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19 Aprile 2022
Ultima modifica: 19 Aprile 2022 ore 14:58

Marco e Ustyna: «Non possiamo abbandonare la patria in difficoltà»

Marco è italiano e Ustyna ucraina. Dopo aver portato i figli in salvo, hanno deciso di rimanere in Ucraina per aiutare la popolazione che soffre.
Marco e Ustyna: «Non possiamo abbandonare la patria in difficoltà»
Foto di di Francesca Ciarallo
Il viaggio di Marco Gallipoli, partito da Leopoli con i due figli piccoli fino al confine con la Polonia a piedi, ha fatto il giro del web. Per non spaventarli ha trasformato la fuga in una grande avventura. Molti giornali italiani hanno paragonato il suo viaggio a "La vita è bella" di Benigni.
Marco Gallipoli e Ustyna vivono in una bella casa a ridosso del centro di Leopoli. Sul muro una targa, dedicata ai nonni di Ustyna, eroi della resistenza contro la Russia nel secolo scorso.
Lui è italiano, romano, «Ma mi sento anche molto ucraino» - dice, lei è ucraina.
Sono rimasti a Leopoli dopo aver messo in salvo i due figli, Flavio e Aurora, di 9 e 7 anni.
Alcuni giornali italiani hanno paragonato il viaggio verso l’Italia di Marco con i figli a La vita è bella di Benigni: come un’avventura da vivere insieme e non la fuga da una guerra.

Il matrimonio di Marco e Ustyna
Foto di di Francesca Ciarallo

 
Si sono conosciuti a Perugia nel 2010. Dopo un anno di fidanzamento si sono sposati e sono nati i due bambini. Marco ricorda con emozione la prima volta che è arrivato a Leopoli: «Era inverno, c’era la neve ed era proprio un paese sovietico… tutto antico, tante lucine basse e i soldati in fila con i loro cappelloni, mi sembrava di essere nel dottor Zivago… per me era proprio la Russia!».

La mattina presto del 24 febbraio, colpita la periferia di Leopoli

Cosa vi ha spinto a scegliere di separarvi dai figli portandoli via?
«Mia madre – è Ustyna a parlare – per Natale era andata a trovare mia sorella che vive negli Stati Uniti. Doveva tornare per il compleanno di Aurora, il 20 febbraio, ma già il 16 febbraio sono stati cancellati i voli e non è potuta tornare in quanto Putin aveva deciso di “denazificare l’Ucraina”. Questo fu il primo shock. L’ambasciata italiana ci inviava diversi messaggi, di tenere cibo di scorta e coperte in macchina, serbatoi pieni… ma noi comunque eravamo convinti che la guerra non sarebbe arrivata perché il Donbass è lontano, si concentrerà li. In più pensavamo di essere coperti dalla Nato in quanto vicini alla Polonia. Tutto sommato eravamo tranquilli».

Il 24 febbraio, la mattina presto, viene bombardata Leopoli, viene colpita la periferia della città. Immediatamente hanno chiuso le scuole ed è cambiato tutto. Già le persone andavano a fare la fila ai bancomat e ai supermercati. La guerra era in qualche modo nell’aria da un po’, ma nessuno avrebbe mai immaginato che fosse di una tale portata. Le sirene suonavano in continuazione.
 
Marco il pomeriggio stesso in una ricerca di normalità va al parco con i bambini, «ma era mezzo vuoto». La notte un’amica si precipita a casa loro, impaurita, dicendo che il giorno successivo sarebbe partita. Alcuni loro amici erano già scappati, c’era il rischio di rimanere senza elettricità e fuori c’erano meno cinque gradi.
Venerdì 25 alle 3 di pomeriggio arriva una telefonata dall’amica: «Se volete venire preparatevi in un’ora, mio fratello ci accompagna al confine con la Polonia».
«È stato difficilissimo – racconta Marco – scegliere e prepararsi in così poco tempo. Ustyna subito mi ha detto che non sarebbe venuta, e io l’ho capita. Tra l’altro tutti dicevano che ci sarebbe stato un problema umanitario, e quando succedono queste cose sei proprio in balia dell’ignoto. Non sai cosa pensare, avevamo paura di restare ma anche di partire. Che magari lasciando casa non l’avremmo più trovata. Insomma non è come lasciare la casa estiva dopo le vacanze. È una sensazione di confusione e smarrimento. Non sai quando tornerai, cosa ritroverai. La tua vita cambia in un attimo, ti sfugge tra le dita, non ti appartiene più. Non esiste il “domani con calma ci organizziamo”, quasi non esiste più il pensiero logico».

La fuga con i bimbi, come un grande gioco

E i bambini?
«A loro abbiamo nascosto la paura. Non abbiamo mai pianto davanti a loro, abbiamo cercato di tutelarli. Il 25 hanno fatto lezione in DAD addirittura. Erano in 14 su 34. Alcuni amichetti avevano visto il bombardamento dalla finestra. Aurora, abbracciando la madre, le dice: "Io non voglio morire, possiamo andare per poco in un posto dove non bombardano?".
 
Con grande sofferenza il 25 pomeriggio padre e figli partono in macchina con il fratello dell’amica verso la Polonia. Ustyna ha voluto accompagnarli fino al confine, in macchina firmava la delega per la custodia dei figli a favore della sorella, nel caso fosse successo qualcosa. «Arrivati a 30 chilometri dal confine era tutto fermo, c’era una gran fila di auto, tutta gente che scappava. Questo signore doveva tornare indietro a prendere la sua famiglia, alle 10 di sera scattava il coprifuoco per la legge marziale, insomma ci ha lasciati lì».




Cosi è iniziato il viaggio a piedi di Marco con i bambini.
«I primi momenti cantavamo, pregavamo con questa amica che era con noi, io ogni tanto ho iniziato a fare dei video per mandarli a Ustyna. Nel momento in cui sono sceso dalla macchina ho chiuso con quello che lasciavo, il mio unico pensiero era dove dovevo arrivare. Ai bambini raccontavo che sarebbero andati prima in Italia poi dalla nonna in America, che avrebbero mangiato la pizza e il gelato, che in America c’era Disneyland. Insomma ho detto loro che stavano andando verso qualcosa di nuovo bello, che era proprio un’avventura. Gli dicevo che in Italia tante persone ci aspettavano... che avremmo incontrato i parenti, tanti amici.
A un certo punto – dopo una ventina di chilometri – ci siamo fermati a dormire in una scuola, in un villaggio sul percorso. Era tutto buio, era notte. Abbiamo visto una stradina e in fondo delle luci. Siamo andati a vedere e lì appunto c’era una cittadina tutta illuminata, con tanti volontari che aiutavano. Una signora ci ha parlato di una scuola adibita a dormitorio per i profughi, e un ragazzo adibito al traffico ci ha accompagnato lì. È stato bello, c’era tanta gente.
Intanto facevo questi video, per far sapere a parenti e amici che stavamo bene. Tutti mi chiedevano infatti notizie, ma io avevo le mani ghiacciate e non riuscivo a rispondere. Facevo i video e li inviavo. Poi era un modo anche per ricordarci in seguito di questo viaggio. Ho iniziato subito a mandare i video in diretta. Farli e poi caricarli era troppo lento. E lì qualcuno ha iniziato a seguirmi, anzi sempre più persone. Insomma quando sono arrivato al confine polacco erano virali.
Un giornalista Rai mi ha chiesto il video della nostra storia. Siamo finiti immediatamente su Rainews, poi Avvenire… da lì Rai1, Rai3 e via dicendo».

Oggi i 2 bambini sono negli Stati Uniti.

Marco e Ustyna restano in Ucraina

Ma voi perché avete deciso di restare? - chiediamo a Ustyna.
«Non avevamo altra scelta. Non si abbandona la patria in un momento di difficoltà. Gli ucraini sono come le api. Lavoriamo, siamo tranquilli e operosi. Ma non provate a toglierci il nostro miele.
La nostra guerra, la nostra lotta è finita nel 1991… noi non possiamo ridare indietro la nostra libertà. Io ho dei ricordi freschi, di quando i russi ci controllavano, facevano irruzione nelle case, ci accusavano di cose mai fatte e buttavano tutta la casa sottosopra. A volte prendevano mio padre e mia madre aveva timore che non tornasse. A scuola non potevamo fiatare.
Ecco ti pare che possiamo mai lasciare la libertà che oggi abbiamo?».