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30 Aprile 2022
Ultima modifica: 30 Aprile 2022 ore 07:38

Abolire la guerra. Sarebbe possibile se...

«È giunto il momento di abolire la guerra - ha detto Papa Francesco - di cancellarla dalla storia dell'uomo prima che sia lei a cancellare l'uomo dalla storia». Ma quali alternative propone il popolo della nonviolenza?
Abolire la guerra. Sarebbe possibile se...
Foto di Emanuele Zamboni
Anticipiamo la Storia di copertina di Sempre Magazine di maggio-giugno, dedicata in particolare al conflitto russo-ucraino, ma allargando lo sguardo al mondo intero.
L’invasione russa dell’Ucraina lo scorso 24 febbraio è una gravissima aggressione militare a uno stato sovrano. La vera, grande differenza per noi, rispetto agli ultimi 30 anni, è che ora abbiamo la “guerra in casa”, e questo non avveniva dal conflitto in ex-Jugoslavia. Bombardamenti, colonne di carri armati, missili, città distrutte, trincee, migliaia di morti per le strade, milioni di profughi in fuga dal Paese. E stragi, violazioni di diritti umani, tanti operatori dell’informazione che perdono la vita per raccontarla fino nei minimi particolari.
Arrivo dei profughi a Leopoli
Leopoli, Ucrania - Mentre i soldati combattono, intere famiglie scappano dai territori in cui si svolge il conflitto, che colpisce anzitutto le persone più vulnerabili.
Foto di Emanuele Zamboni

Il racconto mediatico della guerra in Ucraina

La prima guerra del Golfo, nel 1991, aveva cambiato radicalmente, rispetto al passato, il modo di fare informazione dai teatri di conflitto. Alla spettacolarizzazione di allora – la prima immagine che la mente richiama è la notte “verde” di Baghdad della CNN – ha fatto seguito il sistema dell’informazione embedded con giornalisti e operatori d’informazione sempre a seguito degli eserciti occupanti o stabili nelle basi militari: un’informazione sempre più pilotata dall’alto, che anestetizza la sofferenza di chi, nei vari conflitti, le bombe e i missili li subisce. Una tendenza che, negli ultimi anni, è stata contrastata dal giornalismo indipendente che ha cercato di dare un punto di vista più autentico.
I primi di aprile, alcuni inviati di guerra italiani hanno firmato una lettera molto critica rispetto a come i media (soprattutto i più grandi e diffusi) raccontano la guerra fra Russia e Ucraina. Affermano che viene «accreditato soltanto un pensiero dominante e chi non la pensa in quel modo viene bollato come amico di Putin e quindi, in qualche modo, di essere corresponsabile dei massacri in Ucraina». I firmatari si dichiarano «solidali con l’Ucraina e il suo popolo», e si chiedono «perché e come sia nata questa guerra». Invocano «un’analisi profonda su quello che sta succedendo e, soprattutto, sul perché è successo».

Il ruolo fuorviante dei social network

Altro capitolo della “narrazione tossica” di questa guerra è rappresentato dai social network. È sufficiente uno smartphone per fare riprese in tempo reale e postare su profili e pagine social. Questo da un lato aiuta il racconto, dall’altro è un elemento potenzialmente rischioso. L’ultima newsletter Misinfornation Monitor (newsletter indipendente di NewsGuard sulla disinformazione digitale) con dati esclusivi provenienti da cinque Paesi, evidenzia, per esempio, che «TikTok fornisce ai propri utenti contenuti falsi e fuorvianti sulla guerra in Ucraina entro 40 minuti dalla loro registrazione sull'app, senza bisogno che essi eseguano attivamente alcuna ricerca sull'argomento» e che «la ricerca di contenuti usando termini generici legati al conflitto, come “Ucraina” o “Donbass”, ha portato TikTok a suggerire diversi video che contenevano disinformazione tra i primi 20 risultati proposti».

Un conflitto che si poteva evitare

In questo quadro come si colloca il pacifismo? Mai come in questi ultimi tempi il dibattito sulle reali alternative nonviolente all’intervento militare è stato duro e controverso. La critica più forte è che i nonviolenti non danno alternative concrete.
«I pacifisti, in Italia e altrove – precisa però Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci – hanno reagito subito all’invasione russa dell’Ucraina: milioni di persone nel mondo hanno partecipato a manifestazioni e proteste. Oltre la richiesta di fermare la guerra c’è l’idea che la sicurezza non si protegga con le armi, che vada costruito un ordine internazionale di pace».
L’aggressione della Russia in Ucraina, del resto, non era inaspettata. «Sono passati otto anni dagli accordi di Minsk del 2014 – poco più di una tregua, un blando cessate il fuoco – che hanno posto fine al precedente conflitto che aveva visto la separazione dall’Ucraina della Crimea – annessa direttamente alla Russia – e delle regioni di Donetsk e Luhansk, resesi autonome da Kiev. E sono trascorsi almeno sei mesi dalle prime avvisaglie delle intenzioni di Mosca di normalizzare l’Ucraina». In tutto questo periodo, denuncia Marcon, la politica e la diplomazia internazionale sono state immobili: «Nessuna determinazione da parte dell’occidente e della Russia a ricercare una soluzione definitiva alla crisi, nessuna politica di prevenzione dei conflitti, nessuno spazio alle Nazioni Unite e all’Osce  – l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che ha un suo Centro per la prevenzione e la risoluzione dei conflitti – per accompagnare le tensioni internazionali verso soluzioni pacifiche fondate sul compromesso e la mediazione».
L’assenza di politiche di prevenzione non vale, tuttavia, solo per l’Ucraina, ma per (quasi) tutti i conflitti nel mondo. «Prevale la logica del potere degli Stati, l’uso delle armi – prosegue Marcon –. Manca una visione politica su come garantire la sicurezza comune, la determinazione a costruirla, gli strumenti adeguati all’obiettivo: quello di non far scoppiare le guerre. L’invasione russa in Ucraina sembra ignorare la lezione più importante dell’assetto geopolitico del dopo guerra fredda: con la guerra non si vince mai».

Una grande marcia della pace europea

Ma una volta che il conflitto è in atto, come dare concretezza alla proposta nonviolenta alternativa all’uso delle armi? Sul tema abbiamo sentito Stefano Allievi, sociologo, docente all’Università di Padova.
«Pacifisti e guerrafondai: bisogna uscire da questa logica binaria, da questa contrapposizione troppo facile – spiega lo studioso –. Non è pacifista chi si dice a favore della pace, ma chi fa qualcosa di concreto per produrre pace. Non è guerrafondaio chi sostiene che gli ucraini hanno il diritto di difendersi dall’aggressore anche con le armi, ma chi pensa che le armi siano l’unico modo per reagire all’aggressione russa».
Allievi è convinto che «di fronte a un’aggressione plateale e ingiustificata come quella russa sia necessario prendere una posizione chiara ed esplicita a fianco dell’Ucraina» ma allo stesso tempo sostiene che «nessuna opposizione alla guerra è credibile se non si paga un prezzo personale e non si attiva una testimonianza diretta».
E a questo proposito lancia un proposta: «Siamo contro il conflitto? Siamo pronti a pagare un prezzo, a fare dei sacrifici, per questo? Allora l’arma che abbiamo – se vogliamo che tacciano altre armi – è il nostro corpo. Usiamolo: non in alternativa alle altre forme di lotta e resistenza, ma al contrario in collegamento e in collaborazione con esse, come un’arma ulteriore a disposizione dei resistenti e, perché no, dei governi. Andiamo a praticarla, questa solidarietà, questo impegno attivo contro la guerra e contro l’ingiustizia, con una grande marcia della pace che coinvolga milioni di cittadini europei, che si mettano in cammino verso l’Ucraina, e poi verso la Russia (ma anche dentro l’Ucraina, e dentro la Russia, per quanto possibile). In maniera organizzata. Sostenuti dalla logistica pacifica dei governi e delle organizzazioni della solidarietà transnazionale. Ma disposti a correre dei rischi, come li corre chi combatte».

Occupare i territori con una presenza civile

È con questa stessa logica che Operazione Colomba, il corpo di pace nonviolento della Comunità Papa Giovanni XXIII, ha avviato una presenza in Ucraina.
«Siamo arrivati a Leopoli poco dopo l'inizio della guerra – racconta Alberto Capannini, uno dei responsabili – ospiti in un centro di accoglienza per profughi, nella periferia della città. Andando quasi tutti i giorni in stazione, abbiamo visto decine di migliaia di persone che scappano dai territori in guerra: come se la guerra avesse dichiarato proprio questo territorio togliendolo ai civili.»
Una presenza che ha colpito la popolazione locale: «Ci dicono: “È strano che voi veniate da casa vostra per stare con noi in un momento in cui bombardano la nostra città”». Abbiamo fatto questa scelta, spiega Capannini, per «affermare il diritto di vivere sulle proprie terre, il diritto di non lasciare la terra in mano a persone che dichiarano guerra decidendo così improvvisamente che quello è un territorio per morire e non per vivere».
Grazie a questa presenza è stato possibile organizzare anche la carovana di pace Stop the war now. «Dovevano venire anche dei parlamentari italiani ma poi c’è stato un dietrofront. Allora abbiamo proposto a chi volesse, alle associazioni italiane e alla società civile, di fare una carovana, una marcia. Centinaia di persone hanno aderito e sono venute qui sabato 2 e domenica 3 aprile a portare aiuti, a portare solidarietà e a portare in Italia persone.
i volontari di Stop the war now hanno portato aiuti sanitari e alimentari
Mentre gli Stati che sostengono l'Ucraina forniscono armi, i volontari di Stop the war now hanno portato aiuti sanitari e alimentari e una presenza di pace
Foto di Emanuele Zamboni

Così come la guerra uccide, la solidarietà si prende cura delle persone. Perché che pace è una pace che non ha cura delle persone e in particolare delle più fragili come i bambini e le persone con handicap?»

Un’ONU più forte ma democratica

Francesco Vignarca, coordinatore delle Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, è dell’idea che in un’emergenza così forte come quella odierna si possa solo cercare di limitare i danni.
«Le premesse per evitare la guerra vanno fatte crescere per tempo – dice – ed è qui dove la politica continua a fallire. La via di uscita vera, se non si vuole essere alla mercé di autocrati e interessi dei complessi militari-industriali, è voltare le spalle al militarismo, rafforzando la cooperazione fra i popoli. Oggi la Resistenza si chiama Nonviolenza e la Liberazione ha il nome del Disarmo
Un processo che richiede il ripensamento di alcune istituzioni internazionali, in particolare dell’ONU. «Questo conflitto ancor più degli altri ha evidenziato la debolezza dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, che non riesce ad essere efficace soprattutto a causa del diritto di veto, ovvero la facoltà di impedire una deliberazione di maggioranza, riservato in seno al Consiglio di Sicurezza a ciascuno dei cinque membri permanenti: Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia e Cina. Allora costruire la pace deve prevedere vincolativamente una via istituzionale: democratizzare la governance globale.»
Per raggiungere l’obiettivo, secondo Vignarca, occorre un forte impegno della società civile per «rompere l’autoreferenzialità dei vertici intergovernativi che non stanno portando a nulla». È necessario un potenziamento dell’Onu che però va accompagnato da una sua democratizzazione. «La Carta delle Nazioni Unite – conclude – inizia con le parole “Noi popoli delle Nazioni Unite decisi a salvare le giovani generazioni dal flagello della guerra”: è il momento di metterle in pratica.»

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