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19 Ottobre 2019

John Mpaliza, 3000 Km a piedi per restare umani

Partiti il 20 giugno 2019 da Trento, la Marcia Restiamo Umani arriva oggi a Roma per l'ultima tappa. 3000 chilometri a piedi. Un richiamo all'Italia e all''Unione africana, perché quelli che stanno morendo nel mare sono i loro figli e le loro figlie».
John Mpaliza, 3000 Km a piedi per restare umani
«Questa marcia vuole essere uno strumento nonviolento con cui mandare un messaggio chiaro alla politica in generale ed in particolare a chi lucra sulle difficoltà e l'insicurezza dei più deboli: siamo tutti uguali, i diritti sono di tutti, abbattiamo i muri e costruiamo ponti, restiamo umani».
John Mpaliza, dopo aver percorso 3000 Km a piedi in 4 mesi, sabato 19 ottobre è arrivato a Roma.  Gli ultimi km, scrive sul suo profilo facebook, li ha dedicati a chi, «nel #Rojava, sta resistendo contro l'invasione turca. Solidarietà e sostegno a tutto il Rojava ed a tutta la #Siria in generale!»

Peace Walking Man

John, meglio conosciuto come “Peace walking man” è partito il 20 giugno 2019 da Trento, in coincidenza con la Giornata mondiale del rifugiato. Cittadino italiano di origine congolese, da anni marcia per la pace in Africa e in Congo. Ormai da 26 anni in Italia ha sentito di non poter rimanere indifferente di fronte all’ondata di odio e paura che mette in pericolo i valori fondamentali della nostra società. Per questo motivo ha dato vita alla Marcia “Restiamo umani”, dal motto di Vittorio Arrigoni, cittadino italiano e attivista per i diritti umani, rapito e ucciso a Gaza, in Palestina, nel 2011.
«Questa marcia – dice nel manifesto ­– vuole essere uno strumento nonviolento con cui mandare un messaggio chiaro alla politica in generale ed in particolare a chi lucra sulle difficoltà e l'insicurezza dei più deboli: siamo tutti uguali, i diritti sono di tutti, abbattiamo i muri e costruiamo ponti, restiamo umani».

John Mpaliza. Restiamo umani va dal Papa

Arrivo a Roma della marcia Restiamo umani
Appuntamento il 20 ottobre a Roma in piazza San Pietro con la Marcia Restiamo Umani


Domenica 20 ottobre le associazioni e tutti i partecipanti che hanno aderito alla marcia saranno in Piazza San Pietro per consegnare una lettera aperta a Papa Francesco, da sempre impegnato al fianco dei migranti e dei più deboli.
“Vogliamo sostenere Papa Francesco, chiedergli di continuare a fare quello che sta facendo e di fare ancora di più – spiega John. Faremo avere la nostra lettera anche al presidente Mattarella, che è garante della Costituzione. Sarà indirizzata anche all’Unione africana, perché quelli che stanno morendo nel mare sono i loro figli e le loro figlie e loro non stanno facendo nulla».
 
Restiamo umani. Da Trento a Roma passando per Lampedusa
Diverse le città toccate in questi mesi: Torino, Milano, Napoli, Reggio Calabria, Palermo fino a Lampedusa.    
Anche noi di “Sempre” lo abbiamo incontrato questa estate, in una delle sue tappe. Era a Siena, ospite della casa famiglia, accompagnato da alcuni compagni che, tappa dopo tappa, lo affiancano durante il viaggio. 

John Mpaliza e compagni di viaggio
John Mpaliza assieme ad alcuni compagni di viaggio, durante la tappa senese.
Foto di Nicoletta Pasqualini

Abbiamo trascorso una serata assieme attorno ad una grande tavola, mangiando pizza a volontà preparata e cucinata da una signora nigeriana. 
Il giorno dopo, molto presto, lui e i suoi compagni, con lo zaino in spalla, erano già pronti per riprendere il cammino in Val d’Orcia. 

C’eravamo conosciuti nel 2015, aveva 46 anni. Un anno prima aveva lasciato il lavoro di ingegnere informatico per il comune di Reggio Emilia, per diventare a tempo pieno un «attivista per i diritti umani e camminatore per la pace», per porre fine al massacro di vite in Congo. Stava per intraprendere una marcia fino a Helsinki.  

Ecco cosa mi raccontò.

Chi è John Mpaliza? 

È un cittadino italiano. Cammina  per le strade d'Italia e d'Europa per denunciare e sensibilizzare su ciò che sta succedendo nella Repubblica democratica del Congo, suo paese d'origine, in guerra da vent'anni, una guerra oggi invisibile.
«Il buon Dio è stato troppo generoso» dice della sua terra Mpaliza. Il padre gli raccontava che mentre Dio camminava con un secchio in testa inciampò e fece cadere tutto lì. Petrolio, oro, diamanti, zinco, coltan – quella polverina nera tanto essenziale per la produzione del nostro hi-tech – sono racchiusi in questo “paradiso terrestre” che le multinazionali non si sono lasciate sfuggire. 
«Siamo ricchi da morire – dice con tono sarcastico – questa è la nostra disgrazia, questo è quanto le multinazionali vanno a cercare, e quando non possono ottenerlo creano guerre economiche. Non sono guerre tribali, altrimenti il Congo sarebbe già diviso in pezzettini, dato che vi sono circa 450 etnie». 
Un paese ricco i cui abitanti muoiono per stenti e violenze. «Quando gli elefanti combattono – cita un altro proverbio africano – chi ne fa le spese è l'erba». L'erba sono le persone deboli, gli elefanti i potenti. 

John Mpaliza. Perché cammina?

Sono 5 anni che John Mpaliza cammina, accompagnato dalla sua chitarra e dalle ormai consumate bandiere del Congo e della pace. Roma, Bruxelles, Reggio Calabria e tra poco Helsinki, partendo sempre da Reggio Emilia. Tanto da guadagnarsi l'appellativo di Peace Walking Man.
Sono riuscita a  raggiungerlo al Liceo Fermi di Padova, tappa di un tour nel Veneto tra scuole e università. Con i suoi rasta che danzano al continuo ondeggiare del corpo sempre in movimento, parla ai giovani con la forza di un guerriero, aiutandosi anche con la sua chitarra. Ai ragazzi dice: «Vi racconterò qualcosa che vi distruggerà dentro. Voglio sperare che quando qualcuno uscirà da qui sentirà un piccolo senso di colpa». Fa vedere loro cosa sta dietro i cellulari, il coltan appunto, un minerale leggermente radioattivo che serve per una migliore gestione della corrente nei dispositivi elettronici. «Viene rivenduto a peso d'oro, 600 dollari al chilo in Europa contro pochi centesimi,massimo 1 euro al chilo, pagati dalle multinazionali». Me ne dà in mano barattolino: pesa tantissimo. L'80% di questo “oro” si trova proprio in Congo. Quindi un pezzettino di questo Paese è nelle tasche di ognuno di noi. 

John Mpaliza. Perché non vive più in Congo? 

«È stato dimostrato che le multinazionali che realizzano i cellulari – denuncia – spendono parte dei proventi per continuare a finanziare i gruppi ribelli, in sostanza per rubare questo minerale». Una realtà di cui John Mpaliza si è reso conto nel 2009, al suo ritorno in Congo, a Kinshasa, da dove era scappato nel '91 per motivi politici. Scopre che il padre è morto in guerra, la sorella è dispersa e sua madre prega Dio che sia morta, perché sono indicibili le atrocità che le donne subiscono in tempo di guerriglia.
«Ho trovato uno scenario infernale: nonostante la presenza dei caschi blu e della missione Onu per la pace, in Congo la guerra non è mai finita, è in corso quella che si chiama “guerra di bassa intensità” ma che ha fatto circa 8 milioni di vittime in meno di 20 anni e circa 4 milioni di donne che hanno subito violenze come arma di guerra.»
John è nato a Bukavu ma studia a Kinshasa, dai Gesuiti, dove nell''89 consegue la maturità scientifica. Si iscrive ad ingegneria politecnica. In quel periodo scopre che c'è un partito clandestino oltre a quello unico del dittatore Mobutu. I ragazzi come lui ascoltano in segreto la radio, sentono del crollo del muro di Berlino, aleggia la voglia di libertà. È il 1991, la società civile si mobilita, ma Mobutu dà l'ordine di sparare uccidendo migliaia di studenti nelle 3 università del Congo. 
John rischia molto ma fortunatamente riesce ad uscire e a 21 anni lascia il suo Paese.
Per 5 anni, fino a quando Mobutu non scapperà in Marocco, non potrà più mettersi in contatto con la sua famiglia perché  ricercato. Arriva in Algeria dove riprende l'università. Nel '93 parte per un viaggio in Europa, ultima tappa: Roma. «Lì ho perso l’aereo che avrebbe dovuto riportarmi in Africa – racconta –. Ma proprio in quei giorni c’era un attentato in Algeria, perciò ho deciso di restare in Italia». Con un permesso di asilo politico che non gli permette di lavorare né studiare, cerca di sopravvivere.

In Italia al mercato degli schiavi

Fa i lavori più duri a Giugliano in Campania, Castel Volturno, Napoli. «La sofferenza più grossa la sentivo quando ci radunavano in piazza per scegliere chi sarebbe andato a lavorare, mi sentivo ad un mercato di schiavi».
Finalmente nel '96 riesce a convincere le autorità a cambiargli tipo di permesso di soggiorno per poter lavorare in regola e riprendere gli studi.
Da vero guerriero non molla, ci riprova, si laurea alla triennale in ingegneria informatica all'Università di Parma. A Reggio Emilia mette radici, lavora per il Comune come programmatore sistemista per dodici anni. 

Dopo il viaggio in Congo, però, nulla è più stato come prima. «Ho provato a scrivere della situazione congolese a vari giornali ma non ho trovato spazio». Inizia così a spendersi in prima persona, fino ad arrivare l'anno scorso alla scelta: «Mi sono trovato ad un bivio, dovevo cambiare, non ce la facevo più a sostenere tutto. Come dice un proverbio africano: “Il cane ha quattro zampe, ma non prende due strade alla volta”.»
Licenziarsi in tempo di crisi dopo aver fatto tanta fatica... ma sai quello che hai fatto?
«Sì, so quello che ho fatto. Certo, a spiegarlo a dei ragazzi in una scuola di Reggio Calabria, dove sono stato di recente, quasi quasi mi sono vergognato, perché lì il lavoro non c'è. Ma non potevo rimanere in silenzio, far finta di non aver visto.»

Perchè usi i piedi per andare a parlare con la gente?
«Non si possono cambiare le cose dall'alto ma dal basso, andando ad incontrare le persone. Sono partito mettendo a disposizione quello che ho, i piedi. Con i piedi si va più lentamente, si incontra gente, nelle scuole, nelle università, nelle chiese, chiunque accetti di ascoltare. Si stringono mani. Con l'aereo o anche solo con la macchina sarebbe impossibile.»                

Oggi che non fai più l'ingegnere come vivi?
«Posso dire che vivo di provvidenza, tanta ospitalità, sostegno. Ho lasciato la casa, ho regalato la macchina, ma io sono ricchissimo, anche se mi sono rimasti pochissimi soldi in tasca. Non ho lasciato un lavoro per far soldi, ma perché ho scoperto la mia missione. Oggi sto sensibilizzando in Europa ma il prossimo anno sarò in Africa.»       

Ma in Congo non sei il benvenuto
«Non è possibile sensibilizzare solo i ragazzi europei e non quelli africani, che devono crescere sapendo che cosa hanno a disposizione. Dopo vent'anni di guerra bisogna ricostruire le menti delle persone. Non si può cambiare l'Africa stando in Europa».

Sulla strada c'è stato qualche incontro particolare?
«Essere sulla strada vuol dire anche essere in costante pericolo. Quando piove io non mi fermo perché mi stanno aspettando da qualche parte per un evento. C'è una sofferenza fisica ma anche morale, psicologica, in queste condizioni si pensa troppo. Mi sono ritrovato a 46 anni a volte a piangere da solo. Ma ci sono anche delle esperienze molto belle. Come quando una coppietta di anziani, in un pomeriggio piovoso in cui stavo andando verso l'Aquila, mi ha chiesto se avevo bisogno di un passaggio. Ho spiegato loro le ragioni per cui dovevo proseguire a piedi. Il giorno dopo mi hanno raggiunto in macchina per vedere se stavo bene, dicendomi che di notte non erano riusciti a chiudere occhio, e mi hanno consegnato una borsa piena di cose da mangiare.»

È possibile la pace dove ci sono così tanti interessi politici?
«Se ad un africano togli la speranza non può più lottare. Così come in Italia la mafia fa perdere la speranza. Voglio sperare che facciano qualcosa i giovani che domani dovranno decidere, per questo li incontro. Spero progettino cose sostenibili, ed eque. Le cose si possono cambiare con gesti piccolissimi.
Gandhi diceva: “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.»