Topic:
17 Luglio 2020

Giovanni Paolo Ramonda: «Portiamo la condivisione con i poveri anche nei Paesi ricchi»

Il 25 luglio la Comunità Papa Giovanni XXIII eleggerà il prossimo responsabile generale. Ramonda traccia un bilancio del suo mandato.
Giovanni Paolo Ramonda: «Portiamo la condivisione con i poveri anche nei Paesi ricchi»
Foto di Caterina Balocco
Sposato, papà di una numerosa casa famiglia, dalla morte del fondatore Don Benzi avvenuta il 2 novembre del 2007 è lui a guidare la Comunità Papa Giovanni XXIII. Da allora è quasi raddoppiato il numero di Stati del mondo in cui l'associazione opera accanto ai più poveri ed emarginati.
Sessant’anni, piemontese di Sant’Albano Stura, in provincia di Cuneo, Giovanni Paolo Ramonda ha conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII a 19 anni attraverso il servizio civile, a 20 ha aperto con altri giovani la prima casa famiglia in Piemonte, a 24 si è sposato con Tiziana Mariani e da allora, oltre ad aver avuto tre figli naturali, insieme portano avanti la responsabilità di una numerosa casa famiglia.
Scena di vita familiare, Don Oreste Benzi insieme a Giovanni Paolo Ramonda e la moglie a pranzo
Nel 1980 Giovanni Paolo Ramonda apre in Piemonte la prima casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII della regione, inaugurata da Don Oreste Benzi
Foto di archivio Sempre

Ma da oltre 12 anni lui si trova a gestire una “famiglia” molto più grande, dato che dopo la morte di don Benzi, avvenuta nel 2007, in quanto vicepresidente ha dovuto reggere l’associazione ad interim in attesa della convocazione dell’assemblea che il 13 gennaio 2008 lo ha eletto responsabile generale. Incarico confermato per altri sei anni nel 2014. Ora anche questo secondo mandato volge al termine e con lui tracciamo un bilancio.

Giovanni Paolo Ramonda all'assemblea annuale
Quest'anno parteciperanno in presenza solo i delegati ma tutti i membri dell'associazione potranno seguire l'evento in streaming
L'intervento di Giovanni Ramonda a un'Assemblea internazionale della Comunità Papa Giovanni XXIII.


Di solito le assemblee generali della Comunità sono un evento di popolo, durano tre giorni, con migliaia di persone provenienti da tutto il mondo. Ma questo è l’anno del Covid 19. Come sarà l’assemblea fissata per il 25 luglio?
«Sarà un’assemblea in piena regola, con il voto dei delegati in rappresentanza di tutti i membri della Comunità, come prevede il nostro Statuto. Saranno fisicamente presenti soprattutto quelli italiani. Ma potranno votare via web i delegati di tutte le zone del mondo in cui siamo presenti. Lo stesso giorno voteranno anche il bilancio dell’associazione, che non è solo una somma di numeri ma l’occasione per fare il punto del cammino. Tutti i membri dell’associazione potranno seguire l’evento via streaming da ogni parte del mondo in cui siamo presenti.» 
 
Due mandati consecutivi da responsabile generale. Come vivi questa nuova scadenza? 
«La mia vita e la mia identità vocazionale sono segnate dall’essere sposo e dalla scelta che ho fatto assieme a mia moglie di vivere la casa famiglia. Il mio servizio di responsabile generale è pro tempore, finché la Comunità ne ha bisogno. In questi mesi di lockdown ho potuto gustare a tempo pieno la bellezza della casa famiglia. Se dovessi tornare ad un semplice vita di papà di casa famiglia sarei comunque sereno. Se invece la Comunità mi chiedesse di continuare nel mio servizio, tiro avanti. Siamo comunque sereni.»
 
Parli al plurale, questo lascia intendere una sintonia di coppia.
«Per una persona sposata ci deve essere una sintonia di coppia nel portare avanti queste scelte. Del resto anche don Oreste, in quanto sacerdote, doveva conciliare la sua responsabilità nell’associazione con quella di parroco.»

«Viaggiare meno per incontrarci di più»

Dicevi che con il lockdown anche tu hai dovuto stare molto a casa, mentre prima eri spesso in viaggio, anche all’estero. Come è cambiato il tuo ruolo?
«In realtà questi mesi mi hanno permesso di incontrare moltissime persone, sia individualmente che in piccoli gruppi, quelli che noi chiamiamo “nuclei”. Prima quando andavo a visitare una zona, in giro per l’Italia o all’estero, ero spesso di corsa. Invece attraverso il web ci si può incontrare con calma, senza affanno, ascoltandosi  in profondità.» 
 
Ora le frontiere tra le regioni italiane sono state riaperte e si stanno riaprendo anche quelle tra stati. Tornerò tutto come prima?
«Non potrà più essere come prima. Lo sintetizzo in uno slogan: viaggiare meno per incontrarci di più. Tante cose che abbiamo imparato in questo periodo dovranno rimanere, tra l’altro si risparmia e si inquina di meno. È una scelta di sobrietà: selezionare i momenti e gli impegni essenziali, saper utilizzare bene le risorse di cui disponiamo, se dobbiamo viaggiare farlo possibilmente insieme, usando lo stesso mezzo di trasporto. Un nuovo stile di vita.»

Missionari, anche nei Paesi ricchi

Nel 2007, quando morì don Benzi, la Comunità era presente in 25 Paesi del mondo, oggi in 44. A cosa si deve questa espansione? C’è dietro un progetto?
«Nella storia della Chiesa dopo la morte del fondatore c’è sempre una esplosione del carisma. Lo Spirito Santo è all’origine del carisma e accompagna il cammino suscitando nuove aperture. Dobbiamo essere docili alla sua azione. Dietro ogni apertura c’è la disponibilità di qualcuno che ha deciso di mettere a disposizione la sua vita e una comunità che ha deciso di confermare il cammino aderendo alle chiamate che vengono dai poveri, o anche dai vescovi. Poi ci sono dei passi concreti da compiere, gestire aspetti organizzativi, conoscere la legislazione di quel Paese, affrontare un impegno economico, inserirsi nella cultura. Per entrare davvero in un nuovo Paese ci vogliono dai 10 ai 20 anni.»
 
La missionarietà della Comunità Papa Giovanni XXIII all’inizio era rivolta verso il sud del mondo, soprattutto Africa e America Latina, mentre negli ultimi anni si è orientata verso Stati come l’Olanda, la Germania, la Francia, la Spagna, che hanno economie simili alla nostra. Cosa ci vanno a fare i missionari? 
«In realtà stiamo continuando ad andare anche nei Paesi poveri, ma è vero che c’è una presenza crescente in altri economicamente sviluppati. La nostra è anzitutto una testimonianza di vita. Ci sono Paesi che economicamente stanno bene ma sono carenti sul piano umano perché ad esempio non fanno più nascere bambini down. Essere lì con una nostra famiglia o casa famiglia che accoglie proprio dei bambini down significa far capire, non a parole ma con i fatti, quanto queste persone siano una risorsa capace di umanizzare l’ambiente sociale in cui vivono.» 

Condividere direttamente la vita con gli ultimi

Partita da Rimini 50 anni fa, la Comunità si è allargata in tutto il mondo. Ma a differenza di altri movimenti nati negli stessi anni, che contano decine di migliaia di aderenti, i membri della Comunità sono poco più che 2000. Come mai?
«Il nostro è un piccolo gregge che porta una luce particolare nel mondo. La nostra vita è molto esigente. Non ci troviamo solo per pregare – anche se la preghiera per noi è importantissima – ma mettiamo la vita insieme, tra di noi e con i più poveri ed emarginati. Dobbiamo gioire di tutti i movimenti nella Chiesa, come di tutte le parrocchie, stimarci a vicenda, ed essere fedeli al nostro cammino specifico.» 
 
Cosa vuol dire, concretamente, oggi, fare parte della Comunità Papa Giovanni XXIII?
«È un cammino di Chiesa, il nome stesso è un riferimento. Gesù si rivela a noi nei poveri e sofferenti: “Ero ammalato e mi avete accolto”, oggi anche ammalato di Covid. È un accorgerci che Cristo povero e servo ci attira a sé. Lo specifico visibile è la condivisione diretta con gli ultimi: tutti i membri della Comunità sono chiamati a viverla. I modi possono essere moltissimi: nella casa famiglia, nella scuola, nelle cooperative, nella professione… La domanda da farsi è: Gesù, cosa vuoi da me?»
 
Attorno alla Comunità girano migliaia di persone: i giovani in servizio civile, le  famiglie affidataria, i lavoratori delle cooperative, i volontari che supportano le varie attività, i sostenitori che la supportano anche economicamente. Si può in un certo senso essere della Papa Giovanni anche senza farne ufficialmente parte?
«Dai frutti li riconoscerete, dice Gesù. Non basta essere membri giuridici per dare frutti, come non basta essere battezzati per vivere da cristiani. In questi anni ho incontrato molte persone che collaborano con noi e danno la vita pur non essendo membri dell’associazione. Dobbiamo camminare con tutti, nella chiarezza e nel rispetto reciproco.»

La mission della Comunità è centrata sulla condivisione di vita con gli “ultimi” e sull’azione per rimuovere le cause dell’emarginazione. Papa Francesco lega però la causa dei poveri a quella ambientale. 
«Papa Francesco sta mettendo in faccia al mondo molti punti caratteristici della nostra Comunità. Dice tantissime cose che diceva don Oreste anche se non si sono mai incontrati. Se potessi gli direi che anche lui ha la vocazione della Papa Giovanni! Ogni anno come Comunità scegliamo un tema da approfondire in modo particolare: spero che il prossimo sarà proprio l’economia di condivisione legata all’ecologia integrale proposta dalla Laudato si’.» 

La Comunità è una sfera 

La Comunità – diceva don Benzi – non è una piramide ma una sfera: non c’è chi comanda e chi esegue ma ogni punto sorregge il tutto, perché in ognuno agisce lo Spirito Santo in maniera unica e irripetibile. Come si può tenere unità una comunità così vasta e articolata senza rischiare di imporre regole che soffocherebbero l’azione dello Spirito?
«Non è semplice ma è necessario. Occorre avere chiara la centralità di Cristo e il fatto di essere all’interno di un cammino di Chiesa, che è storia di un popolo. Poi dare valore ai tanti "sì" che vengono detti da chi accetta di rispondere alla chiamata che il Signore continuamente fa. Non abbiamo regole ma linee chiare ed esigenti. Questa chiarezza dà massima libertà ad ognuno: chi ti potrà impedire di continuare ad amare? I responsabili non fanno altro che tenere unita questa vita in un cammino di popolo. Più che un dirigere è un confermare.»
 
Varie volte ti sarai trovato a dover prendere decisioni difficili. Hai un metodo?
«Don Oreste diceva che il compito principale di un responsabile è pregare e incontrare i fratelli. Cerco sempre di ascoltare la persona, e quando la situazione è complessa anche le altre persone coinvolte, senza pregiudizi. Quando ci sono scelte da fare, le porto al Consiglio dei responsabili, a meno che non ci sia estrema urgenza. A volte ho già un mia idea, ma devo avere l’umiltà di non credere che possa già essere la scelta giusta, e ascoltando i miei fratelli responsabili possono emergere aspetti che non avevo valutato, si comprende meglio, si va in profondità. È previsto però dal nostro Statuto che il Responsabile Generale possa decidere anche autonomamente, e questa è una libertà grande che la Chiesa di ha riconosciuto.»
 
Don Benzi invitata a leggere i segni dei tempi per essere sempre «contemporanei alla storia». Che segni vedi attualmente e quale strada indicano?
«I segni che vedo oggi sono molti, ma se devo scegliere ne cito due. Il primo riguarda la nostra identità. La Chiesa – dice spesso papa Francesco – non basta che viva con i poveri ma deve vivere da povera. Questo vale anche per la nostra Comunità, tanto più che uno dei punti della nostra vocazione è proprio la scelta di povertà. Una comunità povera con i poveri. L’altro segno: mi ha colpito vedere quanti anziani sono morti nella solitudine di una casa di riposo durante la pandemia. Dobbiamo scardinare l’idea che la soluzione per gli anziani sia la casa di riposo, tanto radicata che a volte sono loro stessi a chiedere di andare al ricovero perché si sentono un peso. Uno degli slogan che ci ha caratterizzato fin dall’inizio è “Chiudiamo gli istituti, apriamo le famiglie”. Vale per i minori e per i disabili, ma anche per gli anziani.»