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29 Giugno 2022

Beauty. Storia di una sposa bambina

Il difficile percorso per uscire da un passato di violenza, abuso, schiavitù
Beauty. Storia di una sposa bambina
Originaria del Bangladesh, arrivata in Italia a 13 anni, Beauty è stata data in sposa al cugino: «Quando lui ha cominciato a volere rapporti sessuali io ero disperata: per una settimana sono diventata matta, volevo ammazzarmi, non ce la facevo. Ho cominciato a tagliarmi perché mi faceva stare bene. Quando lui mi minacciava non mi diceva "ti ammazzo" perché sapeva che non mi faceva paura, era quello che volevo anche io. Mi picchiava per qualsiasi cosa. Lui ha ucciso la me bambina»
Ci sono bambine che hanno un destino segnato appena nascono. Anche nei nostri quartieri, nelle nostre frazioni. Beauty, in Italia da 13 anni, è stata una di quelle piccole senza diritto di esprimere le sue scelte. Oggi è una donna bengalese di 26 anni.
Ma è stata sua figlia adolescente a far emergere tutto il dramma della vita della sua mamma, una storia costruita da altri. Una ragazzina tenace che, dopo aver visto sua madre tante volte ferita dalle botte del padre, un giorno si fa coraggio e chiama la polizia. Beauty e i suoi 2 figli, un maschio e una femmina, vengono quindi tempestivamente inseriti in una Comunità. Sono coinvolti tutti i servizi competenti: il servizio sociale, il consultorio, il Tribunale dei minori, avvocati di parte, il centro antiviolenza, la psichiatria. Dopo anni di isolamento questa giovane donna si trova attorniata da operatrici, medici e avvocati pronti a portare avanti una battaglia insieme a lei. La psicoterapeuta che ci condivide questa vicenda, Noemi Galleani, è stata coinvolta nel supporto psicologico e ha le idee chiare: occorre ricostruire le sue radici, il suo background migratorio, ascoltare la narrazione delle vicende dal punto di vista della protagonista. Per supportarla fino in fondo non è possibile pensare di salvarla dal mostro e decifrare di nuovo la sua storia al suo posto. «Come raccomanda la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie – spiega Noemi Galleani della Scuola Etnopsi di Roma - la conseguenza di un’unica storia è questa: sottrae alle persone la propria dignità. Rende difficile il riconoscimento della nostra pari umanità. Le storie sono importanti, le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Possono spezzare la dignità di una persona ma possono anche riparare quella dignità spezzata».

Data in sposa quando aveva 10 anni

Dai suoi racconti emerge che Beauty è sposata ad un suo cugino da quando aveva 10 anni.
«Una bellissima donna - racconta la psicoterapeuta che l’ha seguita. - Di lei mi sorprende subito la capacità di passare in brevissimo tempo dal più grande e accogliente dei sorrisi a un pianto inconsolabile o a un buio e una chiusura totale che esprime nei suoi lineamenti tirati, nello sguardo impietrito (lo abbiamo chiamato “lo sguardo che non guarda”), testimoni di una sofferenza grande, immensa».
Come capita spesso con donne straniere, la fatica più grande di Beauty è stata dover parlare di sé con diverse persone. Avrebbe voluto piuttosto essere lasciata in pace con i suoi bambini, a volte diceva anche di essersi pentita di aver riportato tutto ciò che le era successo: «Mi sembra di vivere in un altro incubo, non di essere uscita da quello in cui ero stata messa».
Quando non c’è una sensibilità e una competenza ad attraversare le differenze culturali, si può fare tanto danno. Beauty è passata da un marito-padrone che non le permetteva di uscire, che si ubriacava e la picchiava per qualsiasi cosa, a essere all’interno di un meccanismo sociale che non capisce: «Perché non posso vivere da sola coi miei figli, perché non posso pensare di ritornare in Bangladesh?» chiede Beauty.
 
Ai nostri occhi occidentali questa appare come una storia di violenza, di abuso, di schiavitù, per Beauty invece non è da lì che bisognava partire per narrare e recuperare la relazione proprio con sé stessa. Forse per la prima volta. 
Beauty era arrabbiata con i suoi genitori. Quello che la faceva soffrire, a volte anche più delle botte prese, era la menzogna, il tradimento che sentiva di aver subito da parte soprattutto della madre. Una madre che si era diplomata e le aveva promesso che avrebbe fatto studiare anche lei. E proprio da questo aspetto così importante per lei è partito il suo percorso di rinascita. La psicoterapeuta le fa una proposta interessante: scrivere un diario per elaborare il trauma. E anche qui il punto di vista si ribalta. Beauty chiede a chi la accompagna nel suo percorso psicologico di scriverlo per lei, a partire da ciò che settimanalmente appunterebbe su un foglietto. «Con il paziente straniero – confida Noemi Galleani - bisogna fare un passo in più: dignità va data non solo alla persona, ma alla sua cultura, alle sue convinzioni, al suo popolo». Ed è cominciata così la sua narrazione “etnica”.

«Ha ucciso la me bambina»

Il diario di Beauty inizia così: «Quando ero piccola avevo paura di tutto, i miei genitori si erano separati e stavano poco con me: loro erano spariti e io non conoscevo il mondo. Quando avevo circa 10 anni è finita la mia storia di bambina. Mio papà mi porta a casa di uno zio: “Tuo cugino è tornato dall’Italia e ha un sacco di regali per te”. Era simpatico, mi ha dato tante caramelle che io ho portato a scuola. Mesi dopo il papà mi porta in moschea e qualche giorno dopo le persone cominciano a dirmi che ero sposata, mia zia mi rassicura, mi dice che non è vero. La notizia arriva anche all’orecchio di mia mamma che si infuria, mi porta dalla Polizia, ma loro non fanno nulla … solo quando sono arrivata in Italia mio cugino ha cominciato a dirmi che ero sua moglie, prima mai: io andavo a casa sua e giocavo con le altre bambine. Prima di prendere l’aereo, mio papà mi propone di andare a trovare nostro cugino in Italia, quando arriviamo in aeroporto lui dà dei soldi alle guardie e loro mi portano all’interno. Io piango, loro mi fanno sedere in aereo dicendomi che andranno a cercare il papà. Non è successo. In Italia c’era mio cugino ad aspettarmi, io non avevo paura di lui, mi aveva sempre trattato bene. I primi tempi mi diceva che “dovevo fingere” di essere sua moglie perché altrimenti non poteva avere dei documenti importanti. Lui poi dirà che non sapeva che avevo 13 anni… che tristezza: tutti i miei parenti avevano sempre festeggiato il mio compleanno e ora dicevano di non sapere la mia età! 
Quando lui ha cominciato a volere rapporti sessuali io ero disperata: per una settimana sono come diventata matta, volevo ammazzarmi, non ce la facevo. Ho cominciato a tagliarmi, mi faceva stare bene. Quando mi minacciava non mi diceva “Ti ammazzo” perché sapeva che non mi faceva paura, era quello che volevo anche io. Mi picchiava per qualsiasi cosa. Lui ha ucciso la me bambina».

Il difficile percorso di Beauty, sposa bambina

Beauty è stata spesso frammentaria nel suo racconto.  A volte chiedeva di smettere, altre volte tremava e si metteva a piangere, altre ancora sembrava tranquilla. Affiancare chi è stata vittima di matrimoni forzati non è un percorso lineare e semplice. Richiede tempi lunghi, ascolto paziente di silenzi che raccontano la violenza intima subìta. La salute mentale di tante bambine costrette a restare dentro famiglie che non hanno scelto ne risulta compromessa per lungo tempo.
Intanto le istituzioni hanno continuato il loro corso: l’avvocato e il Centro antiviolenza hanno manifestato nel corso dei mesi il bisogno che lei fosse determinata e scegliesse da che parte stare in vista del processo. Ogni dettaglio sul suo matrimonio poteva essere un’arma a doppio taglio, se non decideva di lasciare suo marito per sempre. Ed essere anche causa di una maggiore tutela dei figli, già a lungo vittime di violenza assistita, senza di lei.
E infatti c’è stata l’escalation della sua fragilità mentale. Ad un certo punto della sua storia Beauty è stata ricoverata, le voci che diceva di sentire, i vissuti paranoici hanno rischiato di diventare i sintomi di una diagnosi di psicosi. Ma le categorie diagnostiche in psichiatria non sembrano sufficienti a contenere i vissuti delle donne migranti, che soprattutto durante la pandemia sono state le più esposte alla violenza di genere. La sua vicenda e anche le sue voci insegnano, come per altre donne che all’inizio non hanno chiesto aiuto da sole, che spesso la donna migrante ha bisogno di un contesto interculturale che non annulli di colpo il suo ambiente di origine e che non imponga un unico modo per ricucire le proprie ferite con schemi precostituiti. 
 
Solo con tempi più prolungati di cura, questa sensibilità culturale ha permesso di restituire anche a Beauty finalmente il diritto di esprimersi. Le sue ferite sono ancora profonde, nei mesi è riuscita a prendersi del tempo per sé, per provare a capire cosa vuole davvero, anche se le crisi sono ancora presenti. Ha scritto di recente su un foglietto: «Quando sento di non farcela, basta che chiudo gli occhi, penso al viso della mia psicoterapeuta e alle parole che mi diceva per darmi forza: che sono una leonessa e che anche io ce la posso fare. E mi calmo»Il suo percorso ha ormai subìto una svolta secondo quanto ci riporta la sua psicoterapeuta: «Beauty è passata da una “narrazione di destino”, dove il rischio è quello di essere oggetto dei programmi di altri, a una “narrazione di progetto”, in cui è lei, pur zoppicante, a essere protagonista del suo futuro».
Ricominciando dalla scuola e da quel diploma che ha sempre sperato di poter ottenere qui in Europa.

Questa storia è stata raccolta all'interno del progetto "MIRIAM. Free Migrant Women from GBV, through identification and access to specialized support service", finanziato dal "Justice Programme" e dal "Rights, Equality and Citizenship Programme" dell'Unione Europea e finalizzato, attraverso il partenariato di Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Differenza Donna in Italia e Fundaciòn de Solidaridad Amaranta in Spagna, a potenziare i servizi per le donne vittime di violenza, con una particolare attenzione alle donne straniere vittime di sfruttamento sessuale, violenza domestica e matrimoni forzati. 
Per saperne di più: www.apg23.org/it/progettomiriam/
Per info e richieste di aiuto, scrivere a: progettomiriam@apg23.org