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20 Ottobre 2021

Mio figlio venduto per 56mila euro

Jamina, ingannata più volte, è costretta a prestare il suo utero e a prostituirsi per far guadagnare soldi ai suoi sfruttatori. Poi, grazie a un sogno, riesce a uscire da quell'incubo.
Mio figlio venduto per 56mila euro
Foto di Free Photos
Il nome è di fantasia, ma la storia è tutta drammaticamente vera. La vita di Jamina è stata raccontata durante il seminario "Tra corpo e psiche: ferite visibili e invisibili nello sfruttamento sessuale" svoltosi a Carpi lo scorso 16 ottobre in occasione della XV Giornata europea contro la tratta di esseri umani.
Jamina ha 29 anni ed è nata in Romania.
Dopo un anno di sfruttamento sessuale in strada, in una fredda sera di novembre, è lei stessa a chiedere aiuto ai volontari dell’unità di strada che la vanno a trovare ogni settimana.
Viene subito messa in protezione in una casa rifugio lontano dalla città in cui lavorava, perché il rischio di ritorsioni è alto e perché fin da subito Jamina sembra convinta a denunciare il suo sfruttatore, Luis, quello che, lei stessa dice, è stato il suo fidanzato.
Jamina, nel contesto del quotidiano, si mostra molto disponibile e volenterosa, entra subito in relazione con le altre donne e sembra sentirsi al sicuro in questa nuova situazione.
Nello stesso tempo però, con un linguaggio non verbale che sembra urlare più forte di quello verbale, lamenta continui mal di testa la sera, intorno alle 21, che è l’orario, ci racconterà dopo, in cui il suo sfruttatore la portava in strada. Ha spesso mal di pancia, «un dolore in fondo allo stomaco» dice, e formicolii alle gambe.

Insieme a lei proviamo a mettere insieme i pezzi del mosaico della sua vita, soprattutto quelli più dolorosi.
Jamina è la prima di 4 figli, unica sorella tra tutti maschi. Il padre muore quando lei ha solo 3 anni e la madre fa lavori saltuari per poter mantenere la famiglia. Abitano in una piccola cittadina rurale nel nord della Romania, dove, racconta Jamina, il bagno è fuori dalla casa, non c’è una doccia e non c’è il tavolo per mangiare, perché comprarlo costerebbe troppo.
Jamina non va a scuola perché mentre la mamma lavora deve badare ai suoi fratelli più piccoli. Impara appena a leggere e scrivere grazie a una zia che abita vicino a loro.

All’età di 19 anni conosce un uomo, anche lui rumeno, di cui si innamora perdutamente e che sembra “volerla salvare” da quella situazione e offrirle un’opportunità di vita.
L’uomo le propone di accompagnarlo in Italia e di aiutarlo in alcuni affari, così li definisce, rassicurandola che potrà tornare in Romania quando vorrà e mandare i soldi per permettere alla mamma e ai fratelli di stare bene.
Jamina parte, con il benestare della mamma, un po’ confusa, ma certa che quest’uomo non la deluderà mai.

Arrivata in Italia, l’uomo la porta in una casa dove vive con altri connazionali che lavorano e dopo qualche giorno la porta da una donna, che abita in una campagna del nord Italia.
Questa donna, anche lei rumena, dice a Jamina che l’Italia è un bel posto e che lei negli anni ha aiutato molte ragazze belle come lei a costruirsi un futuro. Ma il futuro ha un prezzo caro.

Jamina viene costretta dalla donna e dal compagno a prestare il suo utero per far nascere un bambino che poi andrà in adozione a una famiglia che non può avere figli. In cambio le daranno 56.000 euro.
Jamina è sconvolta, le sembra tutto surreale, ma è costretta ad accettare, altrimenti, le dice Luis, la sua famiglia morirà.
Sono mesi difficili, racconta in modo frammentario e a singhiozzi Jamina con l’aiuto della mediatrice, perché ritornare in contatto con quel dolore fa male.

Jamina più volte ha il desiderio di scappare, ma le minacce sono continue, e le botte nei primi mesi di gravidanza sono altrettante.
Passati i 9 mesi, Jamina dà la luce a un bambino e pensa che sia tutto finito. Vuole i soldi e vuole tornare in Romania, ma questo non accadrà mai.
Luis le dice che ora non può tornare, potrebbe essere presa dalla polizia, perché quello che hanno fatto è illegale in Italia, quindi le fornisce documenti falsi e la sposta di città.

In questa nuova città le dice che, per vedere i soldi, dovrà prima prostituirsi in strada.
Jamina cerca di opporsi ma non ci riesce: «Ormai ero in una condizione di sottomissione e tutto quello che mi chiedeva mi sentivo in obbligo di farlo, mettendo da parte la mia volontà», dice.
La famiglia la chiama ripetutamente: i soldi mancano e la mamma non sa come fare.
Jamina inizia a stare male fisicamente, fa molti incubi, non riesce a dormire.

Racconta che una notte sogna di dire alla mamma tutta la verità. La mamma le dice di chiedere aiuto e di scappare. E Jamina, coraggiosamente, la ascolta. Successivamente dice che quel sogno è stata la chiave di svolta per la sua decisione.
Dopo 6 mesi dall’arrivo in comunità, Jamina decide di denunciare sia Luis che la donna rumena che l’aveva obbligata a prestare il suo utero.
I suoi racconti sono pieni di sofferenza e di confusione. Noi operatori, in questo stare accanto a lei, ci siamo sentiti a nostra volta confusi, doloranti, colpiti e angosciati.

Jamina è riuscita a dare un nome a quello che ha vissuto, allo sfruttamento sessuale, alle violenze subite, alle minacce, alle botte. Ora Jamina sente di essere diventata protagonista della sua vita, mentre prima «pensavo di essere libera, ma in realtà non lo ero», dice.
Quello di Jamina è stato un procedimento giudiziario contorto e complicato: ha aperto un’indagine che si è conclusa solo dopo 3 anni. Fondamentale è stata la presenza di una rete di servizi e di operatori della salute per riuscire ad affrontare tutto l’iter penale.
Jamina nel frattempo ha preso la terza media e si è diplomata alla scuola alberghiera.
Dopo la scuola ha fatto il tirocinio formativo in una pasticceria che l’ha assunta come apprendista e che, dopo 6 mesi, le ha fatto un contratto a tempo indeterminato.

Intanto ha conosciuto un uomo al lavoro, con cui è andata a vivere in autonomia e con lui ha poi avuto una figlia, nata alla 25esima settimana e con una diagnosi di spettro autistico.
Nei primi mesi di vita della bambina, Jamina alterna momenti di grande consapevolezza e forza ad altri in cui esplicita che forse avrebbe dovuto dare anche questa bambina ad una famiglia capace di amarla. Dice: «Io non so se saprò prendermene cura».
L’esperienza della gravidanza le ha riattivato vecchie dinamiche e fantasmi legati all’esperienza vissuta e perciò le viene proposto un altro percorso di supporto per questo nuovo momento di vita, coinvolgendo anche il compagno in alcuni passaggi cardine sulla genitorialità.
In uno degli ultimi colloqui avvenuto di recente con lei, Jamina racconta che ci sono alcune parti del suo corpo che a volta urlano ancora, come ferite che talvolta si riaprono e che sembrano riportarla all’inizio di quell’incubo, così lo chiama.

Poi aggiunge che ha capito che quelle ferite rimarranno e che sta a lei provare a ricucirle e a scegliere il colore del filo con cui poterlo fare.
Dice: «Per questo filo ho scelto l’azzurro, perché è il colore che arrivata in Italia la prima volta mi ha colpito: il cielo era azzurrissimo, senza una nuvola. In Romania c’è sempre la nebbia nel paese da cui vengo. Ora ogni volta che il cielo è così luminoso, io mi sento meglio».