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18 Agosto 2023
Ultima modifica: 18 Agosto 2023 ore 11:41

Due donne suicidate in carcere: si poteva evitare?

Una si è lasciata morire di fame, l'altra si è impiccata. Sono solo le ultime due persone a togliersi la vita in cella.
Due donne suicidate in carcere: si poteva evitare?
Foto di Maurizio Degli Innocenti
Il sistema carcere non è un luogo rieducativo, ma violento e senza speranza. Ogni governo propone qualche soluzione, che però non viene poi messa in pratica. La proposta che può dare una svolta: «No alle pene alternative. Sì alle pene educative». Come fare? Ve lo spieghiamo in questo articolo.
È di qualche giorno fa la notizia di quelle due donne che si sono tolte la vita in carcere: una detenuta di 42 anni, mamma di un bambino di 4 anni si è lasciata morire di fame e di sete nel carcere di Torino; un’altra, di 28 anni, si è impiccata nella sua cella. Purtroppo non è una cosa così insolita. Il ministro Nordio ha dichiarato: «Ogni suicidio è una sconfitta per lo Stato, per la giustizia, è una sconfitta anche mia personale». Ma cosa si può fare a riguardo?
Abbiamo chiesto a Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto CEC (Comunità educante con i carcerati), di commentare questi fatti drammatici. 

Giorgio, tu ti rechi spesso a visitare i carcerati e ti occupi di loro da più di 20 anni. Sono casi isolati? Il suicidio in carcere è raro? 

«I dati dicono che dal 2000 ad oggi si sono suicidate 147 guardie carcerarie. Questo è un dato allarmante che dice non solo che i carcerati si suicidano, ma addirittura chi lavora nel carcere. È il sistema carcere che è malato. Il tasso di suicidi all’interno delle carceri è 19 volte superiore a quello della società esterna. Spesso, molti dei suicidi che avvengono in carcere, accadono proprio nei primi 6 mesi di detenzione. Questo succede perché si tende a mandare in carcere persone che hanno problemi di disagio psichico, più che problemi di delinquenza. 
Facendo riferimento al caso della donna che si è lasciata morire di fame, la Garante dei detenuti ha dichiarato che non ne sapeva nulla, eppure era da tre settimane che stava facendo il digiuno per protestare. Questo fatto, da una parte crea sconcerto, dall’altra sottolinea anche l’ordinarietà di questi fatti: c’è una persona che protesta in maniera molto forte, ma siccome sono tante queste situazioni, si tende a farci l’abitudine. Purtroppo spesso l’indifferentismo assale le guardie, gli educatori, i direttori del carcere, la stessa popolazione detenuta, e ancor di più la società intera. Quindi noi abbiamo accettato che il carcere può essere un luogo di violenza e si perpetua così l’indifferentismo, che è una brutta malattia».

Perché accadono questi fatti? 

«Accadono perché all’interno del carcere la persona è un numero. Immaginate una sezione all’interno di un carcere: c’è corridoio lungo, con tante porte a destra sinistra e dietro a queste porte ci sono 4-5 persone, che possono arrivare anche a 10-12 occupanti. Queste persone continuamente fanno richieste oppure si lamentano. La polizia penitenziaria dopo un po’, è disarmata di fronte a tutte queste richieste. Questo è uno dei motivi per cui, secondo me, c’è un alto tasso di suicidi anche tra le guardie.
Però vorrei aggiungere che i direttori, le guardie penitenziarie e gli educatori sono dei santi, in alcuni casi sono dei veri e propri eroi. Quello che dobbiamo combattere non sono loro, ma è il sistema carcere che non funziona. 
Per come lo abbiamo descritto prima, un sistema del genere non può svolgere quello che ci chiede la Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.» 

Invece accade spesso che il carcere, invece di essere un luogo di rieducazione, diventi un luogo di disperazione e morte. Che ne pensi? 

«È proprio così, purtroppo. La Costituzione parla di “rieducazione” e la parola “educazione” deriva da e-ducere, cioè tirare fuori il bello che c’è in ogni persona, mentre il carcere, proprio per il sistema di violenza che mette in atto, tira fuori il peggio. 
E che sia un sistema di violenza lo dimostrano le denunce sporte dai detenuti picchiati da altri detenuti: nelle carceri italiane ce ne sono 800 ogni anno, ma io penso che ce ne siano almeno il doppio, che però non vengono presentate per paura di ritorsioni. Questo è un sistema che per sua natura è violento, questo è il motivo per cui noi dobbiamo trovare delle soluzioni alternative.» 

Tu vai spesso a trovare i detenuti in carcere. In questi anni ti è successo di seguire qualcuno che poi si è tolto la vita? 

«Sì, è successo nei primi anni di attività con i carcerati. Mi avevano proposto di accogliere Marcello, era una persona in carcere, sola. Prima di accettare ho portato questa proposta in Comunità. Nel frattempo lui è riuscito ad ottenere un permesso premio, è andato a casa sua e si è suicidato. In quel momento mi sono detto: “Ogni persona che mi passa davanti, non posso considerarlo un numero”. A volte anche noi operatori e volontari, senza volerlo ci troviamo a fare questo errore, di considerare le persone come un problema da sbrigare: Invece ogni persona va accolta per quello che è, e necessita di risposte adeguate ai loro bisogni. Marcello mi ha insegnato che bisogna prestare vera attenzione a ciascuno.»

Cosa ne pensi di alcune proposte fatte dal Ministro della Giustizia? Quali proposte mette in campo la Comunità Papa Giovanni XXIII per i carcerati?

«Il ministro Nordio ha detto che bisogna differenziare le carceri in base alla pericolosità e ha parlato anche di usare le caserme e questo perché ha anche dichiarato che non è possibile costruire carceri nuove per un discorso economico, e non è neanche possibile per i lunghi tempi: servirebbero almeno 12 anni. Queste sue dichiarazioni sono interessanti. Anche lui ha dovuto pensare a delle soluzioni. Questo lo hanno fatto anche i governi precedenti e purtroppo le hanno solo pensate, ma poi non hanno fatto niente, questo è il dramma. Mi auguro che questo governo non cada nello errore cioè di proporre ma poi non fare niente: questo rischio è sempre molto alto.
La Costituzione, come dicevo prima, parla di pene educative non parla di “pena” al singolare, ma di pene al plurale, quindi possiamo differenziarle. Inoltre le pene devono essere educative. 
La questione quindi non è differenziare in base alla pericolosità, ma in base alla persona. Io ho trovato persone che avevano ucciso, ma che sono meno pericolose di altre che hanno commesso furti o rapine. Conosco persone che pur avendo fatto reati gravi, sono più disposti a svolgere percorsi educativi rispetto ad altri. Quindi è sulla dimensione educativa che noi dobbiamo prestare maggior attenzione.
Non è corretto pensare che la pena alternativa sia quella di proporre al detenuto di uscire dal carcere, andare a casa sua e trovare un lavoro; a mio avviso, dalla nostra esperienza, queste non sono la soluzione ideale. Invece la soluzione ideale è proporre al detenuto le cosiddette “pene educative”, cioè pene svolte in luoghi educativi, in spazi dove l’educazione è messa al centro di un percorso. Quindi non c’è più il tempo che passa, ma c’è un tempo che viene usato in maniera intelligente e utile, allora la pena diventa davvero educativa. 
Per questo noi promuoviamo luoghi che abbiamo chiamato “Comunità Educanti con i Carcerati”, dove la dimensione educativa viene messa al centro. E le abbiamo chiamate “con” i carcerati e non “per” i carcerati, perché anche i detenuti devono essere messi nelle condizioni di essere protagonisti del loro cambiamento e anche di quello degli altri. In Italia abbiamo sperimentato questa proposta da circa vent’anni, anche se l’accoglienza del primo detenuto - che si chiama Marino Catena -, risale a 50 anni fa.
In tutti questi anni la Comunità Papa Giovanni XXIII ha accolto tanti detenuti, poi nel 2004 abbiamo iniziato il progetto CEC. Sulla base di questa esperienza possiamo dire che il cambiamento delle persone è possibile, che la recidiva quando si lavora sull’educazione si abbassa dal 75% al 15% e in più queste comunità sono veri e propri luoghi di espiazione della pena e possono rappresentare una valida alternativa al carcere.
Quindi, partendo dalla nostra esperienza con i carcerati, noi diciamo “no” a pene alternative, ma diciamo “sì” a pene educative. Diciamo “no” a pene alternative che si svolgono in luoghi non educativi, e diciamo “sì” a pene educative che si svolgono all’interno di un percorso educativo, dove anche il lavoro (che spesso viene considerato uno strumento educativo, ma di per sé non educa) diventa educativo. 
Le case del progetto CEC in Italia sono 10 e si trovano nella regione Emilia Romagna ,Puglia, Piemonte e Toscana con risultati eccellenti.
Al ministro Nordio diciamo: “Venga a visitarci”, come ha fatto la Cartabia, che è venuta quando era già accaduto il governo. La Cartabia, che al tempo era ministro della giustizia, visitando questa casa disse: “Auspico che anche altre persone delle istituzioni vengano a visitare, perché solo vedendo se capisce che il cambiamento è possibile”. Auspichiamo che anche Nordio venga a visitare le nostre strutture per farsi un’idea di quello che può essere un’alternativa possibile e credibile al carcere.»

Superare il carcere è possibile? O va sopportato come il male minore?

«Non solo è possibile superare il carcere, ma adesso è anche doveroso. Diceva spesso don Oreste Benzi: “Dobbiamo rendere inutile il carcere”. È una frase che da più parti veniva contestata, ma lui era un profeta: è davvero necessario creare delle alternative al carcere, così da renderlo inutile. 
Noi crediamo che il progetto CEC sia una vera alternativa al carcere, almeno per 20.000 detenuti. Abbiamo fatto uno studio e se venisse garantita una retta da 40 € al giorno, ci sarebbero già in Italia 15.000 posti disponibili già da subito da parte di varie comunità che da subito accoglierebbero detenuti, se ci fosse un riconoscimento, non solo istituzionale, ma anche economico. Il male minore non è rinchiudere le persone in carcere, ma è aprire all’alternativa al carcere. Vi faccio anche un’ultima proposta: leggete il libro Carcere. L’alternativa è possibile che parla di tutto questo».