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10 Febbraio 2021
Ultima modifica: 12 Febbraio 2021 ore 14:04

Mons. Essayan: «Hanno rubato i sogni ai ragazzi siriani».

Intervista al vicario apostolico latino di Beirut: «Siamo passati dall'antico mercato degli schiavi a una schiavitù moderna che usa i profughi per scopi tutt'altro che umanitari.»
Mons. Essayan: «Hanno rubato i sogni ai ragazzi siriani».
Foto di Operazione Colomba
Il vescovo è un amico dei volontari di Operazione Colomba in Libano: «È venuto a trovarci al campo e spesso la sua casa è il nostro posto per capire quel che succede in Libano».
Monsignor Cesar Essayan, francescano dell’Ordine dei frati minori conventuali, 
dal 2016 è vicario apostolico di Beirut, che raccoglie i fedeli cattolici di rito latino del Libano. 
È un amico dei volontari di Operazione Colomba, corpo non violento di pace della Comunità Papa Giovanni XXII, che operano in Libano. 
«È venuto a trovarci al campo – dicono -  e spesso la sua casa è il nostro posto per capire quel che succede in Libano». 
Ai volontari in una lunga intervista di qualche mese fa ma ancora di estrema attualità, traccia con chiarezza ciò che affligge il Libano, la situazione di vita dei profughi siriani e quello che può fare la Chiesa e l’Europa oggi, per aiutare a superare questo stato di cose. Ma avverte: «Non ho la formula magica, ma neanche Gesù ce l’aveva!».

Qual è la situazione in Libano?

«La situazione del Libano oggi è un gran caos, soprattutto dopo l’esplosione del 4 agosto, perché ancora una volta non abbiamo nessuna risposta sulla violenza che questo paese sta vivendo da tanti anni. Questo è il risultato di anni di schiavitù: da 40 anni alcune famiglie si sono divise il paese sia geograficamente sia dal punto di vista sociale ed economico, e i libanesi subiscono il potere e l’influenza di questi signori della guerra, dei soldi e delle armi.
I profughi palestinesi arrivati in Libano e disseminati in tutto il paese, hanno avuto il permesso di usare le armi, con il pretesto che queste servissero un giorno per combattere contro Israele e riprendere la loro terra. Sappiamo che dopo tanti anni, questo risultato non solo sembra difficile da raggiungere, ma appare impossibile, dobbiamo farcene una ragione. E se guardiamo alla nascita dei campi profughi palestinesi, possiamo capire come sono stati accolti i profughi siriani.»
 
Qual è la condizione di vita di questi profughi nei campi? 
«Durante la guerra libanese, ho avuto accesso a un campo a Debbaye non lontano dalla sede del Vicariato, da cui erano stati mandati via alcuni palestinesi. Ho potuto così scoprire la vita di queste persone. Vivevano in piccole case, senza il bagno. Ce  n’era uno all’esterno per ogni sei case. Le case avevano muri molto sottili, il che lasciava intendere che il campo dovesse essere provvisorio, ma quando il provvisorio dura per anni crea problemi sociali molto grandi e importanti. Non tutti i palestinesi sono caduti nella delinquenza, ma bisogna essere molto forti per resistere all’impatto di una struttura architetturale che spinge verso essa, più che verso l’apertura e la fraternità.»

Campo profughi di Tel Abbas in Libano dopo un incendio
Foto di Operazione Colomba


Anche i campi profughi siriani dovrebbero essere provvisori?
«Anche i campi profughi siriani dovrebbero essere provvisori, e anche qui vediamo la difficoltà di persone che hanno lasciato il loro paese, volontariamente o meno, e che vivono chiuse dentro un perimetro da cui solo i padri escono a volte per lavorare, mentre le donne e i bambini non hanno rapporti con l’esterno. Questo ha creato problemi sociali enormi. 
Quando lavoriamo con giovani siriani nei campi profughi, vediamo che l’unico modello di riferimento che possono avere è quello dei loro genitori, oltre a ciò che vedono nelle telenovele e nei cartoni animati. Non hanno altre prospettive oltre a queste. Si trovano in una prigione sia geografica, in quanto il campo è delimitato, e anche mentale. I bambini e gli adolescenti dei campi non hanno sogni, e questo è molto grave, perché quando non si hanno sogni non si ha la possibilità di costruire un futuro migliore.»

In mano a chi si trovano i profughi?

In queste condizioni cosa rischiano i profughi? 
«Siamo passati dall’antico mercato degli schiavi a un mercato di schiavitù dei profughi di oggi. Non parlo solo del Libano, ma dei profughi nel mondo intero, come in Giordania, Turchia, e anche coloro che dall’Africa arrivano in Europa. Papa Francesco nell’Enciclica “Fratelli tutti”, parla di questa nuova schiavitù moderna che usa i profughi per scopi tutt’altro che umanitari. Basta vedere quello che succede oggi quando i siriani vengono mandati a combattere in Azerbaijan con la promessa di un bel futuro. Questa gente si trova nelle mani dei potenti come moneta di scambio: abbiamo visto come la Turchia ha trattato con l’UE per tenere le sue frontiere chiuse e impedire ai profughi di arrivare in Europa; abbiamo visto tanti mafiosi di tutti i paesi rubare denaro alla gente promettendo di portarli in Occidente, senza curarsi di chi poi muore a causa loro. Questo accade mentre la politica internazionale continua a incoraggiare questi trafficanti, perché nessuno va a vedere a monte le radici di questo problema e si continua ad andare avanti come se non stesse succedendo niente. Anche da Tripoli pochi giorni fa sono partite diverse persone con un barcone e alcuni di loro sono morti.»

Campo profughi siriani bimbi
Confine con la Siria, campo profughi
Foto di Luca Cilloni


Dopo l’esplosione cosa sta succedendo a Beirut?
«Oltre a questi punti, aggiungerei la presenza di migliaia di ONG: dopo l’esplosione di agosto a Beirut sono nate moltissime nuove organizzazioni non-governative che ora stanno raccogliendo soldi, e io mi chiedo quale sia il reale impatto sul terreno e il perché di tutto questo.»
 
Qual è il ruolo dell’Europa nell’accoglienza dei profughi?
«Quando l’Europa accoglie, chi accoglie? Perché e come lo fa? Io sono totalmente d’accordo con Papa Francesco, ancora di più sull’accoglienza dei profughi, ma c’è “accoglienza” e “accoglienza”. 
Esiste l’accoglienza che riconosce i profughi come esseri umani e quindi nostri fratelli, perché siamo “fratelli tutti”, come ha detto il Papa, a cui offrire una nuova vita, la possibilità di aprirsi verso nuovi orizzonti e un giorno poter tornare nel proprio paese. Vivere nel paese dove si è nati e cresciuti è un diritto inalienabile delle persone.
I profughi siriani hanno il diritto di rientrare in Siria, di vivere nel loro paese e nessuno ha il diritto di imporre a questa gente di andare altrove, come nessuno ha il diritto verso di me, libanese, di impormi di prendere la nave e scappare, come si diceva un tempo, a causa della guerra civile. È mio diritto vivere nella mia terra, cioè nella mia patria, nell’ambiente in cui sono nato e cresciuto e di lavorare per il bene del mio paese e della mia gente, per il bene comune nostro e degli altri. 
Bisogna preservare il diritto di ciascuno ad essere accolto in qualsiasi posto, ma anche creare strutture di rientro sicuro nel proprio paese, perché se una persona fosse stata bene nel suo paese non sarebbe venuta in Europa, se avesse trovato il luogo adatto per crescere, forse non sarebbe partita, dovendo a volte lasciare la famiglia, i vicini e gli amici... »
 
 In quest’ottica non basta accogliere.
«Spesso ci si dimentica che qui in Oriente la famiglia ha un valore fondamentale, e che nessuno di noi può vivere lontano da questa, nel bene e nel male, perché i legami familiari sono molto forti e sono sacri, sono legami di sangue e al tempo stesso del Signore che ci ha creati tutti una stessa famiglia. 
È necessario ripensare all’accoglienza: fare il loro bene senza sfruttarli.
Capita che chi accoglie dica “Io accolgo cinque profughi perché mi servono cinque operai” ... e degli altri cosa ne fanno? Dove stanno? 
Come mai in Italia e in Francia ci sono delle “isolette” dove i profughi sono talmente rinchiusi da arrivare a covare violenza? Perché? Perché lì c’è un’accoglienza che non funziona. Il punto non è solo aprire le frontiere del Libano o dell’Europa, ma bisogna anche saper accogliere, offrire una prospettiva di futuro e speranza e impegnarsi nel proprio paese per la pace, al fine di riprendere un processo economico che possa permettere alle persone di vivere con dignità.»

Cosa significa accogliere i profughi?

Quali sfide ci attendono?
«Ho molta paura per il domani ma anche tanta speranza. Paura perché stiamo creando una generazione di persone che hanno visto solo la forza della violenza e che crederanno soltanto nella forza delle armi: “Mi hanno preso la mia casa con le armi, io prendo la loro vita con le armi”. 
Speranza perché ci sono persone di buona volontà che possono riuscire a cambiare le cose, come la vostra comunità e come tante altre che si impegnano per la persona, che cercano nel loro piccolo di fare qualcosa. 
San Francesco d’Assisi, per esempio, non ha fatto grandi cose: ha vissuto la fraternità e ha cambiato una grossa parte del mondo con il suo spirito, il suo essere vicino al fratello lebbroso, al lupo, al sultano. È questa la grande sfida: che nell’impegno quotidiano tutti facciamo la scelta dell’uomo, perché se non facciamo la scelta dell’uomo non facciamo la scelta di Dio, non facciamo la scelta del mondo né della vita. 
 
I profughi siriani hanno elaborato una proposta di pace che vede l’istituzione di zone umanitarie, sicure e demilitarizzate, all’interno del territorio siriano. Come si fa a creare un posto dove questa proposta venga ascoltata e trovi una casa?
 
«Un primo livello è quello di sensibilizzare. Le nostre scelte politiche sono importanti, non si può prescindere dalla politica nazionale e internazionale. 
In secondo luogo, non si può chiedere all’Europa di assumere la colpa di ciò che succede in Medio Oriente, perché non sono decisioni che riguardano soltanto l’Europa, c’entrano molto anche le grandi potenze mondiali, che spesso, per far girare la ruota economica creano guerre di qua e di là. La guerra in Siria è una guerra che non ha distrutto soltanto le persone, ma è una guerra di distruzione totale: infrastrutture, case, che un domani si dovranno ricostruire, e quando si deve ricostruire generalmente riparte l’economia delle grandi potenze. 
Bisogna rendersi conto che quando andiamo a votare noi stiamo facendo delle scelte. Ai nostri partiti dobbiamo chiedere chiarezza su questi argomenti: gli armamenti, la politica estera, il rispetto del valore della persona umana e dei suoi diritti.
La terza cosa è ricordare che il diritto dei profughi di tornare nelle loro case è un diritto dell’uomo che va oltre ogni politica.»

Operazione Colomba in Libano
I volontari di Operazione Colomba nel campo profughi siriani in Libano
Foto di Operazione Colomba


L’ONU che ruolo gioca?
«Bisogna anche ricordare alle Nazioni Unite il motivo per cui sono nate, qual è la loro finalità? Perché continuano a fare incontri? Sono nate per difendere le vite umane. 
Lì c’è un sistema di strutture che va cambiato, che non può andare avanti in questo modo. Ad esempio il diritto di veto, da una parte è una cosa buona, ma dall’altra è una cosa terribile perché permette ad alcuni paesi di fare ciò che vogliono e di tenere tutti sotto controllo. Dunque, c’è da creare una nuova sensibilità, ricordare che il discorso del rientro sicuro entra sotto la categoria dei diritti inalienabili dell’uomo, e non può essere solo una scelta politica.»
 
Le associazioni, i singoli cosa possono fare?
«Dobbiamo chiedere alle persone di buona volontà di fare gruppo e di impegnarsi su questo. È necessario unire le persone, anche al di là delle loro scelte politiche. Se ci impegniamo veramente su un piano globale di rispetto della persona umana, del suo diritto di crescere, di cambiare, di partecipare al progresso e allo sviluppo nel suo paese, penso che possiamo raggiungere questo obiettivo. 
Abbiamo tante persone in Libano senza documenti e i loro paesi di provenienza non fanno niente per aiutarli, non capiscono che quella è la loro gente. 
In questi ultimi mesi con il coronavirus, abbiamo visto le donne etiopi rimaste fuori dall’ambasciata a Beirut a chiedere il ritorno in Etiopia. A queste ragazze nessuno ha pensato, nessuno si è preso cura di loro. Nessuno le ha aiutate a tornare in Etiopia. 
Infine, dobbiamo sostenere Papa Francesco in ogni passo che farà in questo senso.
Non ho la formula magica, ma neanche Gesù ce l’aveva!»