Se non è l'etica a convincerci, lasciamo che sia l'economia a farlo. Sono i dati a dimostrare che investire nella guerra è meno conveniente che investire nel sociale. I relatori del webinar "Oltre il Riarmo" smascherano le falle del piano ReArm Europe: più armi non ci rende più sicuri e nemmeno più ricchi.
È più economico investire sulla pace e sullo sviluppo civile, piuttosto che sulla guerra attraverso le industrie d’armi. Tale considerazione è il risultato del webinar Oltre il Riarmo: Alternative Possibili organizzato all’interno della campagna Ferma il Riarmo e delle Giornate di azione contro le spese militari 2025. Con l’intervento di Francesco Vignarca, Coordinatore delle campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, Giulio Marcon, portavoce della Campagna Sbilanciamoci, e Sofia Basso, giornalista e parte dell’Unità Investigativa di Greenpeace Italia sui temi della pace e del disarmo, il 6 maggio è stato affrontato il tema delle spese militari con uno sguardo nazionale ed internazionale, approfondendo l’impatto economico ed ecologico della corsa al riarmo.
Cos’è ReArmEurope e quali sono punti ciechi del piano
Sono 16 (su 27) i Paesi che hanno aderito al piano di ReArm Europe presentando domanda a Bruxelles. Il piano prevede che gli Stati membri raggiungano i 650 miliardi€ di spese per la difesa, attraverso un finanziamento a debito facilitato da una temporanea flessibilità delle regole del Patto di Stabilità e Crescita. Ma il sistema mostra già uno squilibrio in partenza: non tutti i Paesi possono permettersi di aderire a cuor leggero, per difficoltà economiche piuttosto che per questioni morali. Secondo i dati ISPI, se l’Italia aderisse «il deficit pubblico potrebbe aumentare dal 4% attuale fino al 4,6%, anziché ridursi gradualmente al 3% come previsto».
Oltre a questo, la falla inoppugnabilenel sistema del riarmo europeo, secondo Vignarca, è il fondamento ideologico dello stesso che si basa sul processo «mondo più pericoloso = aumentiamo le armi = siamo più sicuri». Nonostante i dati SIPRI dimostrino che negli ultimi 20 anni le spese militari sono cresciute costantemente (raddoppiando dal 2001 al 2024, con un picco dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022) le guerre non sono diminuite e la sicurezza non è aumentata. Anzi, il numero di civili uccisi nei conflitti aumenta «I civili morti in conflitti armati arrivano a 250mila persone, mai così dal '94, anno del genocidio Ruanda» afferma Vignarca. Il riarmo si fonda quindi su una tradizione del “si è sempre fatto così”, promossa come legge naturale, che tuttavia non si fonda più su risultati misurabili e oggettivi. Le mancanze riguardano anche lo scopo strategico dell’acquisto di nuove armi, che spesso non viene specificato e talvolta non prevede nemmeno lo spazio fisico per collocare tali armamenti. Dal rapporto Arming Europe di Greenpeace: rappresenta il ritorno economico e l'occupazione derivante dall'investimento di 1000 milioni nei settori militare, educazione, sanità e ambiente.
Foto di Greenpeace
Oltretutto, se la componente etica non convince, ci sono i dati presentati da Sofia Basso che mostrano il rientro economico nazionale dei Paesi Europei dagli investimenti bellici. In generale, ma soprattutto in Italia, il rientro economico e l’occupazione derivanti da circa un miliardo di euro investiti nel settore bellico sembrano essere nettamente più bassi rispetto allo stesso investimento nei singoli settori civili, come educazione, sanità e ambiente. Quindi l’industria bellica sembra restare l’unico stakeholder a guadagnare dal riarmo: ad esempio, secondo i dati presentati da Basso, dal 2021 gli utili netti nella industria Leonardo S.p.A sono aumentati del 63%, aumento simile alle altre industrie belliche mondiali. Motivo per cui, una delle richieste della campagna è «un’imposta straordinaria a titolo contributo di solidarietà temporaneo a carico delle imprese delle armi» dato l’aumento dei profitti.
Oltretutto, sempre dai dati raccolti da Basso, sicurezza energetica e missioni militari sembrano essere strettamente legate (60% delle risorse militari sono dedicate alla sicurezza energetica, secondo Greenpeace) e l’impatto ecologico dell’industria bellica risulta preoccupante. Le emissioni di CO2 delle spese militari globali superano le emissioni totali del Giappone e sono nettamente superiori alle emissioni di tutte le automobili del mondo e di tutti gli aerei civili. L’impatto ecologico e l’impegno militare a difesa delle risorse fossili si oppongono drasticamente alla conversione ecologica di cui l’Unione Europea si stava facendo portavoce.
Esistono delle alternative al riarmo, sono concrete, etiche ed economiche
L’intervento di Giulio Marcon, della campagna Sbilanciamoci, ha dato voce alle alternative alle armi, attraverso una strada di investimento civile che costruisce concretamente una pace positiva. «È possibile costruire una realtà di pace e nonviolenza, anche attraverso il Servizio Civile e i Corpi Civili di Pace», afferma elogiando lo sviluppo di pace partendo dal basso e dalla vita quotidiana. Prosegue poi elencando una serie di comparazioni, per sottolineare l’importanza di convertire le spese militari in spese civili: «Con i soldi che si utilizzano per i sistemi d’armi si può fare qualcosa di molto più utile, ad esempio con i soldi di un carro armato ariete si possono acquistare 597 apparecchiature per la TAC. Un carro armato Leopard costa come 1409 respiratori per la ventilazione polmonare, quelli che mancavano durante la pandemia Covid. Con un cacciamine, possiamo dare a 8471 anziani assistenza domiciliare per 5 anni. Con un cingolato leggero potremmo comprare 224 nuove ambulanze».
Come suggeriva la posizione contraria di Papa Francesco sulla deterrenza, diventa necessario il suo richiamo «Se vuoi la pace prepara la Pace», in opposizione al “Si vis pacem, param bellum” romano (se vuoi la pace, prepara la guerra). Diventa necessario decostruire la tradizione del riarmo e costruire quella che Vignarca chiama “Filiera della Pace”, attraverso un movimento culturale, economico ed istituzionale verso politiche e strategie pacifiche, in alternativa alle armi. Alla volontà dei cittadini di pace, va ad esempio affiancata una struttura istituzionale adatta, come promuove l’iniziativa Ministero della Pace. Una filiera della pace è quindi una rete tra le campagne di pace, che connetta competenze, conoscenze e aspetti diversi per lo stesso obiettivo. «Mi è piaciuta molto la definizione della filiera della pace: ci inserisce in un quadro nel quale ognuno di noi ha una responsabilità. Ci sentiamo parte attiva di questa filiera? Molti di noi sentono l’urgenza di assumersi la propria parte di questa responsabilità.» afferma Matteo Fadda lanciando una provocazione, Responsabile Generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, che ha organizzato il webinar. Conclude, nei saluti finali «Oggi abbiamo visto che è possibile un’alternativa alla difesa armata: la difesa civile e nonviolenta. […] Parte da cittadini attivi nel nostro territorio, non solo perché è etico, ma perché abbiamo visto quanto ci conviene».
All’apertura del webinar è stato detto «Vogliamo rispondere alla domanda Cosa possiamo fare noi?» e la risposta è questa: «Essere partecipi delle campagne di pace e portatori di pace è più economico e semplice di quanto sembra. Tutti possono esercitare il proprio diritto e dovere da cittadino, essere cittadini attivi e consapevoli, praticare la nonviolenza nella quotidianità, dentro e fuori casa, prendendosi la propria responsabilità nella costruzione della pace positiva».