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20 Maggio 2019

Ci conviene far parte dell'Unione Europea?

«Il cittadino comune non ha la consapevolezza di quanto faccia l’Europa, c’è anche un problema di comunicazione.»
Ci conviene far parte dell'Unione Europea?
Foto di Denys Rudyi, Adobe stock
Perch&eacute; l&rsquo;Europa ci pone tanti vincoli? E per noi italiani &egrave; vantaggioso o svantaggioso farne parte?<br /> Ne parliamo con&nbsp;<strong>Maurizio Mussoni</strong>, titolare del corso di &ldquo;Economia dell&rsquo;impresa&rdquo; presso la scuola di Economia, management e statistica dell&rsquo;Universit&agrave; di Bologna.
Prof. Mussoni, dal punto di vista economico, quali sono state le tappe dell’integrazione dell’Europa?
«L’idea nasce dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, quando l’Europa era totalmente distrutta e squilibrata. Iniziò nel 1951 con la CECA, Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, beni fondamentali in gran parte in mano alla Germania. Si voleva contenere lo strapotere tedesco permettendo a tutti i paesi di competere sullo stesso piano. L’idea era quella di portare una pace duratura a partire dall’equità sul piano economico. Nel 1957 nasceva la CEE, Comunità Economica Europea, che estendeva i principi della CECA a tutti i settori economici con la libera circolazione di merci, servizi, capitali e persone. Stabiliva anche il principio delle pari condizioni di concorrenza, attraverso la condivisione di regole fondamentali. Nacque anche l’idea di una moneta unica per rafforzare le politiche economiche e la realizzazione di un mercato unico. Si puntava a unificare le politiche economiche, ma il processo è stato lasciato a metà, perché il Trattato di Maastricht del 1992 ha portato avanti l’unione monetaria ma non le politiche fiscali, limitandosi ad un coordinamento. Questa è una delle cause dell’attuale situazione di stallo. Nel 1999 nasce l’Unione Europea, atto con il quale si stabilì che la concorrenza fosse solamente un obiettivo intermedio in vista dell’obiettivo finale di promuovere il progresso economico ed il benessere. Si aggiunse anche il principio della coesione sociale che si concretizza nei fondi strutturali destinati alle zone meno sviluppate. Quindi l’Europa ha iniziato ad avere anche un’anima sociale.»

Perché l’Europa ci impone tante restrizioni sul bilancio?
«I “parametri di Maastricht” sono quelli che spingono i paesi dell’area Euro ad una convergenza sugli elementi fondamentali, a partire da debito pubblico complessivo e deficit annuale. Quando si è arrivati all’introduzione dell’Euro due paesi sono stati ammessi benché non ancora a norma: noi e la Grecia. L’unificazione monetaria per funzionare ha bisogno che i parametri fondamentali non siano troppo diversi fra loro altrimenti, fra le altre conseguenze, incidono sullo “spread”, che è la differenza fra i tassi d’interesse migliori (tedeschi) e quelli degli altri stati. Se un paese non è virtuoso i mercati reagiscono alzando i tassi: è più difficile raccogliere risparmio e occorre offrire tassi più alti. Se l’Europa non ci imponesse queste restrizioni, l’Italia dovrebbe tenere comunque un comportamento virtuoso, perché ha il terzo debito pubblico più alto al mondo e un terzo di tutto il debito pubblico dell’Unione Europea. Un debito che comporta interessi enormi, da tenere sotto controllo. Senza unità monetaria pagheremmo interessi molto più alti.»

Quali sono i vantaggi per gli italiani dell’aver aderito all’Europa?
«Primo in assoluto una pace duratura, di questo i giovani non si rendono conto. Il secondo vantaggio è di tipo culturale, sono aumentati gli interscambi, si pensi all’Erasmus, e sta nascendo un’identità europea. Dal punto di vista economico c’è la possibilità di avere un unico grande mercato senza barriere e questo è importante per un paese esportatore come il nostro. Non è più l’Italia che compete con giganti economici come USA, Russia o Cina, ma lo fa con l’intera Europa. L’UE ha anche maggior peso nel difendere i consumatori nei confronti dei grandi gruppi multinazionali grazie all’azione dell’autorità antitrust europea.  Un altro vantaggio economico è lo spread, perché l’Unione Europea ci ha costretti a tenere politiche economiche virtuose, comunque necessarie. Rimane il fatto che l’Italia ha molti problemi suoi che non vengono risolti dall’Europa: debito, evasione fiscale, criminalità organizzata, corruzione, burocrazia, squilibri Nord-Sud, invecchiamento ecc.»

Quali sono stati gli svantaggi per gli italiani?
«Sono convinto che l’entrata nell’Euro non sia stata gestita bene e anche per questo motivo il potere d’acquisto degli italiani è mediamente più basso. Un problema è quello di non riuscire a spendere i soldi dei fondi strutturali a causa della burocrazia: ritorna meno di quello che diamo, ma è colpa della nostra inefficienza. L’altro grosso problema è quello dei flussi migratori. Su questo aspetto non c’è una politica comune a livello europeo e stiamo pagando le maggiori conseguenze perché siamo il porto di approdo. Bisogna spingere perché l’Unione se ne faccia carico.»

È vero che l’Europa è favorevole per i grandi gruppi e dannosa per artigiani e piccole imprese?
«In Europa ci sono in realtà politiche a favore delle piccole imprese, ma in Italia non si riesce a renderle efficaci. Certamente un mercato unico favorisce le fusioni, ma proprio per questo esistono le politiche di coesione. Poi c’è il fatto che le politiche fiscali sono ancora diverse, gli sgravi per le piccole imprese competono agli stati. In ogni caso l’Europa può fare di più, soprattutto con la lotta all’elusione fiscale dei grandi gruppi che sfruttano le diverse politiche fiscali per pagare di meno. Anche qui ci vuole più Europa.»

Perché si parla di sovranismo?
«Do una lettura economica. La crisi mondiale del 2008 ha provocato un crollo del Pil che ha fatto emergere egoismi e gli stati hanno pensato di fare per prima cosa il proprio interesse. Anche i flussi migratori hanno spinto i paesi a chiudersi al proprio interno cercando le colpe nelle politiche sovranazionali. Il  paradosso è che rifiutano una gestione unitaria dei flussi migratori, mentre servirebbe più cooperazione.»

È possibile che la diffidenza verso l’Europa nasca dal fatto che ci propone scelte collaborative mentre siamo abituati a pensare all’economia in termini competitivi?
«Preciserei che siamo abituati a pensare all’economia in termini individualistici e sovranisti, più che competitivi, perché la competizione e la concorrenza sono elementi positivi per l’economia. Io attribuirei la diffidenza al tentativo di trovare all’esterno la soluzione dei problemi dicendo che la colpa non è nostra, ma di altri. Dovremmo guardare più ai problemi interni. Il cittadino comune non ha la consapevolezza di quanto faccia l’Europa, c’è anche un problema di comunicazione. Il futuro è la consapevolezza che alcuni processi richiedono la cooperazione. Uno è quello dei flussi migratori, ma anche il competere nella globalizzazione con tecnologie sempre più avanzate richiede che gli stati si aiutino a vicenda.»