Il 4 maggio compie 40 anni la Legge che regolamenta in Italia l’affidamento familiare e l’adozione e che – fin dal suo titolo – parte con l’intento ben chiaro di dichiarare, di sancire, come recita il frontespizio, il “Diritto del minore ad una famiglia”.
In questa occasione il Tavolo Nazionale Affido ha organizzato una tavola rotonda nel corso della Giornata Nazionale dell'Affidamento Familiare.
Per la storica legge, ogni minore ha il diritto di crescere all’interno di un sistema familiare, ma il primo articolo, al primo comma, specifica ulteriormente: “Il minore ha diritto di crescere ed essere educato nell'ambito della propriafamiglia”. La famiglia quindi deve essere quella di origine e lo Stato si impegna, nei commi successivi, a sostenere “i nuclei familiari a rischio”.
Solo in subordine quindi, nel caso di impossibilità di sostegno della famiglia, il minore potrà essere collocato in un’altra famiglia o in una struttura di tipo familiare.
È una rivoluzione copernicana: nel 1960 in Italia c’erano circa 150.000 bambini negli istituti.
«La Legge è nata dal recepire quello che da più parti in Italia già stava avvenendo; l’affidamento è nato prima della legge. Ad esempio nel 1976 c’era stata una delibera del Comune di Torino che recepiva l’affido; poi c’erano esperienze di accoglienza che non era l’adozione. Nello stesso tempo, dal punto di vista culturale, c’erano gli studi di Spitz, Bowlby, Winnicot, che spingevano sull’idea che il primo anno fosse fondamentale per lo sviluppo psichico e affettivo del bambino e che la risposta non poteva essere l’istituto. La Legge ha introdotto un concetto nuovissimo per l’epoca: la risposta al bisogno è un’altra famiglia, preferibilmente con figli propri». A parlare è Valter Martini, Referente del Tavolo Nazionale Affido, e per 21 anni animatore generale del Servizio Affido della Comunità Papa Giovanni XXIII».
«L’istituto – continua Martini – diventa un subordine, un principio straordinario; il bambino in stato di abbandono ha bisogno di una famiglia; mentre la temporaneità della difficoltà della famiglia di origine discriminava adozione e affido.
Diventa chiaro che l’affido è uno strumento di aiuto ad una famiglia in difficoltà. Non è uno strumento per allontanare, ma per aiutare la famiglia a recuperare. “A tener caldo il cuore di quel bambino” diceva don Oreste Benzi, in attesa che possa ritornare».
Col tempo alcuni ideali della Legge si scoprono difficili da realizzare. Ci si rende conto che «spesso ci sono difficoltà nell’aiutare famiglie a recuperare, i 24 mesi di durata massima dell’affido si tramutano in un intervento lungo, e questo ha un po’ snaturato lo spirito iniziale. L’affido sine die che tutti vorremmo superare ma non sempre è possibile».
«A volte – spiega sempre Martini – è estremamente complesso aiutare le famiglie di origine, e ci sono situazioni che difficilmente riesci a recuperare del tutto, penso ad esempio al caso di dipendenze, o di disagio psichico. E accanto a questi problemi oggettivi
ultimamente sono mancate molto le risorse per investire in progetti di aiuto; si intrecciano inoltre il tema dell’abitazione, del lavoro, dell’instabilità del nucleo familiare per cui ci possono essere situazioni variabili nel tempo. A volte non c’è recupero sufficiente per garantire rientro».
Un'altra criticità è che «nel tempo si sono sviluppati affidi giudiziari – ora sono l’80% – a discapito di quelli consensuali. E questo comporta un intervento pesante che limita la potestà genitoriale e impone percorsi di recupero».
L’affido consensuale invece si svolge in un clima di collaborazione. La famiglia affidataria si lega al bambino per il tempo necessario e può mantenere i rapporti anche quando torna nella sua famiglia. Quando l’affido funziona bene la famiglia affidataria continua anche dopo creando legame e supporto.
Negli anni la Legge 184 è stata integrata. Sono due gli interventi legislativi di riferimento. Il primo è la Legge 149 del 2001 che potenzia ulteriormente il diritto del minore a crescere in una famiglia e – altro passaggio epocale – dispone che «Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia» (Art. 2 comma 4).
La Legge 173 del 2015 invece si occupa del «diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare» e introduce la possibilità, qualora il minore in affido fosse dichiarato adottabile, che anche la famiglia affidataria possa diventare adottiva. Si è superata la così la distinzione netta tra famiglia affidataria e adottiva.
«Il problema grave – sottolinea Martini – è che non ci sono i dati, o meglio ci sono dati non omogenei, non confrontabili. Ci sono indagini non statistiche ma campionarie. Senza dubbio negli ultimi anni c’è stata una diminuzione forte dei minori in affido. Qualche anno fa c’era parità tra affido e comunità di tipo familiare, dopo il lockdown sono più in comunità».
Parole che trovano conferma in una rilevazione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 2019 dove si legge che «Il dato di fine anno 2019 certifica la presenza di 13.555 bambini e ragazzi di minore età in affidamento familiare, un valore che rappresenta l’1,4 per mille della popolazione minorile residente in Italia.
Se la vertiginosa crescita dei casi susseguente all’entrata in vigore della legge 149/01 […] si è arrestata ormai più di dieci anni fa, la costanza dei casi dell’ultimo decennio sembra perdere consistenza e mostra il fianco ad una diminuzione che è utile monitorare nella sua progressione già nel prossimo biennio alla luce di due eventi che potrebbero potenzialmente, e per ragioni molto diverse l’una dall’altra, ripercuotersi sulla dimensione annuale del fenomeno: da una parte la vicenda specifica e tutta interna al sistema dell’accoglienza del caso Bibbiano occorsa proprio nel 2019; dall’altra la vicenda ben più generale […] la pandemia da Covid-19 e la conseguente crisi economica e sociale avviatasi nel corso del 2020».
Ma le famiglie affidatarie sono le stesse di 40 anni fa? Negli ultimi 40-50 anni la famiglia è molto cambiata, come spiega Francesco Belletti, direttore del CISF: «Il sistema normativo – si pensi alla Legge sul divorzio del 1970 – ma anche i valori e le modalità stesse attorno alle quali le famiglie si organizzano sono mutati, in sintesi secondo due parole chiave: la prima è la “deistituzionalizzazione” cioè un’attenzione più alla sfera degli affetti e dei sentimenti, e sempre meno ai doveri; la seconda è la “atomizzazione”, cioè le famiglie si sentono sempre meno parte di un popolo, di una storia anche familiare, e vive a nuclei sempre più isolati.
Poi è vero, ci sono fenomeni contrapposti come lo sviluppo dell’associazionismo familiare, col suo bisogno di appartenenza ad un popolo, ma è minoritario».
Come si collega questo al tema dell’affido? «Si collega in modo contraddittorio, nel senso che mentre si pensa alla valorizzazione delle persone che compongono la famiglia, poco si pensa ad essere risorsa per gli altri. Quindi l’anima solidaristica che muove le famiglie affidatarie deve combattere anche una battaglia culturale. Ai giovani, anche quelli che frequentano i corsi di preparazione al matrimonio, viene detto di guardarsi dentro, di volersi bene, non viene raccontato come elemento costitutivo della famiglia l’apertura agli altri».
Per fortuna ci sono delle valide eccezioni. «Molte famiglie, d’altra parte – conclude Belletti – resistono e diffondono la pratica dell’accoglienza e il desiderio di vivere insieme.
Di fronte alla tendenza a difendersi dai legami, la forza naturale del legame dell’altro, il bisogno di non essere solo, è potente. La società odierna ha paura del legame, teme che sia un vincolo, un impedimento alla propria realizzazione e felicità. Il paradosso è che attraverso i legami si diventa più felici e più se stessi. I legami familiari sono legami che liberano, non che imprigionano»
Tornando al “compleanno” della Legge, abbiamo sentito anche Stefano Ricci, sociologo, esperto di politiche e servizi per l’infanzia e l’adolescenza e… con la moglie famiglia affidataria che ha dato casa ad oltre 60 bambini da quando si è sposato, nel 1984.
«L’affidamento familiare rimane uno strumento importante per il diritto dei minori alla propria famiglia e per essere aiuto alle famiglie di origine. È importante sottolineare questo aspetto: la famiglia affidataria è alleata della famiglia di origine, non concorrente.
D’altra parte ritengo sia importante che siano i servizi pubblici a delineare il progetto dell’affidamento: la titolarità pubblica è segno di assunzione di responsabilità da parte del pubblico. In questo modo lo Stato si impegna, coinvolgendo i soggetti che sono da coinvolgere.
Per questi 40 anni, continua «c’è molto da festeggiare, è importante che venga confermata la validità di questa modalità di intervento per tutelare bisogni di bambini in maniera così delicata e complessa. Dopo 40 anni l’impianto è ancora buono. La Legge 149 non ha cambiato, ma ha aggiustato il tiro rispetto ai valori della legge. È una legge che ha fatto tanto bene ai bambini e alle loro famiglie. Più che un traguardo è un tagliando. L’impianto è ancora valido e condivisibile».
C’è una criticità? «Se c’è una criticità potremmo dire che ha 40 anni ma non li dimostra. Nel senso che dovrebbe essere matura ma non lo è, perché è un intervento articolato, complesso, delicato, che va maneggiato con cura. Serve molta sintonia tra i soggetti ed è molto difficile fare sintesi tra soggetti pubblici e privati. Non è ancora stabilizzata una prassi definita in tutta Italia, c’è molta discrezionalità. Nonostante questo diamo gambe ancora all’affidamento familiare. Non è uno strumento che toglie i bambini alle famiglie di origine ma li restituisce alle famiglie in maniera più forte».
E conclude con un aneddoto personale: «Ad una bambina che avevamo in affidamento e che non sapeva come spiegarlo abbiamo suggerito: “Tu hai la tua famiglia e ne hai un’altra che ti aiuta”. Effettivamente lo slogan “una famiglia in più” è proprio vero. Bisogna fare percepire al bambino e alla bambina che sono pensati, desiderati, stanno dentro i pensieri degli adulti che si prendono cura di loro.»