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7 Agosto 2021
Ultima modifica: 14 Giugno 2023 ore 17:18

Cosa imparano i miei figli dallo sport in tv

Lo sport può insegnare coraggio, impegno, lealtà. Ma se prevale il bisogno di primeggiare, diventa uno spettacolo deprimente.
Cosa imparano i miei figli dallo sport in tv
Foto di Christian Bruna
Le olimpiadi possono insegnare che lo sport praticato con impegno è salute, disciplina, è una valida alternativa alla tendenza odierna del consumismo, dell'avere tutto e subito, senza sforzo, tipici della società usa e getta.
Mentre scrivo, in questa estate “magica” per lo sport italiano, due italiani semisconosciuti ai più hanno appena vinto l’oro olimpico, per la corsa e il salto in alto, due discipline di quello sport poco blasonato e poco spettacolarizzato che è l’atletica leggera. La commozione di Gianmarco Tamberi dopo 10 anni di sacrifici, la scelta sua e di Barshim di quell’oro ex aequo (siamo amici – hanno detto) le lacrime sulla pelle scura di Marcell Jacobs durante l’inno nazionale italiano mi sembrano dei bei segni di speranza. Perché la speranza viene dalle persone, e specialmente quelle che si sono affermate hanno una grandissima responsabilità.
Allora, e il tema è proprio attuale in questi giorni, esiste ancora l’ideale olimpico?
 
La scorsa settimana ho assistito alla partita di mio figlio Emmanuele, tennista undicenne, in un torneo.
Del tennis agonistico praticato dai ragazzini mi colpisce la capacità di autogestirsi in campo, e la correttezza verso l’avversario. Le partite nelle categorie under non hanno giudice, e i bambini/ragazzini si autoarbitrano. Ognuno è “padrone” della propria metà di campo, e in caso di contestazione possono decidere di rigiocare il punto. Raramente ho visto un giocatore disonesto: nella parità di poteri c’è una sorta di equilibrio.
In questa partita ero stupita dalla furbizia e mancanza di onestà dell’avversario, e soprattutto dal fatto che sorella e madre fuori dal campo esultassero per gli errori di Emmanuele. Una delle prime cose che l’allenatore di Manu gli ha insegnato è il non esultare mai per gli errori altrui, ma complimentarsi invece per i vincenti. La seconda è che i genitori non dovrebbero mai intervenire.
Qualche sera prima – durante la premiazione per gli europei di calcio – mi era parso davvero brutto il gesto con cui i giocatori inglesi, con disprezzo, si sono tolti la medaglia del secondo posto.
A partire da queste considerazioni mi sono chiesta se sia possibile conciliare lo sport, vissuto oggi come competizione e necessità di primeggiare, con l’esigenza di dare ai giovani un percorso di maturazione che non sia esclusivamente mirato al raggiungimento a tutti i costi del risultato agonistico ma che li aiuti a una formazione della personalità, che li aiuti insomma a diventare delle persone per bene, soprattutto dal lato umano.
 
Affermare che lo sport sia una scuola di vita al servizio sia del bene individuale che del bene comune è un’ovvietà. Lo sport praticato con impegno e passione è salute, è disciplina, in alternativa alla tendenza odierna del consumismo, dell’avere tutto e subito, senza sforzo, tipici della società usa e getta. Poi c’è l’incontro con gli altri: oggi purtroppo si sono perse piazze e cortili in cui i bimbi giocavano liberi, stavano insieme, si confrontavano e imparavano a rispettarsi. Oggi il tempo libero lo si trascorre con la Playstation o l’Ipad.
Lo sport è il più valido strumento per uscire dal virtuale.
Eppure sempre più la pratica sportiva è associata all’idolatria della vittoria e del successo, e i miti dei ragazzini spesso sono quelli che «hanno 17 Ferrari in garage» piuttosto che quelli che dedicano tempo a fare gli ambasciatori dell’Unicef. Basta che siano i più forti, in tutto.

La cultura della sconfitta

Beppe Bergomi, ex capitano dell'Inter e della Nazionale, racconta spesso un episodio. Era un terzino e non faceva molti gol. Una volta aveva segnato il gol del 5 a 1 all'Ascoli e aveva esultato come se ne avesse segnato uno al Barcellona. Al primo raduno della Nazionale, l’allora CT Bearzot lo chiamò e gli disse che quel gesto non gli era piaciuto. E lui, senza capire: «Ma perché?». «Perché dovevi pensare che loro, perdendo, finivano in serie B e quindi non è stato corretto fare tutta quella festa». Conclusione di Bergomi: «Ci rimasi malissimo, però aveva ragione lui».
Ho sentito questo racconto qualche giorno fa alla radio, il tema era «La cultura della sconfitta». Tutti i giornalisti e sportivi presenti concordavano nel dire che non si insegna più a perdere. Eppure si continua a ripetere che il vero campione è quello che sa perdere prima di saper vincere. Ma la quotidianità pullula di spettacoli deprimenti. Imbrogli, violenza, corruzione. E le liti dei genitori a bordo campo.
 
Noi genitori siamo spesso divisi tra la retorica dello sport come occasione educativa per i figli e una realtà che invece racconta del cinismo della vittoria a ogni costo, in cui i meno dotati saranno sempre scarti. Realtà alla quale purtroppo nessuno è immune. Posso raccontare a mio figlio che l’importante in campo è essere onesti gentili, coerenti con se stessi; posso raccontarmi che non siamo qui a coltivare campioncini, ma la tentazione è forte, sempre in agguato.
In questa ottica anche lo sport come veicolo privilegiato del diritto all’inclusione diventa imbroglio e ipocrisia.
Se conta solo la vittoria, ogni mezzo è lecito per raggiungerla. Anche una buona dose di furbizia.
La retorica sportiva parla di “fair play”, di quanto sia importante partecipare. Eppure l’avversario non è vissuto come uno che ti aiuta a esprimere meglio il tuo potenziale, ma è il nemico da sconfiggere, l’ostacolo da rimuovere.
Di questo però ho trovato un esempio positivo in una delle rivalità più famose del tennis, quella tra due dei più grandi tennisti di tutti i tempi, Rafa Nadal e Roger Federer. Una rivalità anche per il premio della lealtà e correttezza sportiva, che da più di 15 anni viene vinto a turno dall’uno o dall’altro. Quando chiesero a Federer quanti slam avrebbe potuto vincere se non ci fosse stato Nadal rispose che non ci sarebbe stato Federer se non ci fosse stato Nadal: nell’avversario trovi la forza di esprimere tutti i talenti, migliorare, diventare te stesso.

Se non vinci, non sei nessuno

In un mondo in cui conta solo vincere, quando perdi non sei nessuno. Tipico di una società che non accetta e scarta le fragilità.
Eppure – e questo è indubbio, anche nel motto olimpico di de Coubertin («Più veloce, più in alto, più forte, insieme») – non si può negare che l’importante sia vincere. Si gioca per vincere. Ma è altrettanto importante non confondere il fine dello sport con il significato che lo sport deve avere: impegno, coraggio, solidarietà con gli altri, lealtà verso gli avversari. È in questo contesto che c’è il fine della vittoria.
Ai ragazzini va insegnato a perdere, ma anche a vincere. Vincere senza arroganza, con umiltà.
E poi – come diceva don Oreste Benzi - gli va insegnato che (anche in campo sportivo) «L’uomo non è il suo errore». Se uno perde, non è un perdente, è uno che avrà un’altra occasione.
Infine, ed è davvero molto, attraverso lo sport possono imparare onestà e senso di giustizia. Non è uno stare alle regole che li rende succubi e passivi, ma è comprendere che dentro quella regola c’è un esercizio di libertà che permette di fare ciò che si ama, in un’ottica sociale.
 
Perché lo sport sia al servizio del bene comune le logiche economiche, spettacolari e di idolatria dovrebbero essere compresse e ridotte. I ragazzini hanno bisogno di adulti credibili: i maestri, i genitori, i campioni “testimonial” e i responsabili di istituzioni sportive.
Deve essere un impegno di tutti, che può partire proprio dalla richiesta della famiglia. Se le famiglie si affidano e collaborano con società e allenatori che danno importanza alla dimensione etico-formativa, e le istituzioni premiano queste realtà, lo sport potrebbe diventare un reale fattore di benessere al servizio della società, per sviluppare la crescita umana e civile dei giovani. 

Un atleta che difende i diritti umani

C’è una storia che meriterebbe di essere raccontata a ogni piccolo atleta che sogna di diventare una stella. Lui si chiama Enes Kanter, gioca con i Boston Celtics in NBA. È turco, vive negli Usa e non può tornare nel suo Paese, non può rivedere la sua famiglia (che in patria è perseguitata), non può neppure parlare con il padre, che è stato costretto a disconoscerlo a mezzo stampa.
Enes parla, lo fa con i giornalisti, lo fa attraverso i social, e denuncia le violazioni dei diritti umani in Turchia. È segnalato all’Interpol, la Turchia chiede la sua estradizione, ma lui continua a chiedere che in Turchia non si svolgano eventi sportivi di rilievo internazionale, che non sia ammesso nell’Unione Europea un Paese che viola sistematicamente i diritti umani. «Io non faccio politica – precisa – io lotto per la democrazia e i diritti. Come atleti, come cantanti, rapper, personaggi di spettacolo possiamo ispirare le nuove generazioni ad essere consapevoli dei diritti, a lottare contro i regimi, i dittatori, i bulli. Quando mi guarderò indietro non vorrò chiedermi quanti punti ho fatto o quanti rimbalzi ho preso, ma quanti cuori ho toccato, quante vite ho cambiato».