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11 Luglio 2019

Vincent Lambert, vita inutile?

Nel giorno della morte di Vincent Lambert, tetraplegico in stato vegetativo a causa di un incidente dal 2008, pubblichiamo l'intervento integrale di Luca Russo al Seminario "Diritto o condanna a morire per vite inutili?" proposto oggi a Roma
Vincent Lambert, vita inutile?
Foto di ANSA@EPA/IAN LANGSDON
L'esperienza di accudimento e di accompagnamento alla morte. Una riflessione culturale. L'appello e le proposte politiche della Comunità Papa Giovanni XXIII per una legge sul fine vita
Della cultura dello scarto abbiamo la conoscenza diretta di chi vive sulla sua pelle le conseguenze angoscianti dell’essere rifiutati. Ogni persona che bussa alle porte delle nostre case famiglia porta con sé una domanda di morte. Le ferite della vita sembrano inguaribili ogni qualvolta si guardano e si toccano nella solitudine del proprio dolore. 

Oggi Luca Russo è a Roma ospite del seminario "Diritto" o "condanna" a morire per vite "inutili"?

Persone con gravi forme di depressione, bambini in stato di abbondono con i segni delle violenze familiari sulla loro pelle e più spesso nella loro psiche, piccoli corpi crocifissi da malattie neurologiche gravissime incapaci di una qualunque forma di autonomia vivono nelle nostre famiglie con alimentazione e idratazione artificiali, attaccati ai respiratori, inchiodati alle loro carrozzine capaci solo di movimenti impercettibili. Ragazze e spesso bambine schiavizzate dal racket della prostituzione, in condizioni psichiatriche gravissime a seguito degli abusi e delle violenze subite. Una prostituzione schiavizzata globalizzata e intercontinentale che si perpetra quotidianamente sotto i riflettori dell’Europa cristiana e di ogni cittadino del mondo. Tutti portano con sé la richiesta di mettere fine al proprio dolore inumano.


Quante richieste di morte ci vengono recapitate da storie inginocchiate dalla salute esile, dal carcere duro, da depressioni insostenibili, da abbandoni inaccettabili. Tutti bussano a casa nostra con la domanda, più o meno esplicita e più o meno consapevole, di morire. Che senso può avere continuare a stare nella vita per sopportare la brutalità della depressione, della disabilità, dell’abuso e della violenza quando nessuno viene in soccorso?

Davvero: portateci in Svizzera!

La cultura dello scarto non è un’indagine sociologica, non solo una statistica. Noi vi possiamo dire i nomi e i cognomi, raccontare le storie, i caratteri, i vizi e le virtù personali degli scartati. Abbiamo incontrato le facce e le storie degli scarti. Dormono nelle nostre camerette, lavano i piatti con noi…a quante persone con disabilità tagliamo la carne, cambiamo i pannolini, risistemiamo i letti!

La cultura dello scarto genera la richiesta straziante di spegnere la vita. I rifiuti vogliono morire.

La cultura del Volto

Chi non si arrende alla cultura dello scarto, però, può generare una cultura diversa, la sola via possibile, che può farne da controcanto. E’ la cultura del Volto che si rivela come la vera strada da percorrere per isolare e rinunciare allo scarto che ci circonda e a cui ci siamo assuefatti.
La cultura del Volto legge dentro le storie delle persone, ne cerca il cuore, rovista nell’animo degli scartati e ne coglie, ancora resistente, una passione per la vita, un desiderio di stare al mondo. Sotto una coltre di solitudine, di angosce, di violenze, di disabilità c’è ancora vita. La cultura del Volto non si limita a dare informazioni sulle possibili vie per morire meglio, più in fretta e con meno spese e dolori…non siamo i passacarte dell’esistenza umana! La cultura del Volto incontra la persona, la guarda in faccia, la conosce e ne scopre tutta la sua identità, tutta la sua rabbia e il suo dolore, come anche tutto il suo grido di esistere a cui nessuno ha porto l’orecchio.

Dobbiamo fare cultura! Facciamo la storia solo se sappiamo schierarci a mani nude dalla parte del Volto. E’ una questione di umanità a prescindere da ogni fede religiosa.

Nel seno della debolezza, nel bacino della fragilità umana ci giochiamo la credibilità della nostra umanità. Saremo ricordati come umani nella misura in cui avremo raccolto, accudito e riconosciuto “meraviglia” in quei rantoli di vita che ideologie e opportunità politiche spengono con un bottone o con lo stantuffo di una siringa. Noi siamo veramente umani solo se sappiamo prenderci cura gli uni degli altri. La nostra umanità è tale se diventa co-umanità, una vera “mistica della prossimità”, dice Papa Francesco. Diventiamo sempre più inumani se in nome di una libertà sregolata accettiamo di assistere ai nostri familiari che muoiono di fame e di sete rinunciando all’idratazione e alla nutrizione.

Per questo non diamo credito a chi parla di eutanasia e non ha incontrato il Volto della vita piegata e messa in ginocchio dalle vicende naturali dell’esistenza. Chiunque parli di eutanasia deve preventivamente passare dall’incontro personale e autentico con il Volto del dolore. Il rischio che già si verifica e si è verificato con la legge sulle DAT è quello di aver delegato all’ideologia politica il compito di interpretare il mistero della vita umana senza mai essersi accostati e avere creato amicizia con chi implora la morte come soluzione ai dolori della vita.

La qualificazione della vita come bene indisponibile comporta che il sistema giuridico e sociale preveda il dovere di attivarsi per la tutela del bene vita. Il nostro ordinamento, infatti, è fondato sulla indisponibilità del bene giuridico vita, sul riconoscimento del diritto alla vita e del conseguente dovere di vivere, ciò comporta inevitabilmente il rifiuto dell’eutanasia come reato contro la vita.

Purtroppo il presupposto giustificativo delle scelte normative effettuate in precedenza dalla Legge 219/2017 (c.d. testamento biologico) e ora dalla proposta di legge di iniziativa popolare “Rifiuto si trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, è proprio questo: la volontà del paziente rende lecita ogni scelta e ogni rifiuto terapeutico perché espressione del diritto di libertà.

Nella Legge 219/2017 la nozione di trattamento sanitario è posto come oggetto del consenso informato, e sono stati considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione di nutrienti mediante dispositivi medici. E ciò non solo in caso di gravi patologie o per malati terminali, bensì anche trattamenti sanitari “ordinari” quali la Peg e la Tracheostomia.

Configurando il rifiuto delle terapie come un diritto è stata introdotta nel nostro sistema l’eutanasia omissiva.
Con il progetto di legge “Rifiuto si trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia” si vuol fare un passo chiaro verso una legge che nero su bianco, sin dal titolo, e introduca anche l’eutanasia “attiva”, laddove il medico debba attivarsi per dare attuazione alla volontà del paziente e portarlo alla morte.

La qualità della vita e la dignità della persona

I punti di forza di chi sostiene l’eutanasia legalizzata sono la qualità della vita e la dignità della persona da un lato e il principio di autodeterminazione dall’altro. Ci permettiamo due brevi considerazioni.

La qualità della vita misura la funzionalità dell’esistenza di una persona, definisce il modo possibile della vita di un uomo, ma non definisce mai l’inidoneità alla vita. Una scarsa qualità di vita non si risolve come si sbriga una pratica d’ufficio ponendo fine all’esistenza; impone piuttosto il soccorso della cultura del Volto, dell’altro che compensa, con la sua forza, la debolezza altrui e in questa prossimità si crea un legame di amicizia che non li rende più estranei, ma “accostati”, poiché l’uno accanto all’altro affrontano le sfide del percorso umano. In questa vicinanza si genera l’intesa che permette all’uno di conoscere i desideri più profondi dell’altro.

Nella cultura del Volto non abita il desiderio della morte come anelito che pone termine a solitudini, dolori, deficit... perché innaturale alla cultura del Volto. Quanta gente è entrata nella mia famiglia invocando la morte come conquista di libertà, come segno di civiltà che avrebbe restituito dignità ad una vita infame ed insopportabile, e poi la condivisione di vita e la prossimità hanno riorganizzato la grammatica e i significati: la vita è ritornata ad essere meraviglia e degna di essere vissuta e la morte non era altro che il tempo ultimo che Dio solo conosce e non sta a noi determinarlo.

Il principio di autodeterminazione

Il principio di autodeterminazione resta un traguardo delle civiltà moderne se contenuto nell’alveo della libertà dell’uomo che è tale solo se si tratta di una libertà di vivere la vita nonostante le sue fatiche e fragilità. Laddove il principio di autodeterminazione sconfina nella distruzione di se stessi denuncia una perdita di libertà, l’uomo che chiede di farsi uccidere ha rinunciato alla libertà di esistere.

La libertà è tale solo se mi permette di scegliere, e non di rinunciare alla vita, al di là delle condizioni sfavorevoli. Ma questa scelta davvero libera suppone che una comunità si faccia carico della vita del singolo e si organizzi per essere di supporto alla vita di chi si trovi in condizioni di fragilità.

Il principio di autodeterminazione va contenuto dentro un range che ne rispetti la natura, la storia e gli obiettivi. L’autodeterminazione, fondamentale nel rispetto dell’umanità, va contemperata con il bene supremo e indisponile della vita.

Il principio di autodeterminazione, quando perde il senso del bene comune, della solidarietà, della cura reciproca disgrega l’umanità, attenta al vivere civile, che è un vivere come popolo, come comunità politica e non certo come monadi occupati e preoccupati solo di se stessi e della propria sopravvivenza (o addirittura della distruzione di se stessi). Il principio di autodeterminazione resta una conquista di civiltà se non vanifica il principio della comunità.

La nostra Carta Costituzionale tra i diritti involabili annovera il diritto alla vita, che delinea come diritto alla vita e non come diritto sulla vita, trattandosi di bene indisponibile.

L’interruzione delle terapie od un comportamento attivo del medico che portano alla morte una persona, come possono considerarsi compatibili con il riconoscimento del valore costituzionale del diritto alla vita? Non ci si può infatti limitare ad affermare che il fondamento costituzionale della centralità del consenso sia costituito dal diritto alla libertà di cui all’art. 13 della Costituzion; tale diritto non può qualificarsi come diritto assoluto tale da pregiudicare l’indisponibilità del bene vita.

La proposta politica

Dai lavori parlamentari ad oggi emerge che non si addiverrà alla promulgazione di una Legge sull’eutanasia entro settembre, in ogni caso il tema continuerà ad essere proposto. 
Prospettiamo, dunque, di formulare una proposta di legge sul fine vita:
  • che definisca i confini giuridici, sanitari e antropologici del FINE VITA circoscrivendo il tempo del fine vita in contesti precisi e definiti per evitare di far rientrare nel fine vita ciò che non lo è. FINE VITA – si può dichiarare solo in presenza di malattia terminale, prognosi infausta, inefficacia terapia farmacologica e di interventi medici;
  • attivare un protocollo di accompagnamento alla morte naturale con cure palliative e terapia del dolore e sedazione palliativa profonda solo per le situazioni riconosciute come rientranti negli estremi del FINE VITA;
  • Prevedere quale tipo di risposta dare a chi chiede l’eutanasia pur non rientrando nella categoria definita del FINE VITA: una alleanza terapeutica e solidale. Accompagnamento psicologico; accompagnamento farmacologico; attivazione di contesti sociali e culturali pro vita;
  • Mai sospensione alimentazione e idratazione artificiali, salvo situazioni in cui risulti dannosa.
  • Si ritiene non si possa prescindere da un riconoscimento chiaro del diritto all’obiezione di coscienza del medico e del personale sanitario.

L'Eutanasia di Dio

Per approfondire, leggi il libro di Luca Russo: L'Eutanasia di Dio