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27 Aprile 2021
Ultima modifica: 27 Aprile 2021 ore 12:55

Il sogno di Nadia De Munari, missionaria uccisa in Perù

Partita da Schio a 21 anni. La missione in Perù con Operazione Mato Grosso. Mercoledì scorso la terribile aggressione.
Il sogno di Nadia De Munari, missionaria uccisa in Perù
Foto di ANSA
Una vocazione missionaria maturata da giovane. Il racconto di un volontario: «Il suo non era solo un progetto di aiuto. Stava creando una nuova città regolata dal rispetto e dall'amicizia in contrapposizione alla violenza del posto.»
«Ha donato completamente la sua giovinezza e tutta la sua vita per i poveri e per i giovani». Sono queste le parole che ricorrono maggiormente tra gli amici, i parenti ed i volontari dell'Operazione Mato Grosso nel ricordare Nadia De Munari, la missionaria uccisa in Perù.
Mercoledì 21 aprile era stata aggredita nel sonno con un'ascia nella sua casa; dopo tre giorni e un delicato intervento chirurgico è morta sabato scorso nell'ospedale giapponese di Lima. La polizia sta indagando per trovare i colpevoli di un così efferato delitto.

Il racconto: «Viveva in un girone dell'inferno»

Nadia era responsabile di sei asili nido frequentati da oltre 500 bambini e della casa famiglia “Mamma mia” di Nuevo Chimbote, una città portuale di circa 700.000 abitanti sulla costa settentrionale del Perù. Dopo il terremoto del 1970 la città fu completamente ricostruita - da qui l'aggettivo “nuevo”- e crebbe a dismisura: oggi si presenta come una sterminata periferia di baracche costruite con pali e stuoie, in un deserto sabbioso. Qui vivono campesinos scesi dai poverissimi villaggi delle Ande per cercare lavoro e che vivono letteralmente alla giornata. Una città tristemente famosa nel Paese per l’alto tasso di pericolosità.
«Nadia la definiva un girone dell'inferno, a causa dell'estrema miseria e dei conflitti sociali - racconta Massimo Casa, uno dei responsabili dell'Operazione Mato Grosso -. Quando andai a trovarla nel 2017 mi portò a visitare la “sua” gente, quelli che aiutava. Non abitavano in case, non si potevano considerare neanche baracche perché mancava il tetto. Famiglie che vivevano con due pali e un telo sopra. Il clima è arido e  non piove quasi mai.»

Da Schio all'Operazione Mato Grosso

Nadia era partita da Schio, piccola città veneta dalla vocazione missionaria. Qui si convertì Bakhita, la schiava divenuta santa. Di qui è originario anche Christian Carlassarre, missionario in Sud Sudan, il più giovane vescovo italiano, 43 anni, rimasto ferito alle gambe proprio ieri in seguito ad un tentato rapimento.
Una comunità viva, animata dai volontari dell'Operazione Mato Grosso, organizzazione che ogni anno fa vivere un'esperienza di volontariato a centinaia di giovani desiderosi di conoscere l'altra faccia del benessere. Un'iniziativa fondata nel 1967 da Padre Ugo De Censi, salesiano, che in oltre 50 anni non si è mai istituzionalizzata, rimanendo nella sua genuinità a contatto con i giovani italiani e con i poveri in Brasile, Ecuador, Bolivia e Perù.
Operazione Mato Grosso è un vero e proprio movimento informale - non ha personalità giuridica - che si affida totalmente alla provvidenza e all'impegno di tanti giovani che raccolgono fondi per i progetti in America Latina, dove vivono una quarantina di missionari, come Nadia. «I nostri missionari non hanno alcun stipendio, nessuna pensione, nessun rimborso.»

Il progetto di Nadia De Munari: una nuova città dentro la baraccopoli

«Nadia partì a 21 anni per l'Ecuador, dove rimase un anno - continua Massimo Casa -. Aveva conseguito il diploma per essere maestra della scuola d'infanzia. Poi tornò in Italia a “rendere conto”, a portare la sua testimonianza ai suoi amici del Mato Grosso. Infine a 24 anni partì per il Perù. Dapprima nelle alte regione andine, poi a Chimbote. Ha donato la sua giovinezza e tutta la sua vita per i poveri e per i giovani.»
Il suo non era solo un progetto di aiuto. «L'idea di Nadia era di costruire una nuova città dentro la baraccapoli - spiega il volontario -. Una città regolata dal rispetto e dall'amicizia in contrapposizione alla violenza del posto. Per questo insisteva sull'educazione delle nuove generazioni, a partire dall'educazione dei bimbi dei cinque asili. Per questo nella casa famiglia ospitava ragazze che stavano facendo formazione per diventare maestre e assistenti delle maestre. Con loro gestiva una mensa popolare che distribuiva 1000 pasti al giorno. E poi la domenica faceva la catechista nella parrocchia vicina. Voleva ricostruire un tessuto sociale nuovo, fatto di umanità.»