È un discorso potente, quello fatto da Alberto Capannini, alla Seconda giornata dell’ONU dei Popoli 2025, il 10 ottobre a Perugia intitolata "Fermiamo le guerre e il riarmo".
Foto di Stop The War Now
L'intervento di Capannini parte da una premessa brutale sulla realtà contemporanea dei conflitti: «I civili sono, a partire dalla seconda guerra mondiale, un obiettivo militare». Non si tratta di errori, ma di obiettivi strategici. Di fronte a questa realtà, l'unica via d'uscita è che i civili, che sentono il problema direttamente, diventino «protagonisti del superamento della guerra».
La prima caratteristica di questo cammino, che Operazione Colomba porta avanti da più di trent'anni in Palestina, Colombia, Ucraina, Libano, Siria e Grecia, è l’umiltà radicale. Non è la storia di un eroe, ma l'ammissione costante del fallimento strategico: «Chi fa questo cammino deve imparare a perdere. Non è un cammino di vittoria in vittoria, non è una guerra fatta di Tom Cruise, insomma devi imparare a perdere, devi imparare a dire "ho sbagliato", devi imparare a dire "non so cosa fare". Il mondo sta cambiando. È importante dire che non sappiamo come affrontare le nuove guerre che abbiamo davanti».
La seconda idea fondamentale è l’abolizione delle separazioni. «Anche se non sappiamo cosa fare possiamo non lasciare le persone da sole». L'Occidente, secondo Capannini, vive nel pregiudizio che la propria vita valga più di quella di chi è nato in una zona di conflitto: «Noi in Occidente pensiamo che quelle persone, che sono nate in quel posto là, possono morire, ma pensare che la mia vita valga più di quella di un altro significa essere razzisti. La mia vita vale molto, tanto quanto quella di un altro».
Di qui la parte potente della testimonianza di Capannini, l’azione più radicale: «Andare a vivere con queste persone». Questo è il motivo per cui i volontari vivono a Kherson, città ucraina sul fronte, separata dal territorio controllato dai russi solo dal fiume Dnipro, dove colpi d'artiglieria, missili e droni arrivano «ogni giorno, ma io direi ogni minuto. A volte non si riesce a contare fino a 60 senza sentire un'esplosione, che arriva dalla parte dei russi sui civili».
«Quello che proviamo a fare è vivere con le persone, proprio perché proviamo a pensare che la nostra vita vale come la loro. Se loro rischiano, perché noi no? Se loro scelgono di vivere in un posto in cui non sai se domani sarai vivo, perché noi no se la nostra vita vale come la loro?».
Il concetto più incisivo di Capannini smantella la retorica geopolitica della pace. La parola è debole, ha perso la sua forza, necessita sempre di spiegazioni e spesso maschera interessi economici inconfessabili.
«Quello che mi sembra di poter dire è che il contrario della guerra non è la pace». L'accusa è mirata al cinismo di chi non vuole rinunciare ai profitti: «Per molti di noi, purtroppo, pace significa continuare a farci gli affari nostri... Ci sono tanti che non vedono l'ora che ci sia qualcosa che somiglia a uno straccio di accordo per continuare a comprare gas, risorse naturali da Paesi che violano i diritti umani. Questa cosa non si può più fare».
Il vero contrario della guerra, dunque, è la «costruzione di comunità». La resistenza civile nonviolenta si manifesta nel sostegno reciproco in risposta all'atto violento. In Colombia, le comunità, pur circondate da «almeno quattro diversi attori armati», scelgono di non collaborare e chiedono protezione internazionale.
In Ucraina, quando un giovane della comunità di Snizhana, è stato arruolato contro la sua volontà, la risposta è stata un atto di solidarietà totale: «Mandiamo un'altra coppia a vivere con la moglie di questo ragazzo che è stato arruolato forzosamente».
«Cos’è la risposta di una comunità alla guerra? Quando c'è un atto di violenza noi rispondiamo con più solidarietà. Quando c'è una situazione che toglie umanità noi rispondiamo con più umanità. Questa è la risposta più umana che si può dare alla guerra».
L'impegno dei volontari si basa sulla promessa di non abbandono, riassunta da una ragazzina incontrata nei rifugi sotterranei di Mykolaïv:
«Questa ragazzina si gira verso di me... e guardandomi, in inglese molto semplice mi dice: «You no ciao», cioè tu non vai via però… Credo che questo sia veramente, in questo momento di buio in cui non si capisce qual è la direzione che può prendere la pace, una piccolissima luce».
La promessa è vincolante: «Tu non sei qua per darmi una pacca sulla spalla e poi torni alla tua vita. La tua vita si lega alla mia finché rimane questa situazione di pericolo».
Capannini aggiunge che, anche se i volontari sono pochissimi e andare a Kherson (bombardata «quotidianamente, ogni minuto, ma veramente ogni minuto») è come giocare una partita a calcio 11 contro 1, l’imperativo è non preoccuparsi del numero, ma del fatto di aver incontrato persone come Snizhana che continuano a vivere e resistere.
In chiusura, Capannini rivela il motivo che permette ai volontari di affrontare il rischio della vita. Non è la strategia, ma un sentimento profondo. La domanda è diretta: «Hai mai amato veramente qualcuno?».
La risposta, che definisce il senso ultimo della resistenza nonviolenta, è sconvolgente per la sua incondizionalità:
«Cosa saresti disposto a fare a quella persona? Se si ama qualcuno, si è disposti a fare di tutto per quella persona. Non solo, saresti disposto a fare di tutto anche se quella persona non saprà mai che tu hai dato la vita per quella persona».
Afferma: «Quindi il problema non è il coraggio, il problema non è e la paura il problema è amare veramente qualcuno».
Questa è la sfida. Queste parole offrono una prospettiva concreta e tagliente sulla pace, lontana dagli interessi politici e dai fragili equilibri di paura, basata sull'unica forza che la politica non può armare: l'amore e la solidarietà tra le persone.