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4 Febbraio 2022
Ultima modifica: 4 Febbraio 2022 ore 09:47

Giornata per la vita. La scelta di Valeria e Claudio

Quando l'unica prospettiva è l'aborto. Dopo il primo figlio ne arriva un secondo ma con lui anche la notizia: non potrà sopravvivere, tanto vale interrompere subito la gravidanza. Ma Valeria e Claudio fanno un'altra scelta, contro un mondo che non li capisce.
Giornata per la vita. La scelta di Valeria e Claudio
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"Custodire ogni vita". È il tema indicato dai Vescovi per la 44-esima Giornata per la Vita, che si celebra domenica 6 febbraio 2022 in tutte le diocesi italiane. Ed è ciò che hanno fatto Valeria e Claudio.
«Non è una classica storia a lieto fine», mi dice una voce femminile dall’altro capo del telefono.
«A me hanno detto che è una storia toccante – replico io – ma non sanno se siete disposti a raccontarla.  Pensaci, parlane anche con tuo marito e poi fammi sapere.»
È questo il primo approccio con Valeria, 31 anni, e Claudio, 32, massofisioterapista lei e architetto lui, entrambi veronesi. Potrebbe finire tutto qui, invece pochi giorni dopo, abbandonati gli ultimi indugi, decidono che sì, si può fare, ma a patto che io non riveli i loro nomi. Perché scelte come la loro non sempre sono capite: o sei un eroe o uno sconsiderato egoista. A voi il giudizio.
Noi abbiamo scelto di raccontare la loro storia (con nomi di fantasia), perché ci inoltra nelle pieghe nascoste di un mondo di cui si parla molto, ma spesso ripetendo luoghi comuni, contrapponendo tesi, esprimendo giudizi precostituiti. Un mondo in cui si cammina sul delicato confine che separa la vita dalla morte, sapendo che l’esito finale è già segnato. Ma un conto è accettare una morte che non si può evitare, un altro è provocarla. Ed è un particolare che in questa storia fa la differenza.

Lo sviluppo del feto è anomalo

Tutto ha inizio nel 2015, quando Valeria e Claudio decidono di scrivere la loro storia insieme, sposandosi. Sono giovani, pieni di entusiasmo. Dopo un anno mettono in cantiere il primo figlio e nel 2017 nasce Valentina. Ma è solo l’inizio, e presto si sentono pronti per allargare la famiglia e dare alla primogenita un fratellino. È un maschietto e si chiamerà Giacomo.

Ecografia
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La gravidanza procede tranquilla fino a quando nell’agosto del 2019 Valeria, ormai al 5° mese di gravidanza, si sottopone ad un’ecografia morfologica. «Ero lì, ansiosa di vedere il mio bambino, invece la ginecologa senza mezzi termini mi spiegò che lo sviluppo del feto non era secondo la norma». Cioè? «Uno sviluppo anomalo, non compatibile con la vita extra uterina». In pratica, le dice che il bambino non potrà sopravvivere dopo il parto, ammesso che ci arrivi.
Una notizia traumatica, ma più ancora lo è la decisione da prendere. Di fronte ad un quadro clinico del genere l’unica soluzione che viene loro prospettata è l’aborto. E bisogna procedere in fretta, dato che la gravidanza è ormai a uno stadio avanzato. «Sentivamo una forte pressione a livello medico – racconta Valeria –. Erano le ultime settimane disponibili per praticare l’aborto terapeutico, bisognava fare presto».
Un percorso scontato, per i medici, ma non per i due giovani genitori, che si chiedono cosa ci sia terapeutico in una scelta simile.
L’equipe propone di fissare una visita per il giorno seguente a Milano, per avere un riscontro genetico di quanto evidenziato dall’ecografica, e capire il tipo di patologia del bambino. L’esame previsto è l’amniocentesi, e i dubbi di Valeria aumentano: «Non volevo mettere in pericolo il bambino con quest’esame che so essere invasivo, e può provocare danni. L’amniocentesi non l’avevo fatta con la prima gravidanza, non mi sentivo di farla neppure con questa, nonostante avessero trovato delle anomalie».

Unica prospettiva l'aborto terapeutico

Tornati a casa, i due si sentono frastornati e confusi da ciò che li attende. Quella che doveva essere una normale ecografia si è trasformata in un travaglio anticipato. Ma mentre in quello naturale si accetta il dolore sapendo che porterà un figlio alla vita, qui si parla di sopprimerla, e il fatto che si tratti di una vita malata non lo percepiscono come un motivo valido per giustificare una simile scelta. Sentono il bisogno di approfondire ma non trovano nei medici il sostegno che cercano.  
Claudio è preoccupato, ha bisogno di capire. «Non mi era stato chiarito bene quali sarebbero state le conseguenze per il bambino e per la mamma se non fossimo ricorsi all’aborto terapeutico. Continuavo a chiedermi se il problema genetico del bambino poteva mettere a repentaglio la vita di mia moglie.»
Ma non c’è solo l’aspetto sanitario, l’idea di praticare un aborto interpella le loro coscienze. Decidono di parlarne con il loro accompagnatore spirituale, il sacerdote che li ha sposati e li segue come coppia. Lo cercano ma non lo trovano subito, e loro non possono aspettare. «Siamo andati perciò dal nostro parroco, e dobbiamo dire che ci ha aiutato a trovare le risposte che cercavamo.»
Compresa la delicatezza della loro situazione, il parroco li mette in contatto con uno dei massimi esperti nel campo della medicina dell’età prenatale, il prof. Giuseppe Noia, Direttore dellHospice Perinatale – Centro per le Cure Palliative Prenatali al Policlinico Gemelli di Roma. Una figura estremamente competente ma anche sensibile sul piano umano. Con lui hanno un colloquio solo telefonico, ma per loro illuminante.
«Mi ha ascoltato e mi ha convinto ad andare a Milano a fare gli accertamenti necessari – racconta Valeria –. È stato il primo medico a rassicurarmi, chiarendo anche che se non ce la sentivamo di abortire avremmo potuto portare avanti ciò in cui credevamo con serenità. Mi ha dato coraggio nell’affrontare tutto.»
«Ci ha detto che avremmo potuto portare fino in fondo la gravidanza con la probabilità anche di riuscire a far nascere il bambino – aggiunge Claudio – . È stato l’unico a dirci chiaramente che era possibile.» E i rischi per la mamma? «L’unico rischio prospettato era di dover ricorrere al parto cesareo, che al giorno d’oggi viene praticato in larga misura».

Il bambino sarebbe morto

Valeria e Claudio si recano dunque a Milano al Mangiagalli per gli accertamenti stabiliti. La diagnosi è cruda: displasia tanatofora di tipo 1. «Il bambino aveva una malformazione di tutte le ossa – spiega Valeria – che crescendo si incurvavano. A causa di questa malformazione la gabbia toracica non avrebbe permesso ai polmoni di svilupparsi adeguatamente. Inoltre aveva anche un problema cerebrale, che secondo i medici lo avrebbe portato alla morte». 
Davanti a quel quadro clinico disastroso, l’aborto torna ad essere la prospettiva inevitabile. Ma Valeria e Claudio non mollano, sentono che è giusto portare avanti la gravidanza, e lo dicono.
I medici sembrano più spaventati dei genitori di fronte a questa decisione. Temono che la coppia non abbia capito bene cosa comporta la nascita eventuale di un bambino con questo tipo di patologia. Si consultano, li fanno accomodare in una saletta. «Dopo un po’ ci hanno mandato una psicologa a parlarci, voleva capire se la nostra era una scelta davvero consapevole». Nel raccontare le vicende, sembrano loro stessi sorpresi di essere riusciti a resistere a tutte queste che hanno avvertito come pressioni.
Alla fine anche i medici prendono atto della decisione presa.

Abbiamo dovuto difendere nostro figlio

Scelte di questo genere non sono facili da sostenere fisicamente e psicologicamente, occorre sicuramente una convinzione forte. Valeria e Claudio sanno in cuor loro che la scelta fatta è quella giusta, ma le paure e le angosce umane affiorano. «Ci chiedevamo perché era toccato proprio a noi ­– racconta Valeria – che cosa avevamo fatto di male per dover affrontare una tale sofferenza».
Poi, piano piano, accade qualcosa che fa loro cambiare la percezione della scelta presa.
Si sentono diversi, invasi da una forza quasi inspiegabile, che accantona le paure. «La forza ci è venuta da dentro – dice Valeria – nel momento in cui ci siamo affidati a Dio. “Tu ci hai donato questo figlio, dicevo, e adesso aiutami a fare quello che devo. Dammi tu quello che mi serve per andare avanti”». Un dialogo nella fede che ha accompagnato tutto il periodo della gravidanza. «Siamo stati accompagnati spiritualmente dai nostri sacerdoti – spiega – ma ci siamo anche sentiti presi per mano da Dio e portati fino in fondo».
Un cammino interiore non colto dalle persone che stanno loro accanto. «Leggevamo la tristezza nei loro occhi per ciò che avevamo scelto. Vedevamo tanta compassione, ma non era quello di cui avevamo bisogno. Abbiamo dovuto difendere nostro figlio».
 

È nato Giacomo

Si guardano soddisfatti pensando a quel periodo. «Però è stata una bella lotta – dice  con una punta di orgoglio Claudio –. Con i medici ma anche con le persone vicine che spesso non comprendevano e non condividevano la nostra scelta.»
«Eppure non abbiamo fatto nulla di speciale, in fondo – sottolinea Valeria –. Abbiamo dato l’amore che qualsiasi genitore dà ad un figlio, senza pensarci troppo, senza discriminazioni».

nastro rosa e azzurro
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Non sapevano se il bambino avrebbe avuto la forza di nascere, ma avevano chiaro, ormai, che qualunque data di scadenza fosse scritta nella vita di Giacomo, per loro era una vita, quella di loro figlio. «Sì, sapevamo che c’era una scadenza, ma non sapevamo quando. Non sapevamo se avremmo avuto la gioia di un bacio ma volevamo dargli una speranza. Trasmettergli il nostro amore.»
Alla fine nell’ospedale della loro città trovano anche un medico che li capisce e in qualche modo li sostiene: «È stata una grazia incontrarlo – dice Claudio. – Ci ha detto che di casi come il nostro non ne aveva visti perché di solito non si arriva alla fine della gravidanza, ma forse nostro figlio avrebbe anche potuto farcela e vivere un po’. E comunque loro ci sarebbero stati vicini». 
Il 4 dicembre 2019 Giacomo nasce. E riesce a vivere 90 minuti. Tantissimo, per ciò che era stato prospettato.
Dalle parole dei due genitori traspare ancora tanta emozione per quel momento: «È stata una gioia poterlo abbracciare per tutto il tempo in cui ha vissuto. Un abbraccio lunghissimo».
 

Donare vita, ci ha dato vita

Sono trascorsi ormai due anni da quel giorno ed è chiaro per loro che rifarebbero tutto. È stata un’esperienza che li ha cambiati nel profondo: «Donare vita ci ha dato vita. Ciò che sembrava una disgrazia è stata invece un dono. Quella forza derivata dall’affidarci a Dio, che ci ha sostenuto in quel periodo, continua tuttora».
Nella preghiera chiedevano la guarigione di loro figlio, invece «è stato Giacomo a compiere il miracolo per noi. Grazie a lui ci siamo resi conto che Dio è presente».
La preghiera giornaliera è entrata nella loro vita aiutandoli ad acquisire più consapevolezza. «C’erano dei giorni in cui sembrava che le letture parlassero a noi» ed è un’esperienza che continuano a vivere tutt’ora.
Anche la loro primogenita, Valentina, che all’epoca dei fatti aveva 2 anni, è stata coinvolta nell’attesa del fratellino. «Siamo riusciti a trasmetterle ciò che stavamo vivendo. Le abbiamo fatto respirare la nostra gioia. Parlava e giocava con il pancione. E quando siamo tornati dall’ospedale le abbiamo detto semplicemente che era andato in cielo perché era molto ammalato.»
Tutta la famiglia, nel frattempo, si è preparata ad accogliere Gabriele, nato a gennaio di quest'anno.
«Ci sentiamo bene come quando è appena arrivato un figlio. Non ci spaventa nulla.»
Sanno che un angelo li accompagna dal cielo.