed arrivarono in aereo con due Zambiani di rientro dalla Francia».
 
E il Governo zambiano che provvedimenti ha preso?
«A quel punto il primo decreto del Presidente fu emanato: vietate riunioni e assembramenti, stop alle scuole, chiusura dell’aeroporto di Ndola».

I centri nutrizionali in Zambia al tempo del Covid-19

 E voi come vi siete organizzati?
«Così già a fine marzo le attività dei centri nutrizionali furono completamente stravolte e si decise che da aprile tutte le attività fossero soppresse ma si iniziasse a distribuire solo una volta al mese tutto il cibo necessario per i nostri bambini e le loro famiglie, nonché il sapone per il lavaggio mani. Sulla pratica del lavaggio mani, credo che siamo stati molto fortunati (o forse qualcosa di più) perché nel 2019 avevamo fatto una grande campagna di sensibilizzazione dei nostri operatori e poi di conseguenza delle mamme, sull’importanza del lavaggio mani. Grazie ad una delle nostre volontarie infermiera che voleva svolgere la tesi nei centri nutrizionali, avevamo creato un cartellone per ogni centro con i 10 steps per il corretto lavaggio delle mani, seguendo le linee guida dell’OMS ma adattandolo al contesto zambiano. Per mesi, tutti i giorni, il team di Rainbow (Maxilda – supervisore locale dei centri nutrizionali, Mutinta – nutrizionista locale, Dolores – casco bianco, Claudia – volontaria e laureanda in infermieristica) è andato in giro per i centri a formare gli operatori e poi, a cascata, gli helpers e le mamme. Abbiamo anche associato alle procedure una canzone locale per assicurarsi che le mamme strofinassero per almeno 20 secondi (la canzone diceva più o meno “la mamma che non si lava le mani ha perso il sale in zucca”! La canzone è stata la chiave di volta per istruire una popolazione che tramanda i messaggi più per via orale che per iscritto). Quindi da Aprile non è stato difficile dire alle mamme di lavarsi le mani prima di entrare al centro per prendere il cibo, e poi andare subito a casa».
 
E dopo questa fase?
«Da maggio abbiamo iniziato la distribuzione a tutti di un kit sanitario: mascherine fatte di stoffa locale (chitenge) seguendo le indicazioni del CDC Americano, sapone per le mani, detersivo per le superfici. Il kit sanitario è essenziale come prevenzione del Covid tra i nostri beneficiari ma anche tra i nostri operatori che, dopo tanti anni che ci seguono, non sono più oramai così giovani e ognuno di loro spesso ha già altre patologie. Ma il kit sanitario è essenziale anche per il quadro sanitario che lo Zambia si porta dietro già prima del Covid: le malattie infettive e le diarree sono tra le prime cause di morte dei bambini al di sotto dei 5 anni, soprattutto quando questi bambini sono malnutriti. Quindi non facciamo nulla di nuovo, ma lo vogliamo fare con più impatto e su più larga scala e che sia sostenibile per più tempo.

Donne in Zambia con mascherina coronavirus
Donne zambiane con la mascherina per proteggersi dall'epidemia di coronavirus. Le conseguenze del lockdown rischiano di far morire di fame molte persone

L'impatto del Covid-19

Lo Zambia ha sempre dovuto puntare tutto sulla prevenzione ed ora più che mai: 45 posti di base in terapia intensiva non sarebbero in grado di reggere il propagarsi dell’epidemia di Covid.  Prevenire il Covid, partendo dalle norme igieniche, è una delle principali strategie vincenti – forse l’unica sostenibile a mio avviso tra quelle attualmente implementate - attuabili in Zambia.
L’emergenza Covid ci porta anche a riflettere su come potersi proteggere dalle epidemie sia comunque un lusso. Banalmente per lavarti le mani devi avere acqua e sapone, le case dei nostri beneficiari non hanno acqua in casa, ma l’acqua va presa dalla fontana (o dal pozzo)… questo significa che bisogna spostarsi, che bisogna fare movimenti essenziali quotidiani. E ciò contrasta con le indicazioni dello stare a casa il più possibile. Poi la tematica casa apre altre dinamiche di assembramento domiciliare e non solo: in Zambia si vive in spazi piccolissimi e si dorme spesso tutti nella stessa casa. Le case poi sono attaccate una all’altra nei compound (le baraccopoli). Stare a casa per chi cerca lavoro giornaliero (e parliamo della maggior parte della popolazione zambiana che non ha lavoro e stipendio fisso ma vive di piecework occasionali), è impossibile: si rischia di morire di fame. Gli operatori dei centri raccontano che è aumentato il numero di donne che ora vanno di casa in casa per chiedere se possono lavare i vestiti o pulire in cambio di qualche soldo. Soldi che servono prima di tutto per assicurarsi un pasto al giorno, sì, un pasto al giorno, perché c’è chi a mala pena riesce a fare quello. Le famiglie sono numerose, i bambini sono tanti, e il lavoro scarseggia come sempre, ma ora ancora di più. Il prezzo del cibo era già alto prima, e questo di certo va a scapito delle scelte alimentari: ci si assicura l’nshima (la polenta) perché sazia tutti ma poi la carne, le uova, il pesce, rischiano di essere per pochi. Ovviamente neanche quei pochi che hanno un salario fisso sono agevolati, perché il prezzo del cibo e dei trasporti che sale pesa sulle loro spalle e su salari (100-200 euro al mese) che non aumentano e non riescono a stare dietro a tutte le spese».
 
Come cambia la vita nei nostri centri?
«Cambia perché oltre a quello che ci siamo detti prima, non possiamo essere ora il punto di riferimento che da sempre siamo, con i centri nutrizionali, per la comunità locale: se la madre ha un problema (personale, per il figlio o per pagare il trasporto pubblico per andare in ospedale) sa che può rivolgersi al centro Rainbow. Sa che qui incontra chi l’ascolta, sa che giorno può trovarlo, sa con chi parlare, sa a chi affidarsi.
Cambia che i nostri operatori vorrebbero fare di più ma non possono.
Cambia che noi che siamo confinati in Italia non possiamo andare da loro, non possiamo esserci fisicamente e non sappiamo ancora per quanto.
Cambia che si vive alla giornata e si aspettano gli sviluppi: che chi sostiene che l’Africa nella curva epidemiologica dell’infezione è indietro rispetto all’Europa, e che si rischia di avere una strage da Covid nei prossimi mesi. Poi c’è chi dice che l’età giovane della popolazione e il clima caldo impediranno l’esplosione dell’epidemia… ma in Zambia si stanno approcciando alla stagione invernale ed aumenteranno a breve i raffreddori e le febbri, che sarà difficile distinguere dal Covid, soprattutto nel compound. Poi la nostra popolazione rischia di partire svantaggiata per via della prevalenza di HIV e della malnutrizione che compromettono la risposta del sistema immunitario. Ma sono tutti ipotesi e paure che tali rimangono per ora. Devo dire che sembrano più paure nostre, che loro, perché un popolo a convivere ancora con le morti per malnutrizioni, le morti per morbillo, le morti per fame, le morti per malattie infettive è un popolo che, anche se ce lo siamo dimenticato, già conviveva in modo inaccettabile con le epidemie e l’ingiustizia di non avere abbastanza cibo per tutti».