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20 Giugno 2022
Ultima modifica: 21 Giugno 2022 ore 08:11

Oscar Baffoni: appuntamento con Dio

Un infarto ha fermato il cuore del missionario della comunità di don Benzi. Lui che amava correre con la moto ora è corso in cielo riabbracciando chi lo ha salvato dal baratro. Il funerale domani, 21 giugno, a Fratte di Sassofeltrio (PU)
Oscar Baffoni: appuntamento con Dio
Foto di Riccardo Ghinelli
Una sera ha incontrato don Oreste Benzi che gli ha detto: «Vuoi lasciare tutto e venire con me?» e siccome le mezze misure non gli sono mai appartenute, l'ha seguito.
Mi aveva parlato di lui la prima volta don Oreste Benzi, proponendomi di intervistarlo. Oscar Baffoni, nato il 6 maggio del 1962, era caduto in basso ma attraverso gli occhi di quel sacerdote incontrato l’ultimo dell’anno alla stazione di Rimini, era riuscito a guardare in alto e si era rialzato.
Scampato ad un tumore, ora ha lasciato questa terra stroncato da un infarto. Lui che amava correre con la moto, è arrivato a quell'assoluto che aveva cercato trovandolo in Cristo, mettendo tutta la sua energia nella condivisione con i fuori casta.
 
Suo il merito dell’apertura della prima missione della Comunità Papa Giovanni XXIII in India nel 1995. Ed è stato nel 1998 che l’ho incontrato per l'intervista, di ritorno in Italia con Sirla, la moglie conosciuta in missione. Erano bellissimi insieme. Sirla, per lui, aveva lasciato il suo Paese e dalla loro unione sono nati 2 figli.
L’India lo ha ripagato accusandolo ingiustamente di essere una spia, perché non temeva di denunciare le ingiustizie. Successivamente dà vita alla missione in Bangladesh, Sri Lanka e poi in altri Paesi dell’Asia.  
Sembrava un guru con quei suoi capelli lunghi e gli occhi azzurri da istrione. Aveva trasformato la carica auto distruttiva che lo aveva portato a vivere a mille nella prima vita, in forza e coraggio da dare a chi incontrava nel suo cammino: poveri, diseredati, ragazzi che avevano smarrito la via. Molti lo hanno riconosciuto come “maestro”, sentendo che lui portava la loro sofferenza come se fosse la sua.

Anche io sono rimasta colpita da questa sorta di “santone”, così forte e sicuro, pronto a dare tutto se stesso senza riserve, riconoscendo anche in sé le fragilità e contraddizioni di chi sa che è sempre in cammino.
Amava l’emozione, la bellezza, che esprimeva nei suoi dipinti, nelle poesie, nelle bellissime foto. Sua è la famosa fotografia di don Oreste che accudisce un povero con le mani incatenate. A don Oreste questa foto piaceva molto perché esprimeva il suo desiderio di liberare i poveri dall'ingiustizia.

Don Oreste Benzi accarezza un indiano disabile
Don Oreste Benzi aveva un importante spirito missionario, eccolo in India, in visita alle prime esperienze missionarie della Comunità Papa Giovanni XXIII
Foto di Oscar Baffoni


Si è raccontato senza riserve perché ciò che era stato potesse servire a molti altri, che come lui credono che le cose grandi si possono realizzare solo vivendo grandi emozioni.
Arrivederci Oscar.


Oscar Baffoni: una vita al massimo

Inizia così la redenzione di Oscar Baffoni, nella sala d'attesa della stazione di Rimini. Solo, fatto di coca, fumo e alcol. Era l'ultimo dell'anno e aveva un appuntamento con una amica più fatta di lui, che era andata a finire sulla strada. Questa si faceva e si vendeva, lui si faceva ma conservava una buona facciata.
Stanco dal giorno, si addormenta ed arriva tardi all'appuntamento, ormai è mezzanotte passata.
La sala d'attesa è quasi vuota, in giro c'è qualche barbone, qualche tossico e chi dell'ultimo dell'anno non gliene frega niente, tanto tutti i giorni sono uguali. Arriva lì e la prima cosa che gli viene in mente di fare è sedersi su una poltrona libera. Appoggia la testa al muro e lo sguardo si fissa sulla parete davanti.
In quel momento non sa se quello che gli sta accadendo è vero ma vede passare davanti a sé, come in un film, tutta la sua storia. Il muro prende colore e zac zac eccola lì la sua vita: «Vedevo tutti i sogni che mi passavano davanti e com'era finita, io sentivo che era finita, era questione di qualche giorno, di qualche mese».
Lo sguardo rimane sconvolto ed allucinato. Gli si avvicina un'ombra nera che interrompe la visione della sua storia. È un prete dalla “tonaca lisa”. Comincia a parlargli. Gli chiede come mai si trovi lì. Si siede accanto a lui ed Oscar, che non aveva mai visto prima quel prete riminese nonostante anche lui fosse di Rimini, sente che qualcosa dal cielo è arrivato dentro il suo cuore smarrito, la sua bocca si apre e sputa parole come un fiume in piena. Racconta, e passano ore, racconta ancora e poi il prete dice: «Vuoi lasciare tutto e venire con me?». Si guardano a lungo negli occhi. A lui sembra irreale, la situazione gli ricorda Gesù, nel Vangelo quando parlava agli apostoli. Ma non gli importa più nulla. Si alza e la svolta inizia.
Un periodo in una comunità terapeutica della Comunità Papa Giovanni XXIII dove vede la luce e poi capisce di avere un forte spirito missionario. Zambia prima, poi in Bolivia sempre per dare una mano a fratelli della Comunità che già vivevano in terra di missione. Proprio in Bolivia conosce nuovi mondi, nuove culture. Sta con gli indios Chequa nella foresta amazzonica nella parte alta delle Ande, con gli Aimara con una missionaria del Mato Grosso che vive in un villaggio di quattromila Indios, dimenticati, in miseria. Quel tormento che si portava dentro e che sfogava su di sé si è trasformato in vita con i diseredati e non risparmia giudizi a quelli che secondo lui sono i “padroni” dei Paesi poveri.
Poi nel 1995 approda in India dove scopre l'amore della sua vita: Sirla, indiana, occhi neri, cappelli neri lucenti lunghissimi, e si sposano. Nel Paese trovano un po' di problemi: i missionari che operano in India usufruiscono di permessi di lavoro per cui ogni sei mesi devono uscire dal Paese e poi possono tornare.
Con l'avvento dei fondamentalisti Indù al governo, viene sospettato di essere una spia e ha dovuto andarsene con tutti gli altri missionari, da quello che oramai era diventato, oltre ad essere il Paese della moglie, anche il suo Paese.
Sembra comunque che la verità trionfi «perché di fatto non è vero che io sono una spia. È vero che sono un missionario; dicono che “Oscar, il bianco", non è venuto solo a portare lavoro, ma è venuto anche a cambiare le caste. E questo non gli va bene. Perché quando si aiuta a togliere la gente dall'ignoranza si ha paura di perdere il potere».
 
Come sei arrivato in India?
«C’è stata la proposta del Vescovo Sosa Pachia sei o sette anni fa alla Comunità Papa Giovanni XXIII, ma allora nessuno era potuto andare. Così don Oreste ha chiesto a me. Mai avuto nessun fascino per i Paesi orientali, io nel cuore avevo l'Africa. Però sono partito.»

Oscar Baffoni con don Oreste in India
Oscar Baffoni sulla barca della Comunità Papa Giovanni XXII per la realizzazione di un progetto
Oscar in India

 

La passione per le moto

Quali erano i tuoi sogni da bambino?
«Avevo un forte amore per l'arte. Ho sempre dipinto fin da bambino, ho vinto anche dei concorsi regionali, però c'era un sogno più grande: quello di diventare un pilota di motocross. E in parte c'ero riuscito: alcune riviste mi avevano definito “la giovane speranza italiana”. Andavo abbastanza forte. Avevo la famiglia contro: c'era mio babbo contrario da una parte, favorevole mia madre dall'altra, che però non mi poteva aiutare
economicamente. Così sono andato via da casa a lavorare per potermi dedicare alle moto. Ho interrotto la scuola perché la passione per la moto era tutto, anche perché non avevo potuto fare l'istituto d'arte: mio babbo non voleva, sognava che diventassi un avvocato, invece sono
stato io dopo ad avere bisogno degli avvocati. Comunque nell'anno decisivo per la moto mi sono rotto tutte le ossa: le gambe, tutte e due le braccia, scheggiato il bacino. Addirittura ho voluto riprovare ma mi sono rotto ancora le gambe e le braccia, ormai i tendini delle mia braccia non tenevano.»
 
Quel sogno rimasto inespresso: di volare, di correre veloce, dove ti ha portato?
«La mia vita è stata un po’ movimentata. Per molti anni ho fatto il chierichetto e al pomeriggio tiravo i sassi con la fionda ai vetri della chiesa. Restavo vicino ai più deboli, alle persone anziane. L'ho sempre fatto con amore, stavo bene a far questo. Però allo stesso tempo ho sempre fatto una vita straviziata: cogliere cioè tutto quello che era emozione, esplorare e sperimentarlo. Sono arrivato a prendere delle strade che mi hanno portato alla tossicodipendenza. Ho iniziato a 15 anni con il fumo; ci si incontrava insieme con gli altri amici, si guardavano le stelle, la musica, si suonava, l'amore libero... tutti uniti dal desiderio di non dipendere dalla famiglia e di prenderci queste libertà che poi diventano schiavitù nel tempo. È un carico che resta sulle spalle fino ad arrivare a dei fatti che portano a cose più pesanti che ti fan dire proprio no alla vita. Era una forma di autodistruzione.»

Cosa succede quando si crede di non valere niente

Cosa ti faceva disprezzare tanto la tua stessa vita?
«Di fatto non ho mai accettato fino in fondo quello che ero. Spesso e volentieri mi vedevo inferiore agli altri. A scuola, ad esempio, quando volevo prendevo dei bei voti, ma la mia media era sempre disastrosa. Non accettavo la scuola, non ne avevo voglia, dentro mi sentivo incapace di fronte a tante cose. Anche nel volere bene avevo questi alti e bassi, questa forma di solitudine, di non accettazione. Capivo che c'era qualcosa dentro di me che non andava ma non sapevo cos'era, cosa mi mancava.»
 
Perché hai avuto bisogno degli avvocati?
«Ho vissuto il carcere da giovanissimo, a 19 anni, per tre mesi: ero coinvolto in traffici illeciti. La mia famiglia ha perso tutta la fiducia che aveva in me. Penso di avere una famiglia bella anche se mio babbo è morto a 49 anni di infarto. Per me era un amico, grande, solo che faceva un lavoro che lo faceva restare in giro molto tempo. Aveva una ditta di autotrasporti, viaggiava, comprava auto e poi le rivendeva, lo vedevo una volta alla settimana. Quando vai in carcere serve l'avvocato. Sono uscito, sono stato perdonato, aiutato e infatti quella volta ho smesso da solo di usare tutto per cinque anni, dopo una chiacchierata con mio padre che mi ha fatto capire la sofferenza che aveva. Dopo cinque anni lui è morto d'infarto, allora mi sono detto che non c'era niente, non c'era ragione, probabilmente in me non c'era stata una vera crescita per accettare tutto
questo; così ho iniziato di nuovo quella vita straviziata che andava dal casinò alle notti brave nei locali migliori.»

Oscar ha scoperto un amore più grande 

Quand’è che è arrivata la svolta?
«Ero arrivato ad un punto di dire basta, questo non mi piace, non me la sento di vivere e non avevo neanche più la forza per tornare al di fuori di questo: mi sentivo proprio stremato. Poi l'incontro con don Oreste avvenuto alla stazione di Rimini. E lì per la prima volta ho visto la luce.»
 
E poi?
«Durante il cammino terapeutico ho visto la seconda luce, e mi sembrava addirittura di non aver mai visto il sole, la luce prima. Prima, con gli occhi così appannati, vedevo solo i bordi della strada, poi l'erba sporca di catrame, non c'era quella panoramica che porta ai campi, agli orizzonti senza limiti, questo cielo aperto: la mia visione era limitata. Arrivi a pensare che tutto è corrotto, viaggi in quel binario e pensi che tutto sia così, che tutto puoi comperalo. Non è la verità.
Con la seconda la luce ho riscoperto la vita senza anestetici, nella sua piena verità. Non c'erano più le macchine, i begli abiti, la casa, le belle donne, mi sono sentito spogliato e nello stesso tempo ho sentito un gran pianto perché sentivo una vita buttata via. Mi faceva paura recuperarla ma il desiderio era grande.»
 
Anche Gesù è luce per te?
«La terza luce è stata il riscoprire tutte le capacità, la parte buona che c'era in me vivendo con le persone handicappate, con i barboni. In questo mi ha aiutato soprattutto Gesù, il maestro, che ti parla. Ascolti il Vangelo, metti in atto quella parola e scopri la verità. Non è un'illusione ma è la verità che puoi toccare con le tue mani tutti i giorni e la solitudine se ne è andata perché con lui non si è più soli. Dopo sono venuti ad arrestarmi un'altra volta, io ero nel carcere di sicurezza a Foggia, avevo la Bibbia e un ergastolano in cella con me ha voluto pregare anche lui. Quindi leggi nell'uomo il desiderio, riconosci che c’è un amore più grande che supera le solitudini umane, supera i cancelli del carcere, supera la droga, supera tutto.»
 
Cosa vuoi fare da grande?
«La vita è poter seguire Gesù nella verità, in quell'amore, accettando di fatto i limiti che hai. Ti rendi conto tutti i giorni quando volti le spalle a lui, a un Gesù che tocchi, che è amore, ascolto, silenzio, umiltà e verità, che le porte della morte sono sempre pronte ad attenderti. La luce è venuta nel mondo ma il mondo non l'ha accolta. Per me è uguale. Per restare con lui bisogna avere tanta umiltà che io sento di ritrovare quando gli volto le spalle; in quella sofferenza, in quel dolore comprendi che la via è lui e dopo assapori anche il suo perdono, la sua misericordia. Non ti giudica, vuole solo la tua vita e ti allunga la mano per rialzarti.»

Mi sento io più piccolo di quelli che non hanno niente

In India dove lo vedi Dio, dove lo concretizzi?
«Dove lo concretizzo e dove lo tradisco anche. Ci sono sempre molte persone che vogliono essere ascoltate però purtroppo sono un numero infinito, non riesco a parlare con tutti. Oppure nell'andare a trovare chi sta male e vai nonostante tu sia sfinito, stanco morto, però scegli di andare, di ascoltare. Umanamente capisci che è una cosa che non avresti fatto però dopo c’è il sorriso nel cuore e allora lì vedi che c'è Gesù, che lo puoi toccare, non nella volontà dell'uomo ma nella sua volontà perché Lui ti chiama: “Io sono in carne ed ossa sulla terra, io sono nei più piccoli, chi ha dato un bicchier d'acqua ai più piccoli l'ha data a me”.
A volte mi nasce il dubbio: ma sono veramente loro i più piccoli? Perché in verità mi sento io più piccolo di quelli che non hanno niente. Molte volte è scomodo essere dall'altra parte perché passiamo dalla parte dei potenti, di quelli che hanno.»
 
In occidente quando si pensa all'India si pensa ad una forte spiritualità. È vero?
«Gli indiani sono molto gelosi, di una gelosia che non avevo mai visto, tutto ammortizzato dall'induismo che in sintesi dice: “Se ti trovi nella merda è perché lì devi stare, vuol dire che nell'altra vita c’è stato questo perciò te lo meriti”. Un buon strumento per togliersi il peso dalla coscienza: “io mi merito di star bene, tu ti meriti di star male”. In parte però questa spiritualità c’è, perché è vero, là tutto è spiritualità, in
ogni posto trovi volti di dei, in casa c’è chi ha Cristo o Krishna, adesso anche Madre Teresa. L'indiano vuole farsi amico tutti gli dei. Ma tutta questa spiritualità viene disintegrata in un momento dal potere del denaro, tutto è rivolto al denaro. Che cos’è la forza del cristianesimo? È che ti chiama a metterlo in pratica, non solo a livello di pensiero.»
 
La miseria è la conseguenza di questa mentalità?
«I primi responsabili dobbiamo sentirci noi occidentali cominciando dagli inglesi che per cento anni hanno governato e hanno portato via agli indiani tutto quello che avevano. L'India è piena di gente capace nel lavoro, buona, intelligente, al di là delle caste, delle differenze sociali. Penso che se non fossero uno strumento del nostro mondo non si troverebbero così.»
 
In base alla tua storia, cosa diresti ai giovani che si trovano nel baratro?
«Per la mia vita dico grazie per quello che è stato, ma soprattutto per quello che è adesso. Quei percorsi neri, aspri, oggi si rivelano un frutto, sono maestri per la mia vita. Ai giovani che si trovano nel buio dico di non perdere la fiducia ma credere che nel mondo c’è tanto amore, anche se ci trasmettono tante immagini negative. Ci sono tante persone buone, positive, l'importante è scoprire dove cercare questa bellezza, cercare questo amore. Gesù è un buon maestro per scoprire dov’è. Non lasciarsi perdere dai limiti dell'uomo. Lui è la risposta alla vita.»