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1 Maggio 2023
Ultima modifica: 1 Maggio 2023 ore 16:55

Cosa resta del viaggio di papa Francesco in Ungheria

Profezia, santità, Europa: tre parole per interpretare la missione del pontefice
Cosa resta del viaggio di papa Francesco in Ungheria
Foto di Ansa/VATICAN MEDIA
Da san Martino a santa Elisabetta, nel viaggio apostolico Papa Francesco ha fatto emergere la storia di santità del popolo ungherese caratterizzata dall'accoglienza dei poveri e degli stranieri. Una tradizione da riscoprire con profezia, anziché come forma di chiusura.
Si possono individuare tre parole chiave nei discorsi che papa Francesco ha tenuto nel corso del viaggio apostolico in Ungheria, dal 28 al 30 aprile: profezia, santità e Europa. Parole non adeguatamente rilanciate dalle cronache dei mass media, che come sempre privilegiano gli aspetti più immediatamente politici. 

La profezia dell’accoglienza

Profezia è la prima parola che ha ricordato alla comunità cristiana magiara: profezia, ha sottolineato come sostantivo, non come aggettivo di cui troppo si abusa. Francesco ha ribadito che «Siamo dunque chiamati ad accogliere come una pianta feconda il tempo che viviamo, con i suoi cambiamenti e le sue sfide, perché proprio attraverso tutto ciò – dice il Vangelo – il Signore si avvicina. E intanto siamo chiamati a coltivare questa nostra stagione, a leggerla, a seminarvi il Vangelo, a potare i rami secchi del male, a portare frutto. Siamo chiamati a un’accoglienza con profezia». Cosa significa? «Si tratta di imparare a riconoscere i segni della presenza di Dio nella realtà, anche laddove essa non appare esplicitamente segnata dallo spirito cristiano e ci viene incontro con il suo carattere di sfida o di interrogativo». 
Nel nuovo mondo secolarizzato i cristiani offuscano la loro testimonianza se si lasciano assorbire da due tentazioni: il conformismo mondano e il disfattismo catastrofico. Anche in Ungheria, dove i governanti si pregiano di difendere i valori tradizionali, «si assiste alla diffusione del secolarismo e a quanto lo accompagna, il che spesso rischia di minacciare l’integrità e la bellezza della famiglia, di esporre i giovani a modelli di vita improntati al materialismo e all’edonismo, di polarizzare il dibattito su tematiche e sfide nuove». A questo mondo che cambia non serve però reagire con il lamento sui bei tempi andati o con lo spirito da “combattenti” contro l’epoca attuale. Francesco ha detto che i nuovi fenomeni culturali e sociali «possono rappresentare delle opportunità per noi cristiani» e, richiamando Benedetto XVI, ha ricordato che «le secolarizzazioni infatti […] significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità». 
Se si vive l’accoglienza con profezia, si è pronti «a trasmettere la consolazione del Signore nelle situazioni di dolore e di povertà del mondo, stando vicini ai cristiani perseguitati, ai migranti che cercano ospitalità, alle persone di altre etnie, a chiunque si trovi nel bisogno». Ciò significa porsi in continuità con la tradizione di santità che ha fatto la storia del popolo magiaro. 

L’esempio di San Martino e santo Stefano

Francesco ha ricordato la testimonianza di molti santi, a partire dal soldato san Martino che era originario dell’Ungheria: «Il suo gesto di dividere il mantello con il povero è molto più che un’opera di carità: è l’immagine di Chiesa verso cui tendere, è ciò che la Chiesa di Ungheria può portare come profezia nel cuore dell’Europa: misericordia, prossimità». E il primo re santo Stefano, che oltre a fondare abbazie e monasteri, sapeva dialogare con tutti e occuparsi dei poveri: «abbassò per loro le tasse e andava a fare l’elemosina travestendosi per non essere riconosciuto». Tutta la sua famiglia ha vissuto nella santità, la moglie beata Gisella e il figlio sant’Emerico. A quest’ultimo lasciò alcune ultime volontà che valgono ancora oggi per il popolo magiaro: «Ti raccomando di essere gentile non solo verso la tua famiglia e parentela, o con i potenti e i benestanti, o con il tuo prossimo e con i tuoi abitanti, ma anche con gli stranieri». Santo Stefano - sottolinea Francesco -  motiva tutto ciò con genuino spirito cristiano, scrivendo: «È la pratica dell’amore che conduce alla felicità suprema». 
Il papa ha inoltre ricordato il «beato János Brenner, barbaramente ucciso a soli 26 anni. Quanti testimoni e confessori della fede ha avuto questo popolo durante i totalitarismi dello scorso secolo!». Ed ancora «san Ladislao e santa Margherita, certe maestose figure del secolo scorso, come il Card. József Mindszenty, i beati vescovi martiri Vilmos Apor e Zoltán Meszlényi, il Beato László Batthyány-Strattmann». Una particolare menzione va a «sant’Elisabetta, la cui testimonianza ha raggiunto ogni latitudine. Questa figlia della vostra terra morì a ventiquattro anni dopo aver rinunciato a ogni bene e aver distribuito tutto ai poveri. Si dedicò sino alla fine, nell’ospedale che aveva fatto costruire, alla cura dei malati: è una gemma splendente di Vangelo».

Una santità che accoglie poveri e stranieri

Perché il papa ha tanto insistito su Budapest città di santi? Sulla storia di santità ungherese che ha il tratto distintivo dell’accoglienza dei poveri e degli stranieri? Perché il papa vuole lanciare un messaggio preciso sull’oggi, desidera che la tradizione di santità e le parole scolpite nel testo costituzionale («Dichiariamo essere un obbligo l’assistenza ai bisognosi e ai poveri») informino oggi la vita del popolo cristiano ed anche le buone pratiche della politica. Francesco ancora una volta invita a non innalzare muri ma a realizzare una Budapest città di ponti. Se l’Ungheria vuole difendere la propria identità cristiana, si apra sempre all’accoglienza dei poveri, parli il linguaggio della carità, continui quella tradizione di santità tipica di Stefano ed Elisabetta. 

Ritrovare l’anima dell’Europa

E così il discorso cade sulla terza parola chiave del viaggio, l’Europa. «Penso dunque a un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli. È questa la via nefasta delle “colonizzazioni ideologiche”, che eliminano le differenze, come nel caso della cosiddetta cultura gender, o antepongono alla realtà della vita concetti riduttivi di libertà, ad esempio vantando come conquista un insensato “diritto all’aborto”, che è sempre una tragica sconfitta». 
Francesco ha detto che si tratta di «ritrovare l’anima europea: l’entusiasmo e il sogno dei padri fondatori, statisti che hanno saputo guardare oltre il proprio tempo, oltre i confini nazionali e i bisogni immediati, generando diplomazie capaci di ricucire l’unità, non di allargare gli strappi». E li ha citati tutti e tre i padri fondatori, De Gasperi, Adenauer e Schuman. Di quest’ultimo ha ricordato una frase attuale («la pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano») per poi chiedersi amaramente: «anche pensando alla martoriata Ucraina, dove sono gli sforzi creativi di pace?». 

L’incontro con Hilarion

Il pensiero all’Ucraina e il desiderio di pace hanno accompagnato il papa nel viaggio, dove ha avuto anche l’opportunità di incontrare il metropolita Hilarion. Fino al 2022 “ministro degli esteri del patriarcato di Mosca”, è stato poi allontanato da Kirill perché non condivideva il giudizio positivo sulla guerra. «Incontrare Hilarion era uno degli scopi del viaggio», spiega don Stefano Caprio, professore al Pontificio istituto orientale e grande esperto di Russia. Hilarion potrebbe aver ricevuto messaggi importanti da girare a Mosca.