Si è spento improvvisamente questa notte don Alessandro Fiorina, 65 anni, sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII, missionario in Bolivia. Stando alle prime ricostruzioni, il decesso potrebbe essere stato causato dalle esalazioni di una stufetta difettosa.
«Un uomo che ha consacrato la sua vita a Dio e ai poveri con grande generosità – commenta Matteo Fadda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII, appena appresa la notizia -. Una personalità forte ma al tempo stesso premurosa, affettuosa. Ha scelto sempre di anteporre alle proprie esigenze e ai propri desideri il bene della povera gente aprendo le porte de La Colmena ai tanti bisognosi.
Negli ultimi due anni abbiamo lavorato assiduamente assieme per le missioni e i missionari della Comunità Papa Giovanni XXIII in Bolivia. Lascia un vuoto nei nostri cuori che non potremo colmare».
La celebrazione funebre si terrà martedì 12 agosto alle ore 15 boliviane (21 in Italia) presso la chiesa di San Matteo, nella parrocchia di cui era parroco, e nel cui giardino troverà anche sepoltura, adiacente al centro di recupero La Colmena Santa Rita da lui fondato e diretto.
Don Alessandro Fiorina nasce a Bergamo il 2 luglio 1960.
Nel 1986 entra in una profonda crisi di fede. Va nel deserto in Algeria con i Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld e lì si riconcilia con Dio. Nel 1988 conosce a Spello alcune persone della Comunità Papa Giovanni XXIII e nel 1989 incontra per la prima volta don Oreste Benzi.
Nel ’91 parte per la Bolivia fermandosi a La Paz dove insieme a padre Daniel Strich apre l’Hogar San Vicente per alcolisti.
Emette i voti nel 1996 nella Comunità Papa Giovanni XXIII e viene ordinato sacerdote nella diocesi di Bergamo nel 2002 e inviato Fidei Donum.
Nel 2004 si sposta da La Paz a Tarija aprendo "La Colmena Santa Rita". Sempre a Tarija è stato coaudiatore nella Parrocchia di S. Martin Porres. Per molti anni è stato responsabile della zona Bolivia per la Comunità Papa Giovanni XXIII.
Nel settembre del 2014, don Alessandro Fiorina, pur essendo un tipo riservato e restio a parlare di sé, accettò di raccontare la sua storia a Sempre.
Ecco l’intervista:
«Mi sento rotto dentro!». È una frase dura ma detta da lui, con il suo tono pacato dall’inconfondibile accento spagnolo per i tanti anni in America Latina, diventa un’onda fluida e dolce.
Don Alessandro Fiorina, bergamasco, da 24 anni in Bolivia, si sente così, rotto dentro, perché è un tipo schivo, silenzioso e radicale. A lui che è tutto lavoro, preghiera e accoglienza, tocca anche fare il responsabile della zona Bolivia per la Comunità Papa Giovanni XXIII, coordinare cioè, da tutti i punti di vista, materiale e spirituale, le attività avviate in quella terra.
Rotto dentro perché deve farsi una sorta di violenza, lui che si sente più portato, per essere un semplice padre di famiglia. Una famiglia particolare visto che sono sessantacinque le persone che vivono nella sua pronta accoglienza, "La Colmena Santa Rita".
Il suo hogar - che in spagnolo significa focolare, una casa dove c’è fuoco, vita e amore -, si trova a dieci minuti da Tarija, una città di 150 mila abitanti dove sono molti gli alcolisti, i ragazzi di strada, i tossicodipendenti.
Don Alessandro è un prete della diocesi di Bergamo. Subito dopo l’ordinazione il Vescovo gli dice: «Fai quello che vuoi», nel senso che se voleva tornare in Bolivia da dove era partito lo poteva fare, capendo che quel sacerdote voleva stare con i poveri ed essere lui stesso povero, senza appartenersi.
Quando arriva la prima volta nello Stato dell’America meridionale è il 1991 ed è solo Alessandro, un laico. In Italia aveva accantonato l’idea di fare il prete perché la fede gli si era affievolita. «Vedevo la figura del sacerdote legata al potere, inoltre non mi attirava l’andare in seminario. Sono stati anni un po’ oscuri» – ricorda, in cui ha cercato molto, fatto esperienze estreme di povertà senza mai mollare lo stare con i poveri.
Giusto per capire il tipo, esigente con se stesso con una attrazione fatale per i poveri: a dodici anni andava già a trovare gli emarginati dell’Albergo popolare della città e a venti, dopo aver fatto il servizio civile già viveva in una comunità con quelli che uscivano dal manicomio. «Ma è arrivato il momento in cui non ce l’ho fatta più – racconta. In quegli anni non davo molta importanza a Dio, erano i poveri al centro della mia vita. Ad un tratto mi sono accorto che mi ero svuotato: era venuta meno la fonte della mia vita. Ho sentito allora prepotente il desiderio di ritrovare questa fonte, di prendere in mano la mia vita o, meglio, di lasciare che fosse Dio a riprenderla in mano. Così sono partito».
Sono i poveri a spingerlo in Bolivia «non per essere missionario ma per vivere in un paese povero con i poveri».
Parte senza niente, senza nessun appoggio, vivendo lui stesso la precarietà perché così sente maggiormente la presenza di Dio. Inizialmente chiede ospitalità a La Paz in una parrocchia di preti bergamaschi e da lì inizia il suo solitario vagare. Sale su un camion e giunge dai Piccoli fratelli di Charles de Foucauld. Poi chiede accoglienza ai missionari della carità che stavano con persone di strada, alcolisti. Finché conosce un vecchio padre americano ed insieme aprono a La Paz un hogar per alcolisti, "San Vincente", dedicato a San Vincenzo De’ Paoli.
Foto di Viviana Viali
«Sono stato nel deserto in Algeria a cercare Dio. Lì ho conosciuto i “piccoli fratelli” e mi sono riconciliato con Dio. Ho capito che potevo tornare in Italia ma che dovevo essere io povero. Sono stato dai piccoli fratelli a Spello, poi a Udine con gli zingari, poi a Bologna a lavare i piatti in un ristorante, pensavo di diventare anch’io un piccolo fratello».
«Ad un certo punto uno di loro mi ha detto che non ero fatto per quella vita di Comunità, mi vedevano più per la gente. Allora ho fatto il piccolo fratello da solo. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Sono stato molto con Dio. Ho fatto molta vita da povero. Ho dormito in stazione. Mi sembrava di essere in hotel a cinque stelle».
«Le cose belle che ho scoperto in questi emarginati mi hanno fatto stare bene e capire che tutti abbiamo delle cose belle. In fondo anch’io per il mio carattere, ero un po’ tagliato fuori. Valorizzando loro mi sono valorizzato anch’io e in loro ho sentito forte la presenza di Dio. Non si può far finta di niente di fronte alla loro sofferenza».
«A Spello ho conosciuto Maria, una consacrata della Comunità Papa Giovanni XXIII. “Passa a trovarmi alla casa di preghiera a Rimini”, mi dice. E così sono andato e una volta ho conosciuto anche don Oreste. Dopo la mia partenza per la Bolivia sono rimasto in contatto con loro. Un giorno don Oreste mi chiama in Bolivia e mi dice: “Sto andando in Cile dove abbiamo aperto una casa famiglia, vorrei passare a trovarti”. È rimasto molto impressionato dalla realtà di San Vincente. Io da parte mia avevo ancora nel cuore il desiderio di entrare in una famiglia, in una Comunità. E lui semplicemente mi fa: “Vieni nella Papa Giovanni”».
«Proprio così. Salutai tutti e venni in Italia pensando che don Oreste mi avrebbe mandato da qualche altra parte del mondo. Invece mi ha rimandato indietro per continuare a fare quello che facevo e sono iniziati ad arrivare altri fratelli di Comunità».
«In Bolivia avevo scartato definitivamente l’idea di fare il prete ma lì ho conosciuto la Comunità e mi sono consacrato facendo i voti. In quella nuova scelta sono cambiato. Vedevo che mancavano i sacerdoti per la gente di strada. Ci ho ripensato e ne ho parlato con don Oreste. Gli raccontavo il desiderio di diventare prete ma senza andare in seminario, magari continuando a vivere nell’hogar. "Parlane con il tuo vescovo”. Invece di scoraggiarmi mi ha incoraggiato. Anche il rettore del seminario di La Paz, che in quel tempo era un bergamasco, ha fatto lo stesso invitandomi a parlarne con il vescovo di Bergamo. E anche il Vescovo di La Paz era d’accordo. Con l’appoggio di Bergamo e di La Paz io sono prete per la misericordia di Dio».
«Perché nell’alveare lavorano tutti, c’è spazio per tanti. Con me vivono 65 ragazzi dai 13 ai 60 anni. Tutti hanno una responsabilità. Siamo una grande famiglia. Volevo Santa Rita, una santa donna visto che siamo tutti uomini, lei che è la santa degli impossibili».
«Noi non siamo qui come missionari, siamo qui a vivere con i poveri. Poi missionari qui o là, come cristiani siamo sempre missionari, non ci deve essere questa divisione».
«I poveri mi insegnano la pazienza, la misericordia, ma anche che non si può far finta di niente, che bisogna darsi da fare. I poveri non mi lasciano tranquillo, mi aiutano a controllare i miei difetti. Se fossi senza loro mi dedicherei alle cose che mi piacciono. All’inizio starei bene, poi morirei. Invece loro mi tengono con i piedi per terra e mi fanno sognare che tutti possono cambiare».
«Niente di male. Ma nemmeno possiamo farle a scapito degli altri. Se mi piace mangiare bene è bello. Ma non posso farlo se l’altro non mangia niente». Non posso fare delle cose che siano fonte di ingiustizia verso gli altri».
«A La Paz si accolgono molte persone che vengono dalla strada. Contro la corruzione forse non facciamo molto ma è la nostra vita che parla. La nostra è una presenza significativa e onesta».
«È per non accomodarsi troppo e non dedicarsi solo a quello che ci piace. Significa che Dio sarà sempre con noi, è una sicurezza. Qui su questa terra non ci mancherà mai Dio finché avremo i poveri e saremo poveri. Il giorno che smetteremo di essere poveri saremo una cosa sola con Dio».