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13 Dicembre 2025
Ultima modifica: 13 Dicembre 2025 ore 08:26

Giubileo dei detenuti: speranza e misericordia nelle carceri

Dal 12 al 14 dicembre si svolge il Giubileo dei detenuti, ultimo evento dell'Anno Santo, avviato da Papa Francesco con l'apertura di una delle porte sante al carcere di Rebibbia. 6000 i pellegrini, da 90 Paesi del mondo. Il significato, la situazione nelle carceri, le alternative
Giubileo dei detenuti: speranza e misericordia nelle carceri
Il Giubileo del 2025, dedicato alla speranza, vede la Comunità Papa Giovanni XXIII impegnata nelle carceri con il modello CEC. Attraverso la condivisione e la cura reciproca, i detenuti trovano un percorso di riabilitazione e speranza. Iniziative come la mostra delle CEC e il pellegrinaggio con i carcerati testimoniano il potere trasformativo della misericordia. La recente legge che riconosce le comunità come luoghi di espiazione è un passo storico verso una società più giusta.
Il Giubileo del 2025 ha come tema la speranza. È un tema in continuità con il Giubileo straordinario della Misericordia voluto da papa Francesco nel 2015. In realtà, misericordia e speranza si tengono insieme: non esiste speranza senza misericordia, e non esiste misericordia senza speranza. Quel Giubileo ci ha fatto capire che la misericordia non è solo un gesto, ma un modo di essere che guarisce le relazioni umane. Etimologicamente, misericordia è composta da miser, cioè miseria, e cordis, cioè cuore. Significa letteralmente mettere nel mio cuore la miseria dell'altro e portarla insieme. È la capacità di portare i pesi gli uni degli altri. Solo così si diventa disponibili alla novità del cambiamento e alla speranza che le cose possano davvero migliorare.

La situazione nelle carceri

Chi vive e lavora nel mondo del penale, però, vede da anni una situazione che sembra andare nella direzione opposta. Nel solo 2024 ci sono stati 85 suicidi tra i detenuti e altri 7 nella polizia penitenziaria. Il numero delle persone recluse cresce al ritmo di 300 unità al mese, arrivando oggi in Italia a 63.000 persone. Nel mondo i detenuti sono quasi 11 milioni: un'intera nazione, per dimensioni, pari al Portogallo. Davanti a questi numeri parlare di speranza sembrerebbe fuori luogo. Eppure, proprio dentro queste ferite, in questo buio, continuo a vedere semi di speranza. Li vedo nella condivisione quotidiana con i carcerati dentro le Comunità Educanti con i Carcerati, secondo il modello CEC. La speranza nasce ogni volta che un recuperando desidera un cambiamento verso il bene. Papa Francesco ha compiuto un gesto storico: ha aperto il giubileo non solo con la porta santa della basilica di san Pietro, ma anche con quella di un carcere. Non era mai accaduto! Cosa c’è di misterioso dentro un carcere e quale speranza possono dare i detenuti?

Il ruolo della comunità

Nelle realtà d’accoglienza dei detenuti secondo il modello CEC abbiamo scoperto che il male – che è sempre un mistero – solitamente cresce nelle ferite del cuore dell’uomo ed è spesso una reazione a queste. Le ferite nascono e si sviluppano soprattutto in ambito familiare, dentro relazioni tossiche e malate. Siamo soliti affermare che se non tutti coloro che hanno problemi famigliari vanno in carcere, è vero che chi va in carcere al 90% ha avuto problemi famigliari soprattutto con la figura paterna.  Qual è allora il luogo ideale per curare le ferite? Secondo noi della Comunità Papa Giovanni XXIII è la comunità, il cui significato etimologico è cum-munus. Munus a sua volta significa dono di sé ma anche obbligo. La comunità è dunque il luogo dove si sente l’obbligo di donare sé stessi agli altri, sperimentando il passaggio da comportamenti egoistici, centrati sul proprio io, a comportamenti altruistici – o meglio ancora altero-centrici – in cui si gioisce del bene degli altri, anzi si riconosce nel bene degli altri il proprio bene. In queste realtà comunitarie si crea un clima terapeutico, cioè di cura reciproca. Siamo abituati a tenere il male a distanza, pensando che non ci riguardi; in realtà fa parte dell’umano e dell’esperienza di ciascuno. Come esistono ospedali che curano le malattie fisiche o psichiche, devono esistere luoghi dove sia possibile curare il male morale. Mi piace pensare che la comunità sia un ospedale da campo, dove la cappellina è la sala operatoria e noi educatori e volontari siamo gli infermieri. Chi guarisce, in fondo, è sempre Lui, Gesù. Infatti Gesù stesso ha detto: «Non sono venuto per i sani, ma per i malati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».

Le attività delle CEC

Ripenso allora a ciò che abbiamo vissuto in quest’anno giubilare. La mostra delle CEC (Comunità Educanti con i Cacerati) è entrata nelle scuole, in tre sale Regionali, nei tribunali. Oltre ai pannelli di cartone c’erano anche i “pannelli viventi”, cioè i recuperandi che raccontavano la loro storia. Grazie a loro che si raccontavano nel profondo, molti hanno cambiato idea sul detenuto. Ad aprile abbiamo camminato insieme ai carcerati da Rimini alla Verna in pellegrinaggio per circa 100 km. Una tappa importante è stata Sant’Agata Feltria, dove le suore di clausura ci hanno sorpreso con la loro testimonianza: chiuse al mondo, eppure capaci di “godere” la vita anche nelle piccole cose. Anche questa è speranza.
Come segno giubilare abbiamo presentato al Meeting di Rimini una mostra fotografica molto visitata. I recuperandi che accompagnavano i visitatori hanno vissuto un momento decisivo: per la prima volta hanno visto che la gente non li giudicava, ma li ascoltava. Molti hanno detto che i giudizi più pesanti, in realtà, vengono dai detenuti stessi. Un passaggio di sguardo che vale un anno intero di lavoro.
La diocesi di Rimini ha poi deciso di restaurare il santuario della Madonna di Bonora e destinarlo all’accoglienza di 30 persone, un progetto da oltre 1 milione di euro sostenuto anche dalla CEI. Un luogo di preghiera che diventa anche luogo di accoglienza. Anche questo è un segno potente.

Un'esperienza che si diffonde

Ci sono stati incontri importanti: il convegno in Albania, il primo nella storia del Paese dedicato alla pastorale carceraria, dove ho parlato davanti a due vescovi, ai responsabili delle carceri e al direttore generale; i convegni in Sardegna, Bologna, Milano e altrove, che hanno fatto conoscere la nostra esperienza come un cammino concreto di speranza. In occasione del centenario della nascita di don Oreste, abbiamo portato la nostra testimonianza di come anche lui guardava al futuro delle carceri e come in fondo ha ispirato le CEC.
In Brasile ho toccato con mano condizioni detentive tremende, come a Belém, dove i detenuti erano inginocchiati mentre passavamo. Da quella ferita sono nate due comunità terapeutiche che accoglieranno anche persone con reati sessuali, con un modello innovativo ispirato alle CEC. In Italia abbiamo vissuto una tre giorni di formazione per operatori, recuperanti e volontari sulla “mistica della ferita”: come le nostre ferite possono diventare feritoie. Un lavoro necessario per chi educa e per chi si educa.
Il 3 novembre ho partecipato a Milano a un convegno con Antonio Valdêsi, cofondatore delle APAC, le carceri senza guardie brasiliane riconosciute dall’ONU come le migliori realtà nel panorama mondiale. È poi venuto nelle nostre comunità, riconoscendole come APAC italiane nella loro forma aperta, le realtà CEC. Da questo incontro è nato anche il CECIC, il progetto “CEC in carcere”, partito a Torino con una sezione interamente affidata al nostro metodo, sostenuta da circa 25 volontari. Una novità assoluta.

Un albo per le comunità alternative

Infine, un segno che attendevamo da vent’anni: il 15 settembre sono usciti i decreti attuativi dell’albo delle comunità. Dopo dieci case aperte e oltre 4.000 persone accolte, con una recidiva abbattuta dal 70% al 15%, oggi finalmente esiste una legge che riconosce e sostiene queste realtà, con un contributo dedicato. È un passaggio storico. Certo, ci sarà tanto da lavorare Noi auspichiamo che circa 20.000 detenuti possano espiare la pena in comunità.
Non mancano le difficoltà. Ad esempio in una casa un ex recuperando, Gianluca, lo avevamo assunto per fare da punto di riferimento: ha tradito la fiducia di tutti rubando dei soldi e scappando. Rischiamo anche di chiudere la casa.  Una ferita che brucia. Ma, dopo tutto, continuo, continuiamo a credere che l’unica strada sia quella del dono, anzi del perdono e della Misericordia. È l’unico cammino che può rendere la società davvero più sicura e aperta alla speranza.
Proprio in questi giorni Franco di Nucci del CEC di Vasto, insieme a una decina di recuperandi ha terminato il modello di presepe che sarà montato il prossimo anno in vaticano per il Natale 2026.
Allora comprendiamo sempre più che invece di maledire il buio bisogna accendere una luce, invece di maledire il deserto bisogna piantare alberi, invece di maledire il carcere bisogna costruire comunità e invece di maledire l’oggi bisogna costruire il domani, la speranza.