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27 Gennaio 2024

La storia di Lala Lubelska sopravvissuta ai lager nazisti.

Ebrea, di origine polacca. La sua storia è stata raccolta anche dal regista Steven Spielberg, autore del famoso Schindler's List. Il ricordo di una donna che ha trascorso la sua adolescenza in tre lager nazisti, dove le hanno massacrato mezza famiglia. Raccontava la sua storia solo davanti ai giovani che tanto amava.
La storia di Lala Lubelska sopravvissuta ai lager nazisti.
Lala non c'è più, ma la sua memoria continua. Testimone della tragedia dell'olocausto nel ghetto di Lodz in Polonia, poi nei campi di Auschwitz, Flossenburg e Mauthausen, aveva trovato casa a Badia Polesine (RO) per amore. Aveva sposato il soldato che l’aveva salvata, il veneziano Giancarlo Cicogna. Raccontava ai giovani diceva: «Perché sappiano gioire della vita e imparino a perdonare».
Quando si avvicinava il 27 gennaio, Giorno della Memoria, Lala, sopravvissuta allo sterminio nazista, veniva continuamente chiamata a portare la sua testimonianza ai giovani nelle scuole. «Lo faccio per i giovani – diceva-. Perché sappiano gioire della vita e imparino a perdonare».
 
L’avevo contattata al telefono, volevo intervistarla, era nel febbraio del 2006. «Guardi, non ce la faccio – mi disse-. Mi hanno offerto anche dei soldi per intervistarmi, ma non lo faccio. Ogni volta che racconto sto male. Io parlo solo davanti ai giovani».
Così mi invitò ad andare con lei a Ferrara a sentire la sua testimonianza a scuola: «Può sentire quello che dico agli studenti e poi scriva quello che vuole». Fu un viaggio insieme molto toccante.

Chi era Lala Lubelska? 

Ebrea, polacca di origine, nel 2006 è un’ottantenne splendida, con una forza vitale invidiabile. Gli occhi di un azzurro profondo trasmettono dolcezza ma anche tanta fermezza.
Così piccola di statura, uno si chiedeva dove trovasse la forza di raccontare quanto vissuto nei campi di sterminio. La ferita si riapriva. «Perché - disse davanti ai giovani - vedo quei volti, i volti dei miei genitori. Ma so che lo devo fare, lo faccio perché è una missione, perché qualcuno non possa dire di non aver sentito».

Ecco la sua testimonianza:
L’aula magna è piena di giovani, saranno trecento. Il silenzio si fa sempre più profondo. Comincia il racconto.
 
Tutto è iniziato il 1 settembre del 1939. Nessuno immaginava che abitare a Lodz, una grande città industriale della Polonia, sarebbe diventato un inferno. I tedeschi volevano impadronirsene. «Quando sono entrati in città, è iniziata la schiavitù. Eravamo solo un numero. Noi ebrei non potevamo più andare al cinema, a teatro, salire sui treni, andare a scuola. Tutto era proibito. Se trasgredivi, venivi fucilato. Ma continuavamo a studiare di nascosto». I tedeschi non potevano certo distinguere chi era ebreo da chi non lo era. «Mia madre aveva gli occhi verdi ed era bionda, mio padre occhi azzurri, carnagione chiara. Io e le mie sorelle non somigliavamo certo agli ebrei rappresentati dai nazisti con il naso adunco e i capelli neri. Per riconoscerci ci hanno messo una stella davanti e anche dietro con scritto “jude”.»
 
Tutti gli ebrei vennero costretti a lasciare le loro case e rinchiusi nella parte peggiore della città che diventò il ghetto di Lodz. 230 mila abitanti. Una città, nella città. «Si dormiva per terra, sulle sedie, sui tavoli. Non c’erano i bagni». Gli ebrei erano costretti ai lavori forzati e chi non lavorava veniva ucciso. «Facevo le selle dei cavalli. Mi sanguinavano le mani. Poi mi hanno spostato a 5 Km da dove abitavo. Passavo in mezzo ai cadaveri. Vedevo i morti impiccati lungo le vie, uccisi solo perché erano ebrei».
C’era tanta paura, e tanta fame. La polizia ebraica al comando dei tedeschi manteneva l’ordine facendo il lavoro sporco. La tensione era alta. I tedeschi da un momento all’altro potevano fare irruzione nel ghetto. «Un giorno sono entrati in casa con il “nervo di bue”.
Una nervata di bue significava il taglio della pelle. Io porto ancora i segni sul corpo. Hanno preso me e mia madre e ci hanno caricate sul camion per il campo di sterminio. Appena il camion è partito un poliziotto ebreo, però, mi ha buttato giù dal camion ed io ho potuto tornare nel ghetto. Mia madre non l’ho più vista».
I bambini venivano uccisi perché non servivano al lavoro. «Molte mamme nascondevano i loro figli in nicchie scavate nei muri. Purtroppo tante di loro venivano deportate e i bambini rimanevano dentro nascosti, per sempre. Dopo la guerra hanno trovato i corpicini».
 
Agosto ’44. Stavano per arrivare i russi. I tedeschi scapparono portandosi via gli ebrei. «Dovevamo morire tutti. Hanno trovato mia sorella con la bambina, le mie sorelle gemelle e mio padre. Ci hanno caricati su un treno bestiame e durante il viaggio ho perso il senso del tempo. Il vagone è entrato nel campo di sterminio di Auschwitz. Gli ucraini, collaboratori dei tedeschi, ci accoglievano a bastonate. Prima di scendere mi sono girata e ho visto molti corpi a terra, in mezzo allo sterco».
Le persone erano sempre più sfinite, rassegnate. Uomini e donne venivano divisi. «Non scorderò mai il viso di mio padre quando venne separato da noi. Sorrideva dicendo: “Voi vi salverete”. Anche mio padre non l’ho più rivisto».

Nelle camere a gas 

I bambini ed i vecchi erano subito destinati alle camere a gas. «Arrivò il turno di mia sorella. Le strapparono la bambina per mandarla a morire. Mia sorella scelse di andare con lei. Ricordo il suo volto, la disperazione».
A questo dolore si aggiungevano le bastonate sulla testa da parte dei kapò. Chi era destinato al lavoro veniva tatuato. «Ma noi, che andavamo alla morte, non avevamo bisogno del tatuaggio. Ci hanno portate in una baracca dove eravamo stipate come le sardine. Su un tavolaccio c’erano delle ragazze inginocchiate su dei mattoni, costrette a reggerne altri con le mani. Quando crollavano, i kapò le portavano a morire. Prima venivano tormentate e poi uccise!».
La pressione psicologica era tanta. Tutte le torture servivano a toglierci ogni voglia di reagire. «Ci hanno dato una zuppa salatissima, ma ad Auschwitz non c’era acqua da bere. E la sete fa diventare cattivi, mentre la fame ti appiattisce. Le ragazze si gettavano a bere persino nelle pozzanghere. Poi durante la notte abbiamo avuto tutte una diarrea terribile. Eravamo cavie».
 
Non c’era più niente da perdere. A quel punto valeva la pena tentare. «Ero in fila con le mie sorelle. Dovevamo passare davanti ad un ufficiale che faceva uscire chi aveva il tatuaggio per andare a lavorare. Arrivato il nostro turno, si è avvicinata una donna all’ufficiale. Lui si è girato e noi siamo uscite senza che ci controllasse, mescolandoci a quelli che andavano a lavorare».
A Flossemburg, a fare carri armati ed aerei. In questo campo c’erano dei prigionieri di guerra italiani, che rispetto a noi erano più liberi. «Ci aiutavano molto rischiando la propria vita. Fra questi c’era anche il mio futuro marito».
 
Nuovo spostamento a Mauthausen. Oramai mancavano le forze e la voglia di vivere. Tanti si lasciavano andare e venivano fucilati. «Anch’io ormai sentivo che l’unica liberazione era la morte. Non avevo più la forza per camminare. Ma le mie sorelle mi hanno aiutata e salvata». Si sentivano cannonate degli americani che si avvicinavano. «Noi non avevamo paura, non ci interessava morire. Eravamo contente perché loro avevano paura». Nel frattempo continuavano ad arrivare ebrei. «Andavano direttamente alle camere a gas cantando salmi a Dio. Anche per loro la morte era una liberazione. A volte penso che se sono viva è anche grazie a questa gente, perché dando la precedenza a loro non hanno fatto in tempo ad arrivare a noi». 

Giovani sappiate gioire della vita! 

5 maggio 1945. A Mauthausen sono arrivati gli americani. Tutti liberi.
Anche di gioia si può impazzire. «Una delle mie sorella non riusciva più a smettere di urlare. Potevamo andare dove volevamo. Passavamo in mezzo ai cadaveri, ma non mi impressionavano. Mi impressionavano di più gli scheletri viventi, quei corpi che vagavano per il campo completamente nudi, con le guance e gli occhi infossati».
 
Dopo tanto odio si può perdonare, Lala lo ha fatto. «Io non odio i tedeschi. Nel ’45, finita la guerra, è arrivata a Badia Polesine, dove vivo, una mamma tedesca. Cercava il corpo di suo figlio. Io le ho fatto da interprete e l’ho anche ospitata a casa mia. Non mi sono fatta tante domande. Per me era solo una mamma che aveva perso suo figlio. L’odio porta solo odio».
Quell’esperienza terribile le ha segnato la vita. «Ma ne sono uscita in maniera meravigliosa. Io sono rinata! Invidiavo gli uccelli che volavano. Gioivo del mio cucchiaio, avevo un letto! Gioivo di tutto, e continuo a gioire ancora oggi. Ogni attimo della mia vita».