Addio a Marino Catena. Ispirò a don Benzi la prima casa famiglia
"Venga a vedere come muore un povero cristiano", disse un parrocchiano a don Benzi. Invece Marino si è spento a 81 anni tra persone che gli hanno voluto bene.
Don Benzi lo incontrò nell'inverno del 1972, e dopo aver visto le condizioni in cui viveva capì che era giunto il momento di dar vita a una casa in cui potesse essere accolto chiunque chiedesse aiuto. Da allora Marino ha toccato il cuore di tanti.
Si è spento stamattina, a 81 anni, per arresto cardiaco, Marino Catena. Il suo nome è legato a quello di don Oreste Benzi e in particolare alla nascita, a Coriano di Rimini, della prima casa famiglia, nel 1973.
La vicenda è raccontata in vari libri. L’ultimo, che ho curato personalmente – Casa famiglia. Le verità nascoste dietro un termine frainteso– la ricostruisce nel dettaglio.
Era dal 1968 che don Benzi – dopo la prima esperienza di vacanza condivisa con giovani disabili, per l’epoca assolutamente rivoluzionaria – sentiva la necessità di una struttura di accoglienza che favorisse il superamento di istituti e manicomi dove all'epoca vivevano da reclusi disabili e malati mentali. «Occorre una casa in cui accogliere qualsiasi fratello che chiede aiuto» aveva appuntato nel suo diario.
Da quell’intuizione si svilupparono varie vicende e incontri che resero possibile il passaggio dall’idea alla sua realizzazione, ma nei racconti di don Oreste il ruolo di Marino ha sempre avuto un posto decisivo.
Ecco come viene raccontato nel libro.
«Vada a vedere come muore un povero cristiano»
«È la sera del 28 dicembre 1972. Don Benzi ha appena terminato di celebrare la messa nella sua parrocchia (La Resurrezione, nella periferia di Rimini, lungo la strada che porta a San Marino) quando un parrocchiano lo raggiunge in sagrestia. “Vada a vedere come muore un povero cristiano” gli dice.
È buio, le strade sono coperte di nevischio, ma don Oreste sente che non può restare indifferente di fronte a questa segnalazione. Seguendo le indicazioni ricevute, percorre 17 chilometri fino ad arrivare al tugurio dove vive Marino.
Non c’è corrente elettrica né acqua corrente, tantomeno il riscaldamento. Il fuoco del caminetto è spento. La porta e le finestre sono aperte.
Marino è in piedi, appoggiato al tavolo e lo guarda con un tenue sorriso, quasi inebetito. Don Oreste prova a parlargli ma Marino non riesce a rispondere, è irrigidito dal freddo. Il parrocchiano non aveva esagerato, pensa don Oreste, davvero Marino rischia di morire se non si fa subito qualcosa.
Il sacerdote si attiva senza indugio: contatta i servizi sociali per cercare di capire come si sia potuti arrivare ad una simile situazione; interpella anche i vicini, ma capisce che non lo considerano come persona, lo liquidano come “un poveretto che abbaia ai cani”.
Per don Oreste è un chiaro segnale del fatto che la sua idea di una casa in grado di accogliere chi, come Marino, non ha alcun punto di riferimento, non può più aspettare.
I lavori di ristrutturazione della struttura di Coriano procedono e il 27 maggio del 1973 c’è una prima inaugurazione, alla presenza del sindaco e di alcuni cittadini. Ma è il 3 luglio di quell’anno che la casa famiglia prende il via effettivo, ed è dunque in quella data, il 3 luglio 1973, che nascono ufficialmente le case famiglia.» Marino è tra i primi accolti della struttura, e vi rimarrà per tutta la vita, anche quando, nel 2017, la casa famiglia viene trasformata in CEC, Comunità Educante con i Carcerati.
Un punto di riferimento per gli ex carcerati
Il suo cognome è Catena, e la sua storia è un simbolo di catene spezzate e dignità ritrovata.
A lui Giorgio Pieri, coordinatore delle Cec (attualmente 10, sparse sul territorio nazionale) ha dedicato il libro Carcere. L’alternativa è possibile.
Marino aveva una grave disabilità psichica. Ma il suo legame con il carcere è presente fin da quando era giovane. «Lui stesso era un ex detenuto – ci raccontaPieri – e quando era uscito dal carcere, non avendo punti di riferimento, era finito a vivere in quel tugurio dove lo ha scovato don Oreste».
Ma cosa ci faceva a Coriano, dopo che la casa famiglia era diventata una comunità per detenuti in pena alternativa al carcere?
«Aveva un ruolo unico nel loro cammino di rieducazione – spiega Pieri –. È la persona che più di ogni altra ha toccato il cuore di coloro che in questi anni sono passati dalla CEC. Marino era veramente folle, chiedeva continuamente attenzione, qualcuno che lo accudisse, ti metteva alla prova, ma nello stesso tempo ti sorrideva, ti ammaliava, ti tirava fuori il meglio. Ed è morto circondato da persone che gli volevano bene.»
Lo conferma Gustavo Russo, 43 anni, ex detenuto ora operatore CEC, che in casa con Marino ha vissuto per due anni: «La presenza di una persona con disabilità nel nostro cammino di rieducazione ha un ruolo fondamentale - dice -. Per la mia difficile esperienza di vita io, come tanti di noi, non ero cosciente del bene che c’era in me. Marino, con la sua magia, la sua follia, la sua tenerezza, la sua magia, mi ha aiutato a riconoscerlo».
Gli chiedo se c’è un aneddoto che ricorda in maniera particolare. «Ero arrivato a Coriano da pochi mesi. Lui ancora non mi conosceva bene. Durante la notte si sveglia e comincia a urlare: “Giorgio! Giorgio!” Io provo ad aspettare ma lui non smette. Alla fine vado e lui mi rimprovera: “Perché non sei venuto prima?”. “Perché io mi chiamo Gustavo e tu invece chiamavi Giorgio”, replico. E lui: “Non è colpa mia se hai due nomi!”. Marino era così, riusciva a farti ridere anche nel cuore della notte, quando ti sarebbe venuto da mandarlo a quel paese.»
Fadda: «Grazie a Marino tante persone si sono convertite»
Marino Catena fa parte di quella schiera di "ultimi" che accompagnano la storia della Comunità Papa Giovanni XXIII, giunti come accolti ma che in realtà svolgono un ruolo fondamentale, come sottolinea il responsabile generale dell'Associazione, Matteo Fadda: «Le persone che lo seguivano giorno e notte sono state contagiate dalla sua debolezza. Grazie a lui tante persone si sono convertite».
A sentire la storia di Marino, viene in mente un aneddoto che raccontava spesso don Oreste Benzi negli ultimi anni della sua vita: «Un giorno ho chiesto a un gruppo di persone chi sono i piccoli. Interviene Salvatore, un giovane con disabilità: “I piccoli sono quelli che fanno cose grandi”. E allora chi sono i grandi? Chiedo nuovamente. E lui: “Quelli che credono di farle”.»
Marino è stato un piccolo che ha fatto cose grandi.