Essere a Gerusalemme oggi ti insegna che la realtà non è mai facile da interpretare. In questo crocevia di culture e religioni, in questa Terra Santa dalla spiritualità profonda, ti accorgi che la storia è fatta dalle decisioni degli uomini e che l’unica scelta possibile per un mondo giusto e di pace è stare dalla parte delle vittime, di qualsiasi fazione esse siano.
Lo sa bene Elia Vargiu, 24 anni, nato e cresciuto in una casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII di Cagliari. Dopo esperienze in Grecia con "Operazione Colomba", e poi in Iraq, Marocco e Cipro, oggi vive nella Capanna di Betlemme di Rimini insieme ai senza fissa dimora. Da poco è rientrato da un’esperienza in Israele che gli ha cambiato lo sguardo.
«Ho dovuto riflettere molto prima di partire» – racconta. «Ho sempre avuto il desiderio di vivere con i Palestinesi e di condividere le loro sofferenze. Mi pesava l’idea di stare dalla parte dell’oppressore. Poi, parlando con Antonio De Filippis, responsabile della Comunità per il Medio Oriente, ho capito quanto fosse importante una presenza anche sul lato israeliano.»
Già prima del viaggio, Elia si mette in contatto con alcuni obiettori di coscienza israeliani: pochissimi giovani che, pur di non combattere, accettano il carcere. «Sapere che esistono ha modificato la mia prospettiva» – spiega.
Arrivato a Gerusalemme – dopo ritardi dovuti all’attacco iraniano e a difficoltà logistiche – rimane sorpreso dalla normalità di una vita quotidiana protetta da un ottimo sistema antimissile. Gaza e la Cisgiordania occupata sono a un passo da lì, ma le brutalità commesse dall’altra parte quasi non si percepiscono.
Tra luglio e agosto, inizia così una presenza semplice, fatta di incontri e preghiera. «Sono arrivato in punta di piedi, non tanto per fare ma per esserci e respirare quell’aria. Le suore clarisse di clausura mi hanno accolto in cambio di piccoli lavori silenziosi e manuali. Ho partecipato con costanza ai momenti di spiritualità, imprescindibili in questa terra che invita a pregare per il mondo.»
Oltre al monastero, Elia cerca connessioni con le realtà locali. Incontra chiese, parrocchie, associazioni sia ebraiche che musulmane impegnate a contrastare l’estremismo religioso e a difendere i cristiani dalle discriminazioni. «Qui sono una minoranza. Molti vivevano di turismo, ma ora non hanno più nulla. Nel Vicariato di San Giacomo, piccola comunità cattolica di lingua ebraica, ho conosciuto ebrei convertiti al cristianesimo, stranieri fuggiti da situazioni difficili e oggi trattati come cittadini di serie B.»
Con un frate francescano visita i luoghi della vita di Gesù: «Un dono camminare sulle sue stesse pietre.» E con le suore di Madre Teresa raggiunge Tel Aviv, città moderna e opulenta dove non voleva andare. «E invece ci sono stato ogni sabato, scoprendo solo gli angoli più brutti, quelli in cui vivono senza fissa dimora, persone con dipendenze, persone trans a metà del loro percorso di transizione, immigrati costretti a vivere in strada dopo contratti di lavoro di pochi mesi. Le suore portano cibo e medicine, ma soprattutto una carezza umana. Anche lì ho pregato molto. Forse può sembrare strano in un Paese così, ma credo che senza la preghiera non ci sarà mai vera riconciliazione.»
L’ultima settimana Elia la trascorre in Cisgiordania con i volontari di Operazione Colomba. «È stato intenso. Ho capito quanto sia necessario stare da entrambe le parti. In mezzo a tanto dolore, se ti fermi e guardi con attenzione, percepisci anche speranza. Nonostante tutto, credo che un mondo di pace e giustizia possa accadere percorrendo la strada della nonviolenza.»
È stato un viaggio che gli ha aperto gli occhi e il cuore. «Mi sento fortunato: ho potuto incontrare persone, non schieramenti. Ho imparato che il dolore va accolto sempre, anche se appartiene al parente di un militare israeliano vittima della resistenza armata palestinese, in quanto essere umano, figlio di Dio, nostro fratello. Torno con la convinzione di dover amare e avere misericordia anche per gli israeliani, accecati dal dolore e dalla violenza, vittime di un sistema fondamentalista e di una società polarizzata che alimenta odio sin dall’infanzia.
Torno con la speranza che la Comunità Papa Giovanni continui a esserci, spinta dal sogno che i popoli di questa terra martoriata possano riconciliarsi, ricordando che la pace si costruisce da entrambi i lati.»