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19 Agosto 2025
Ultima modifica: 19 Agosto 2025 ore 13:40

«In Zambia la mia vita è cambiata per sempre»

Alcuni volontari italiani condividono le loro esperienze in Africa, raccolte in un libro di prossima uscita
«In Zambia la mia vita è cambiata per sempre»
Foto di Silvia Finelli
Era il 1985 quando la Comunità Papa Giovanni XXIII iniziava la presenza in Zambia. Per l'occasione esce un libro che raccoglie la storia fin dal suo inizio, raccontando anche le testimonianze di tanti che hanno vissuto un'esperienza che ha cambiato la loro vita.
Sono tantissime le persone che hanno fatto un’esperienza in Zambia durante questi 40 anni di presenza della Comunità Papa Giovanni XXIII. Alcuni si sono fermati pochi mesi, altri hanno vissuto lì per anni, creando legami importanti, altri ancora hanno fatto dello Zambia la loro casa. Una cosa però è certa: l’esperienza vissuta ha lasciato segni profondi nel cuore, nell’anima e nella vita di tutti quelli che ci sono passati. Le testimonianze che seguono fanno parte del libro “Una storia a colori in Zambia”, dove sono raccolte anche le foto di chi racconta la propria esperienza.
Leggendo ciascuna di queste storie, si capisce bene quanto sia vero che «donandosi, si riceve; dimenticando se stessi, ci si ritrova» come diceva S. Francesco.
 
Se anche tu vuoi raccontarci la tua esperienza in Zambia e di come è stata importante per la tua vita, scrivi a questo indirizzo e verrai inserito in questo Dossier di semprenews

«Ha scatenato in me una tempesta emotiva»

Alessandro Cuppi: «Io e mia moglie Marta Don siamo stati in Zambia da settembre 2016 a settembre 2017; io c’ero stato anche l'anno prima, da giugno 2015 a giugno 2016. “È questa la vita che sognavo da bambino [...], hai le costole dentro alle costole che cosa c'è, hai le vene dentro alle vene che cosa c'è". Così dice Jovanotti nella sua Megamix, così è stata la tempesta emotiva che ha scatenato il pezzetto di vita vissuto in Zambia insieme. Il lavoro nei progetti e le relazioni con le persone ci hanno aperto gli occhi sul mondo e su cosa conta nella vita. Il vivere “qui ed ora” appieno, nelle sue fatiche e contraddizioni avendo speranza e forza è l’insegnamento che ancora oggi fatichiamo a mettere in pratica. I colori, gli odori, il silenzio, le canzoni e i sorrisi sono impressi nei ricordi, i pasti dopo la preghiera di ringraziamento sono momenti che rappresentano lo stare insieme e la semplicità della condivisione. Tuatotela sana, Zambia (Grazie mille, Zambia), sei parte di noi e della nostra famiglia».
 
Alessandro Tizzi: «Ho visitato per la prima volta lo Zambia nel 2000 insieme a Betta Garuti, per un paio di settimane. Nel 2001 poi ci sono tornato e rimasto per circa 4 anni. Durante questo periodo mi sono occupato principalmente della costruzione di alcune strutture del progetto Cicetekelo come capannoni, edifici per agricoltura e allevamento, mense, alloggi, aule a Misundu e Nkwazi. Dopo tanti anni dal mio rientro mi viene ancora chiesto quanto lo Zambia mi abbia cambiato. Onestamente non so rispondere, ma è certo che le esperienze, e soprattutto le persone incontrate, hanno profondamente influito su chi sono oggi. Gli zambiani, a causa delle dure condizioni di vita, mi hanno mostrato un diverso modo di vivere e pensare; a dover pianificare il loro futuro con un termine temporale molto più breve (24/48 ore) rispetto al nostro modello occidentale. Ciò mi ha continuamente e faticosamente costretto a mettermi in discussione, cosa che auguro a tutti, soprattutto ai giovani. Fra le tantissime persone incontrate Mara Rossi, Gloria Gozza, Stefano Maradini e padre Carletto Luongo sono quelle cui sono stato più vicino e che, ognuno con il proprio inconfondibile stile mi hanno aiutato. Mentre ero in Zambia, ho incontrato Natalie. Qualche anno dopo il nostro ritorno dall'Africa, ci siamo sposati e ora abbiamo due splendidi bambini, Frank e Romeo. Spesso racconto di questo insegnamento lasciatomi da un povero (sì, molto povero) muratore zambiano deciso a convincermi che io, per il solo fatto di essere bianco, fossi ricco. Insomma, dopo un acceso e lungo scambio in cui io provavo a spiegargli in tutti i modi che non ero assolutamente ricco mi chiese: «Ma tu sei povero?». «No, non sono povero». «Ecco, allora vedi che sei ricco?!».
 
Chiara Fasoli ha svolto il suo anno di servizio civile a Ndola da settembre 2023 fino a giugno 2024: «Sono stata in Zambia per quasi 10 mesi, collaborando in particolare nel progetto Rainbow. Sono indescrivibili tutte le emozioni provate in questi mesi: dalla gioia alla disillusione, rabbia, tristezza, entusiasmo e speranza... Ecco alcune righe che ho scritto mentre ero in Zambia: “Cara Africa, piango per te tutti i giorni. Piango quando Harold, un gentile anziano che ha dedicato la sua vita agli ultimi, mi ringrazia per il lavoro che faccio nella sua scuola, quando è lui che l’ha sognata e cercato il modo di realizzarla con tutte le sue forze. Piango quando Charity mi dice che le piace leggere, ma a casa non ha che i libri di scuola e gli appunti da riguardare. Piango vedendo la mamma di Willord, una donna simpatica con una forza immensa, mettersi in gioco con la fisioterapista nella speranza di poter migliorare la vita del figlio. Piango quando Chembo mi abbraccia e bacio la sua testa piena di cicatrici. Piango quando penso a quanto saresti meravigliosa, se il mondo non fosse pieno di ingiustizie. Piango perché, nonostante tutto, sei speciale e non posso fare altro che donarti tutto il mio amore. Sicuramente, entrare a contatto con una realtà così grande che, nonostante le difficoltà, ha portato del bene nella vita di così tante persone mi ha lasciato un segno indelebile che continuerà a guidare le mie scelte future. Grazie.”»
 
Clarice Charlantini: «Le attività che ho svolto come Casco Bianco all’interno del progetto Rainbow sono state diverse e hanno contribuito ad un arricchimento a livello umano e a livello professionale. Infatti, essendo non solo un Casco Bianco, ma anche un’ostetrica, la professionalità presente nel progetto ha fatto in modo che acquisissi molte competenze specialmente nell’ambito della malnutrizione. Arrivata a marzo 2014, la dr.ssa Giulia Amerio, Gloria Gozza e Stefania Moramarco mi hanno accolta e mi hanno inserito innanzitutto all’interno dei centri nutrizionali. La nostra presenza nei centri nutrizionali serve per fornire un aiuto al personale locale nel momento in cui subentrano qualche incertezza durante le visite dei bambini, serve per monitorare il lavoro degli operatori locali, che sono stati a loro volta formati dal personale dell’ufficio Rainbow, durante lo svolgimento delle attività del programma nutrizionale (la visita del bambino, la corretta compilazione dei registri, la cooking demonstration e la Health talk). La mia presenza ha fatto sì che, quando venivano individuati alcuni bambini con problemi clinici più specifici, potessimo riferirli alla dr.ssa Giulia per una valutazione nella sede del Progetto Rainbow. C’era anche un lavoro più progettuale: l’organizzazione mensile della distribuzione del cibo per 11 centri nutrizionali; l’incontro mensile con gli operatori per la valutazione del numero dei bambini ammessi e dimessi durante il mese; la distribuzione della quota di denaro da dare ai responsabili dei centri. Inoltre ho portato avanti un lavoro di ricerca con la costituzione di un database con i dati dei bambini assistiti nei centri nutrizionali a partire dalla fine del 2012 fino alla fine del 2014. Durante quest’anno ho avuto l’opportunità di conoscere le storie di questi bambini e di tante persone attraverso la stesura dei report che inviavamo ai donatori del progetto Rainbow. Ho anche portato avanti il sostegno per gli anziani seguiti da Rainbow, che li segue attraverso dei piccoli centri asia: «nutrizionali. Con loro ho iniziato una raccolta dati, un’indagine conoscitiva con l’elaborazione di un questionario che ho somministrato nell’arco di 5 mesi ai beneficiari del programma, sempre in collaborazione con le figure di riferimento per questi gruppi di anziani che sono gli stessi collaboratori del Progetto Rainbow. Questa indagine servirà in futuro per organizzare in maniera più strutturale anche questi centri. Ho effettuato alcune visite domiciliari, in cui ho avuto la possibilità di conoscere meglio la realtà dei compound di Ndola e soprattutto sullo stile di vita che le persona hanno; sono andata nelle scuole sostenute da Rainbow sia a Ndola, sia nella città di Kitwe. 
Nel Team dell’ufficio Rainbow vi sono anche due signore zambiane, Maxildah e Margaret che è un’infermiera, con cui ho lavorato a stretto contatto per il lavoro nei centri nutrizionali e che sono state davvero una grande risorsa per il mio inserimento in quel contesto. Le giornate lavorative nel Rainbow, seppur impegnative, per la bellezza e l’importanza sul territorio di questo Progetto sono sempre state entusiasmanti.»

«Ho scoperto la bellezza del donare» 

Daniele Bonvecchio: «Sono stato in Zambia per la prima volta tra giugno e luglio del 2016, durante un tirocinio in cui ho seguito e raccolto dati sul Progetto Home and Container Gardening del Progetto Rainbow. Dopo la laurea, sono tornato a novembre 2017 con il Servizio Civile come Casco Bianco, dove ho lavorato per un anno nel progetto per persone con disabilità (Mary Christine) e ho trascorso due mesi nella casa famiglia “Fatima Home” di Mansa, dove ho seguito il progetto di adozioni a distanza. Dopo qualche mese in Italia, ho deciso di tornare in Zambia, dove sono rimasto fino a ottobre 2023, seguendo i progetti di sviluppo economico del Progetto Rainbow. In questi anni ho vissuto emozioni intense, ho scoperto la bellezza del donare, ma anche del ricevere, ho creato legami profondi, nuove amicizie e una nuova famiglia. A Mansa infatti ho incontrato Theresa, con cui sono sposato, e a febbraio 2023 è nato Joel, la nostra gioia più grande. Il volontariato in Zambia è stato per me un'opportunità di crescita, di diventare parte di una comunità resiliente, forte, che cerca il cambiamento tramite la condivisione e l’aiuto del prossimo.»
 
Davide Papa: «Sono stato in Zambia da dicembre 2008 al dicembre 2012. Nei primi 2 anni mi occupavo delle attività ludico-ricreative al Cicetekelo Youth Project nella sede di Nwazi, una delle baraccopoli di Ndola, dove erano accolti minori tra gli 8 e 15 anni. Negli ultimi 2 anni, assieme ad altri ragazzi italiani e ad alcuni ragazzi che avevano concluso il progetto Cicetekelo, mi occupavo di gestire e formare i ragazzi al lavoro di gelatiere: un'esperienza immersiva, responsabilizzante, creativa, ma soprattutto difficile, essendo agli albori. L'esperienza in Zambia mi ha lasciato una ricchezza immensa, sia in termini di emozioni vissute, sia di incontri con persone che sono diventati miei maestri per la loro resilienza e determinazione, ma soprattutto per la loro speranza, che non si spegneva mai. La consapevolezza più grande – vista la mia "fragilità" quando sono arrivato – che mi ha lasciato questo Paese è che potevo farcela, che realizzare i propri sogni è possibile, se ci credi. Mi ha lasciato però anche un vuoto, perché quando sono ripartito per tornare in Italia il mio cuore era tormentato; mi mancava tutto: la lentezza delle cose, il calore della gente e a volte anche quella pioggia battente, che sentivi sopra la testa grazie ai tetti in lamiera. Ma, come dicevano spesso in Zambia, l'importante è fare “muende bwino” un buon viaggio, ed il mio tempo lì e stato parte bellissima e soddisfacente del mio. In ultimo, ma non per importanza, la cosa più bella forse che mi porto dietro sono i sorrisi, la bellezza di condividerli e viverli intensamente anche in quei momenti in cui le cose non erano facili.»
 
Deborah Rasia: «Mi chiamo Deborah e vengo da un piccolo paese della provincia di Vicenza. Quest'anno compirò 32 anni. La mia vita ha preso una direzione inaspettata nel 2020 quando sono arrivata per la prima volta in Zambia come Casco Bianco, destinazione Casa Famiglia a Mansa. È stato un impatto travolgente, il mio primo incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII e con la realtà delle case famiglia, un incontro che ha cambiato profondamente la mia visione della vita. La famiglia che mi ha accolto era una famiglia speciale: gioiosa, ma segnata dalle difficoltà, un microcosmo di speranze e sfide quotidiane. Vivere in casa famiglia significava essere immersa in una realtà che non ti concede pause. Ogni giorno era un impegno costante, una continua presenza accanto a bambini e adolescenti che avevano già conosciuto troppo dolore. La vita li aveva privati di molte cose, ma io cercavo di dare loro tutto ciò che potevo: affetto, cura, attenzione. Durante il primo anno di pandemia, la vita era cambiata drasticamente, tanto in Italia quanto in Zambia, e a causa di necessità organizzative, mi sono dovuta trasferire a Ndola, dove mi sono occupata dei report delle adozioni a distanza, e qui ho incontrato un’altra realtà devastante: ho conosciuto bambini che vivevano per strada, che avevano perso la bussola della loro esistenza, abbandonati e abusati. Questi bambini, costretti a diventare adulti troppo in fretta, mi hanno cambiato profondamente. Sono loro che mi hanno fatto rimanere. Per il dolore che questi bambini portavano dentro, è stato impossibile per me pensare di tornare in Italia, di lasciare Ndola e vivere dei ricordi. Sono passati 5 anni, e io sono ancora qui. Non me ne sono mai andata. Le situazioni sono cambiate, e purtroppo sono peggiorate. Le condizioni di vita delle famiglie zambiane sono sempre più difficili, e il numero di bambini che vivono in strada è aumentato, con una presenza sempre più visibile delle bambine. Le ragazze, purtroppo, sono le più vulnerabili: la loro vita è segnata da abusi e violenze, e spesso non riconoscono più il valore di se stesse, del loro corpo, del loro futuro. Sono qui e voglio esserci, perché il mio cuore è legato a questa terra, a queste persone, e a questi bambini che hanno bisogno di qualcuno che ci sia per loro».
 
Domenico Convertino: «È davvero bello sapere di far parte, come una piccolissima tessera in un vasto mosaico, di una storia così ricca e fertile come quella dei 40 anni di missione della Comunità Papa Giovanni XXIII in Zambia. Ma è ancora più bello, e sempre sorprendente, scoprire quanto quella storia sia parte essenziale di sé e del proprio percorso di vita. È innanzitutto questo senso di gratitudine e reciproca appartenenza che mi suscita il ripensare ai mesi trascorsi in Zambia tra ottobre 2000 e marzo 2001 come Casco Bianco in servizio civile all’estero. Ebbi l’imprevista opportunità di essere la prima persona a svolgere il servizio civile in Zambia (e in generale in una zona di missione all’estero, dato che fino ad allora i Caschi Bianchi della Comunità avevano avuto come destinazione le presenze in aree di conflitto con Operazione Colomba, il corpo nonviolento di pace della Comunità). In realtà avevo scelto di svolgere il servizio civile per tornare nei Balcani dove, a Sarajevo, avevo conosciuto l’esperienza di Operazione Colomba. Ma, per una serie di ostacoli logistici e inattese possibilità, dopo una breve missione in Chiapas, in Messico, la mia destinazione divenne Ndola, Zambia. Il mio compito era seguire alcune attività del progetto Rainbow, in particolare il programma del microcredito, finalizzato a garantire supporto e autonomia economica a centinaia di famiglie che, nello spirito solidale della ‘famiglia estesa’ africana, si facevano carico dei bambini orfani dell’AIDS. Percorrendo chilometri di strade sconnesse e polverose per incontrare e accompagnare le persone coinvolte nel programma – in gran maggioranza donne: madri, nonne, zie – mi imbattevo ogni giorno in storie incredibili di sofferenza e privazione, e al tempo stesso di riscatto, resilienza e solidarietà che non mi hanno più lasciato. Pian piano imparavo a dare un volto e un nome a parole come povertà, ingiustizia, sfruttamento, e insieme scoprivo che c’è sempre una via, per quanto impervia e faticosa, verso la speranza e la dignità. Al fianco dei missionari in Zambia e dei tanti zambiani coinvolti nei progetti o accolti nelle realtà di accoglienza, ho toccato con mano il senso quotidiano della condivisione di vita con gli ultimi e gli oppressi, insieme all’urgenza e alla necessità della rimozione delle cause dell’ingiustizia e dell’oppressione che schiacciano la vita di così tante persone indifese e impoveriscono interi popoli. Ecco, penso che siano stati proprio quelle scoperte, quegli incontri, quelle storie, quella ricchezza di vita a darmi nuove consapevolezze e a indicarmi la via in tante scelte successive. E così, dopo 25 anni da quella prima volta in Zambia, e quasi altrettanti anni di lavoro nella cooperazione internazionale (di cui 20 con la Comunità Papa Giovanni XXIII, dapprima nella ONG Condivisione fra i Popoli che ne sostiene i progetti in zona di missione, e ora nell’ufficio di rappresentanza presso l’ONU che promuove la rimozione delle cause a livello internazionale tramite azioni di policy e advocacy), trovo ancora ad accompagnarmi la convinzione più profonda impressa in me dall’esperienza di Casco Bianco in Zambia: giustizia e dignità non sono solo parole astratte, ma possono e devono divenire risposte concrete da costruire collettivamente, giorno dopo giorno, passo dopo passo.»

«Mi sento parte di una grande famiglia che nasce dal cuore»

Don Adamo Affri: «Sono un sacerdote della Comunità Papa Giovanni XXIII. La mia storia con la storia della comunità in Zambia si è intrecciata in più occasioni. La prima volta nel lontano agosto 2000, anno giubilare, quando sono stato invitato a trascorrere tutto il mese delle mie ferie nella casa famiglia Holy Family, dove abitavano Tina e i suoi 12 figli. Ero agli inizi del mio cammino in Comunità e quell'esperienza fu folgorante: il gioco, il cambio dei pannolini, le tenerezze, un mondo nuovo! Tornai, e presi il coraggio di fare la tanto sospirata scelta di vita: lasciare tutto per andare a fare famiglia con chi non l'aveva: i poveri! Sognavo di tornare proprio in Zambia perché era lì che una forza più grande mi aveva raggiunto e vinto. Le cose poi andarono diversamente, ma quel mese di condivisione ha segnato per sempre un prima e un dopo. Negli anni successivi ho portato più volte gruppi di giovani in quella terra africana, forse perché desideravo scoprissero ciò che io scoprii quella volta, e così vi rimasi sempre affettivamente legato e coinvolto. Nel 2009 diventai sacerdote, e venni invitato più volte in Zambia per tenere gli esercizi spirituali per i fratelli e sorelle di quella zona: mi sembrava così di restituire il bene ricevuto fin dalla mia prima esperienza con loro. Ogni volta rimanevo stupito dalla condizione di povertà di questa gente che però teneva vivi valori in noi spesso assopiti: la grande dignità di ogni persona; la forza che viene dall'essere popolo; la certezza di vivere sotto lo sguardo di Dio e nella sua Provvidenza. Due testimonianze di questa gente ricordo in particolare: il primo, in uno dei tanti centri nutrizionali del progetto Rainbow, l’incontro con le mamme che, mentre tenevano in braccio il loro bambino in fin di vita, avevano il coraggio di cantare una lode a Dio che diceva così: “Questo mio figlio, prima di essere mio è tuo, Signore; io so che tu puoi prenditi cura di lui. Tu sei nel mio dolore, io sono nella tua speranza: eccolo, te lo affido!”; parole sconcertanti! Il secondo incontro è stato con uno dei tantissimi bambini di strada, che, una volta coinvolto nel progetto Cicetekelo, ho visto crescere nel corso delle mie tante visite. Ha avuto la possibilità di diventare uomo: si è sposato ed ora è papà. Ha avuto il dono di poter studiare ed ora è diventato insegnante: una vita bella, realizzata; un germoglio di risurrezione! Poi nel 2014 mi è stato chiesto per 3 anni di assumere la responsabilità di questa zona e così ogni 2 o 3 mesi andavo per una decina di giorni. Questo mandato pastorale mi ha aiutato a conoscere i membri zambiani Apg23 più da vicino e ho scoperto il loro cuore. Sono persone che vengono dalla povertà, ma che nella condivisione sanno tirar fuori capacità umane e spirituali molto preziose, purificate dalla sofferenza vissuta sulla propria carne, che oggi diventavano risorse perché dentro una vocazione, un cammino di popolo. Nei fratelli italiani in Zambia, invece, ho capito cosa significa essere missionari: prima di voler cambiare il luogo o la gente, la scelta che bisogna sempre riportare al centro è fare della propria vita un dono attraverso lo stesso processo assunto da Cristo: l'incarnazione. Che regalo è stata questa esperienza! Ultima cosa che ricordo con simpatia è un episodio successo con alcuni giovani zambiani con cui ho condiviso tanti momenti di festa, di preghiera, di cammino. Una volta, prima di iniziare un incontro con loro, ho sentito il bisogno – prima di annunciare che Dio è amore attraverso una catechesi – di chiedere quanti di loro avessero mangiato quel giorno. Scoprii che erano pochi quelli che avevano messo qualcosa in pancia. Prima di iniziare allora, chiesi ad un membro Apg23 di andare a comprare del pollo e delle patate perché tutti avessero qualcosa nello stomaco. È stata una grande lezione per me: ho capito che se voglio conoscere il Dio di Gesù Cristo che è amore per comunicarlo, dobbiamo cercare di creare una condizione di giustizia, di uguaglianza, dove tutti possiamo sentirci amati, e questo spesso è una nostra personale responsabilità. Lo Zambia: una terra, un popolo, una cultura, una spiritualità, che ha la forma di volti, storie e vite, anche molto ferite, ma che per me trasudano Cristo!»
 
Don Giorgio Salati: «È molto difficile descrivere con le parole quello che ho visto in Zambia e ancora di più esprimere le emozioni vissute. Le foto che ho pubblicato ogni sera sulla mia pagina Facebook (è aperta tutti, senza bisogno di “amicizia”) mettono in evidenza la situazione di tanta gente che vive di stenti, in case misere, in un Paese fondamentalmente povero. La Comunità Papa Giovanni XXIII, che opera a Ndola, città di 650mila abitanti nella regione del Copperbelt al confine con il Congo, da oltre 40 anni si occupa di bambini abbandonati, di ragazzi di strada, di disabili, di anziani soli: gli ultimi della società. Per questo motivo sono nate negli anni alcune case famiglia, un servizio per il sostegno alimentare, la scuola speciale per i disabili e il progetto Cicetekelo rivolto ai ragazzi di strada. Non una semplice distribuzione di beni di prima necessità, non un banale assistenzialismo, ma una condivisione della vita con i più trascurati. Dall’ultima volta che ho fatto visita a Ndola nel 2004, il progetto Cicetekelo (ho scoperto solo l’ultimo giorno che questa parola, in lingua Bemba, significa “speranza”) è diventato quasi un villaggio dove diverse strutture e diverse persone accompagnano i ragazzi di strada a diventare persone adulte con una propria autonomia: dormitori, mensa, laboratori, campi da gioco, scuola, avviamento al lavoro, coltivazioni, allevamento di animali, falegnameria, meccanica, gelateria e pasticceria. Un percorso di vita completo! Non ho quindi visto animali esotici, elefanti o zebre, ma maiali, capre, polli e galline, cani (compreso il parto di 5 cuccioli) e gatti. Non ho pranzato in lussuosi resort, ma ho mangiato con le mani nshima (polenta bianca) e verdure, e qualche pezzo di carne di produzione interna. Non ho distribuito caramelle, magliette o altre cose, ma ho raccolto il sorriso e il saluto di centinaia di bambini e ragazzi. Mi hanno accompagnato in questa avventura, oltre a Gloria Gozza che vive in Zambia da 30 anni, 7 ragazze (età media 25 anni), alcune in servizio civile volontario all’estero (dette Caschi Bianchi) e altre impegnate come volontarie. Sono state, a turno, il mio angelo custode che mi ha permesso di incontrare le varie persone coinvolte nei progetti aiutandomi con la traduzione dall’inglese. Con il massimo dell’impegno sono riuscito a celebrare la Messa in inglese, ma quando si tratta di comprendere cosa mi viene detto, sono un disastro, non capisco nulla! E quindi mi hanno accompagnato a visitare il “Luigi drop-in center” e la Special School a Chinika, il progetto Anziani a Misundu, il Nutrition center di Rainbow a Maria Chimona in un villaggio rurale molto distante. Ho ammirato la loro dedizione, il loro coinvolgimento con la vita dei ragazzi di strada, dei disabili, degli anziani soli. Alcune di queste ragazze provengono da famiglie appartenenti alla Comunità in varie parti d’Italia, altre da cammini di Chiesa in parrocchia o in gruppi scout. Tutte col desiderio di coniugare, nella propria vita, la fede con un servizio ai poveri. Il sabato e la domenica, i giorni centrali della mia permanenza a Ndola, sono stati dedicati al ritiro spirituale proposto ai membri della Comunità e al gruppo giovani che partecipa a varie iniziative proposte da Apg23. Una trentina di persone che hanno vissuto in silenzio l’ascolto delle meditazioni che ho proposto, partendo dalla Bibbia e facendo riferimento alla figura e agli insegnamenti di don Oreste Benzi, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita. Ammirevole la loro partecipazione all’adorazione e alla Messa, con canti a più voci (cantati da tutti!). Qualcuno mi ha detto che avrebbe voluto venire insieme a me, per vedere e toccare con mano la realtà dell’Africa. Occorre preparazione. I Caschi Bianchi, ad esempio, trascorrono i primi 2 mesi del loro anno di servizio civile a Rimini per capire cosa vanno a fare. I volontari devono partecipare prima a un corso specifico; non ci si improvvisa samaritani! E quindi cosa possono fare i parrocchiani di Cologno Monzese? Se sono giovani, tra i 18 e i 28 anni, possono pensare al servizio civile (il bando di quest’anno è appena scaduto, ma possono pensarci per l’anno prossimo). Se sono giovani, o quasi, possono pensare di dedicare uno o due mesi della prossima estate a vivere un’esperienza di volontariato; ma devono fare il corso missioni (sono uscite da poco le date, basta chiedere). Se sono famiglie, possono pensare di accogliere in casa un bambino disabile abbandonato in ospedale. Anche in Italia esistono bambini abbandonati, non solo in Africa. Se sono adulti e hanno a cuore le persone con disagio, possono partecipare all’unità di strada che settimanalmente incontra i senza fissa dimora in centro a Milano. Anche in Italia ci sono ragazzi (un po’ cresciuti) di strada, non solo in Africa. Se sono anziani possono dare il proprio contributo economico perché questi progetti in Zambia possano continuare a svilupparsi.»
 
Elena Belluzzi: «Partire per il mio anno di volontariato (servizio civile) in Zambia, a Ndola, è stato come saltare nel vuoto senza sapere cosa mi aspettasse dall’altra parte. Avevo 23 anni appena compiuti, era il 2020 e, mentre preparavo la valigia, ero travolta da un misto di emozioni: da un lato l’entusiasmo di iniziare una nuova avventura, dall’altro la paura di trovarmi sola, lontana da casa per così tanto tempo. Sapevo, però, che avrei messo tutta me stessa per cercare di comprendere, di imparare, di dare qualcosa di mio. Quando sono arrivata, la prima cosa che mi ha colpito è stata la gente. La popolazione di Ndola mi ha accolta con calore e sorrisi sinceri, pieni di una luce che non avevo mai visto prima. Erano persone che avevano poco, eppure erano sempre pronte a condividere tutto ciò che avevano. Il mio servizio civile si è svolto all’interno del Progetto Rainbow, un’iniziativa che si occupa principalmente di combattere la malnutrizione infantile. L’impatto iniziale è stato forte, quasi travolgente. Mi sono trovata a lavorare fianco a fianco con giovani madri, ragazze della mia età o addirittura più giovani che lottavano ogni giorno per crescere i loro bambini. Vederle affrontare la vita con una forza incredibile, nonostante le difficoltà quotidiane, mi ha insegnato cosa significhi davvero il coraggio. Mi ha spezzato il cuore vedere dei bambini così piccoli soffrire, aggrapparsi alla vita con una determinazione che non dimenticherò mai. La fortuna ha voluto che nel mio anno di servizio civile io abbia vissuto all'interno del progetto Cicetekelo, il che mi ha permesso di trascorrere la maggior parte del mio tempo libero assieme ai ragazzi e bambini del progetto. Sono bambini e ragazzi che fin da piccoli hanno vissuto esperienze più grandi di loro. Molti non sanno cosa significhi avere una famiglia che si prenda cura di loro, si ritrovano soli a dover affrontare la vita. Vedere come il progetto li cambi, li renda bambini e ragazzi degni di vivere ogni giorno, di andare a scuola, di divertirsi, di ridere, saltare e creare legami è stato qualcosa di meraviglioso. Quello che mi ha colpito di più è il senso di famiglia che riescono a costruire, nonostante non ci siano legami di sangue. Si prendono cura l’uno dell’altro con una naturalezza e una dolcezza che mi ha fatto sentire parte di loro. Forse è proprio questo che apprezzo ancora di più ad oggi: il fatto di sentirmi parte di una grande famiglia, una famiglia che nasce dal cuore. Questi 5 anni in Zambia hanno cambiato il mio modo di vedere la vita. Mi hanno fatto capire quali sono i valori veri, cosa conta davvero. Ho visto con i miei occhi le esigenze reali di chi vive qui e ho capito quanto sia fondamentale esserci, tendere una mano, ascoltare e restare presenti. Non possiamo chiudere gli occhi dopo aver visto così tanto. La mia vita ora ha un significato diverso, più profondo, e il Cicetekelo è diventato per me “casa”. E quella grande famiglia, nata dall’amore e dalla condivisione, sarà sempre una parte di me.
 
Elena Rosso: «Ciao, sono Elena, ho 20 anni e nel 2023 ho trascorso un mese a Ndola. Potrei raccontarvi nei dettagli come è strutturato il Cicetekelo Youth Project: le attività che propone, le modalità con cui agisce, le relazioni che costruisce. Ma forse non sono la persona più adatta per descriverlo al meglio, e forse nemmeno per trasmetterne il significato più profondo. Durante la mia esperienza, ero incaricata – se così si può dire – di dare una mano nella struttura “Luigi Drop-in center”, pensata per accogliere ragazze e ragazzi di strada. Dalla mattina al pomeriggio, i ragazzi potevano venire nella struttura, un luogo in cui potevano stare, dormire, ricevere un pasto caldo, lavarsi e prendersi cura dei propri vestiti. Ma in realtà non ci si limita alla semplice distribuzione di beni e oggetti, ma si cerca di offrire un vero e proprio percorso di accompagnamento e di allontanamento dalla strada. C’erano allenatori di basket e di calcio, si andava a Messa insieme, si parlava con i ragazzi, si dava loro attenzione, ascolto, sguardi. Atti semplici, ma carichi di significato, che molti di loro non avevano mai ricevuto prima. Ho un po’ di timore nello scrivere questa testimonianza, perché ho vissuto per troppo poco tempo questa esperienza e mi sento un po’ come la solita musungu (bianca) che prova a compatire persone e situazioni molto lontane dalla propria realtà. A volte, facendo servizio, ci sentiamo grandi, forti, quasi migliori. Ci sentiamo bene con noi stessi perché vediamo nell’altro una fragilità, e ci sembra che abbia bisogno di noi. Così finiamo per sentirci “utili”, come se avessimo qualcosa da offrire. “Compatire” significa “patire con”: è un sentimento che non nasce da noi, ma dal dolore dell’altro, e che, in qualche modo, diventa anche nostro. È proprio questa consapevolezza che mi ha spinta a partire: l’idea dell’amore, niente di più. Una volta una signora mi disse: “Andare in ospedale non guarirà una persona, ma sapere che c’è qualcuno che la verrà a trovare, può farla sentire meglio”. Ecco, questo è ciò che ho provato anche io. Alla fine, non mi sono sentita utile come credevo di essere prima di partire, ma ho capito una cosa: che anche solo scambiare due parole, fare una battuta, giocare con quei ragazzi era tanto, ed era tanto perché stavamo costruendo una relazione, un legame. Ed è proprio questo che manca ai ragazzi con cui sono stata: a Jenny, Christi e Bonfi manca qualcuno che li ami, qualcuno che si preoccupi per loro, che controlli se hanno abiti puliti, che gli prepari un pasto caldo, che dia loro un semplice bacio. Il cibo e l’acqua sono importanti, ma non è ciò che costituisce quell’assenza che hanno dentro. È la mancanza di amore, è la carezza di una madre, la premura di un padre, il sorriso di un amico vero, l’interesse di un fratello, l’attenzione degli altri. Questo, purtroppo, nessuno lo vende. La maggior parte di noi, me compresa, forse non sa davvero cosa significhi non sentirsi amati, perché fin da piccoli siamo stati nutriti d’amore, ci siamo sfamati di questo. Ed è proprio l’amore ciò che sento di aver dato e ricevuto. Penso sia questo ciò che serve dare in esperienze come queste: solo noi stessi, e la nostra fame di spargere amore.»

«Mi ha portato a vivere la vita in maniera diversa» 

Enrico De Stefani: «Sono stato in Zambia un mese nell’agosto del 2009, insieme a un gruppo di 12-13 persone. Abbiamo alloggiato nella casa della Mary Christine Farm. Si era creato un bel legame all’interno del gruppo e ci è stato anche un po’ più facile inserirci nei progetti, perché quando scendemmo c’erano i Caschi Bianchi, che erano verso la fine della loro esperienza. Mentre ero a Ndola abbiamo visto quasi tutti i progetti della Comunità Papa Giovanni XXIII. La prima settimana è stata proprio per capire cosa fa la Comunità per questo Paese e come decidere di vivere a fianco di queste persone. Principalmente noi dovevamo dividerci in 3 progetti ed io scelsi la Mary Christine Farm, dove lavoravamo a fianco di ragazzi con disabilità o problemi legati alle dipendenze, lavorando la terra, aiutandoli a coltivare prodotti agricoli. Ricordo la condivisione in quelle giornate, lavorando assieme a questi ragazzi, condividendo il pranzo, i momenti di preghiera ed anche i momenti di svago dei quali ho molte immagini nitide, come ad esempio la partita di calcio il venerdì pomeriggio tutti assieme, oppure i canti quando li riaccompagnavamo a casa con il pulmino. Questa condivisione è stata veramente essenziale ed è quella che mi ha fatto “innamorare” della Comunità: metti la tua vita a fianco a quella delle persone che vengono accolte nei vari progetti. Durante l’attività era importante sì lavorare, ma era essenziale farlo con questi ragazzi, assieme a loro. L’esperienza in Zambia mi ha lasciato molto, un “mal d’Africa” importante. Ho vissuto quel mese come vera libertà, che mi ha portato poi a fare altre esperienze nella mia vita, sia in Africa, sia con la Apg23. Mi ha fatto capire il vero senso della condivisione, di mettersi a fianco di chi sta peggio di noi, sotto certi aspetti, ma che è molto più ricco di valori, di bene. E quindi mi son ritrovato ad avere ricevuto molto ma molto di più di quanto io abbia dato, in questa esperienza ma anche durante tutte le esperienze fatte con la Comunità. Ricordo chiaramente il momento dell’arrivo in Zambia, il viaggio in pulmino per andare verso casa la sera ed io che mi chiedevo “ma chi me l’ha fatto fare?” e lo stesso momento – tornando in Italia –, con le lacrime agli occhi, dove mi chiedevo “perché devo tornare a casa?”. In tutto questo percorso sono stati fondamentali anche i membri di Comunità che mi hanno accompagnato in questa esperienza, da Chiara Bonetto e Stefano Amadei, che sono stati i responsabili del gruppo e ci hanno aiutato ad affrontare anche le emozioni che vivevamo in quei giorni, passando per Tina Bartolini, pilastro della Comunità, arrivando a Stefano Maradini (all’epoca era responsabile di zona) e Gloria Gozza, che ci hanno sempre guidati. Ricordo anche il colloquio conclusivo con Stefano Maradini, e ricordo che non mi aspettavo questo momento. Invece questo fa capire che non si è mai soli con la Comunità Papa Giovanni XXIII, c’è sempre qualcuno che ti tende una mano, anche se tu pensi di non averne bisogno, e questo ti ridimensiona molto, ti aiuta a capire lo stile della Comunità e che condividendo è possibile migliorare, magari di poco, la vita di chi ci sta attorno. Un’altra cosa che mi ha lasciato quell’esperienza, grazie anche al corso missioni, è il partire/vivere un’esperienza senza aspettativa alcune. Accogliere quello che ci viene dato di vivere, giorno per giorno, senza farsi “viaggi” rispetto a come sarà un’esperienza o a quello che potremmo fare/ ricevere. E questa cosa mi ha aiutato nell’esperienza zambiana ma anche in ogni esperienza. Quel mese trascorso in Zambia ha significato molto nella mia vita: è stato l’inizio di un cammino, che mi sta portando, ancora oggi, a distanza di quasi 16 anni, a capire che la Comunità è il mio stile di vita e di mia moglie. Perché all’interno di queste esperienze vissute con la Comunità Papa Giovanni XXIII ho avuto la fortuna di incontrare tante belle persone, tra cui Sara, una ragazza della provincia di Catania, che è diventata poi mia moglie. Assieme abbiamo vissuto tanti momenti con la Comunità ed ogni volta che viviamo esperienze, anche brevi, ci sentiamo bene, a casa, in famiglia. Se mi guardo indietro vedo anche che c’è stata una mano più grande dietro alla mia vita, dietro al mio cammino, che arrivava dall’alto e che lo Zambia è stato un mattone importante, un punto di partenza. Mi ha portato a vivere la vita in maniera diversa, a saper accogliere l’altro, a non pormi pregiudizi (cosa che prima magari avevo) e cercare di superare le mie difficoltà, affrontandole con semplicità (il progetto in cui ho lavorato in Zambia era con persone disabili, che sono persone con cui io avevo sempre avuto difficoltà a relazionarmi fino a quel momento).»
 
Federica Lugani: «Sono stata in Zambia da luglio 2015 a giugno 2016 come Casco Bianco. Affiancavo gli educatori del progetto Cicetekelo nel lavoro quotidiano, in particolare nel centro di prima accoglienza. L'esperienza in Zambia mi ha aiutata a decentrarmi, capire ancora di più cosa volesse dire mollare il proprio punto di vista per entrare in quello dell'altro, saper darsi tempo e dare valore alla pazienza del conoscere, entrare in punta di piedi in una realtà altra. Dagli zambiani, in particolare, ho imparato il valore della cura delle relazioni, il saper vivere il tempo che ci è dato con un grande senso di affidamento verso un Tutto di cui ci si può sentire parte.»

«Ho trovato un senso più vero e profondo per la mia vita» 

Giacomo Cricca
«Sono andato la prima volta in Zambia a novembre 1994, insieme al gruppo seguito da Marco Panzetti. Avevo 30 anni. In quel periodo la diocesi aveva donato alla Apg23 la Mary Christine Farm a Misundu, alla periferia di Ndola. Panzetti e la Tina Bartolini volevano avviare un progetto per costruire mattoni in cemento, per dare una mano a quelle famiglie che avevano perso le case nei compound, in particolare Sinia (poi diventato Nkwazi): durante la stagione delle piogge l’acqua forte faceva crollare le baracche che erano fatte coi mattoni di fango. Alla Farm poi abbiamo iniziato a coltivare fragole, paprika e altri ortaggi. Sono stato in Zambia 6 anni in tutto.
Il regalo più grande che mi ha fatto lo Zambia è stato il fatto di aver cambiato la mia vita, riscoprendo il valore dei rapporti interpersonali e una dimensione del tempo diverso. Spesso mancava la corrente elettrica, a volte non c’era l’acqua per fare il bagno e allora ti accorgi che le cose più semplici sono le più importanti. In Zambia sono riuscito a trovare un senso più vero e più profondo per la mia vita, grazie alle persone che ho incontrato lì.
In Zambia ho anche conosciuto mia moglie, Nadia Andruccioli, che era venuta a fare un’esperienza.
Nel 1998 ci siamo fidanzati, nel 2000 ci siamo sposati in Italia e poi siamo tornati in Zambia da sposati, a fine 2000. In quel periodo la Tina è dovuta tornare in Italia per problemi di salute, per 6-7 mesi. Quindi siamo andati a vivere alla Holy Family e a gestire quella casa che aveva 12-13 bambini, c’erano i lavoratori da gestire e vari progetti. Io andavo sempre a Mary Christine. Quella per noi fu la prima esperienza importante di casa famiglia, ci è piaciuto molto. Questa esperienza ci è rimasta nel cuore: anche se non siamo una casa famiglia, siamo sempre stati aperti all’accoglienza. Poi nel 2001, poco prima di Natale, Tina ci disse che aveva un regalo speciale per noi e ci diede un indirizzo dove andare a “prendere” questo regalo. Era un piccolo orfanotrofio. Siccome stavamo provando ad avere un figlio, pensavamo che ci fosse un bimbo piccolo che aspettava di essere adottato. Invece la suora che gestiva l’orfanotrofio ci portò Precious, una bimba di 3 anni e mezzo, che era lì da più di 2 anni, non parlava, non camminava e si percuoteva.
Tutti gli altri bimbi erano orfani di un anno e trovavano in fretta famiglie adottive zambiane. La suora aveva chiamato Tina perché la bimba si stava lasciando morire, non voleva più mangiare. La suora quando ci ha portato Precious, me l’ha messa sulle ginocchia e mi ha colpito al cuore subito: ho avuto un colpo di fulmine: appena l’ho vista mi sono innamorato! Ora Precious ha compiuto 27 anni ed è uno splendore! È venuta con noi anche nell’esperienza missionaria che abbiamo fatto in Australia come famiglia».
 
Nadia Andruccioli: «L’esperienza in Zambia ha cambiato radicalmente la mia vita, prima personalmente, poi anche come famiglia. Lì ho scoperto un nuovo senso di appartenenza, ho conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII, che poi ho scelto come vocazione, e durante la mia prima esperienza in Zambia ho conosciuto anche don Oreste Benzi, che era in visita proprio in quel periodo. Era tra il 1990 e il 1991. Quella prima esperienza in Zambia è stato l’inizio di un cambiamento progressivo nella mia vita. Dopo alcuni anni sono ritornata in Zambia nel 1998, insieme a mia figlia Naomi che aveva 3 anni. In quell’occasione ho conosciuto anche Giacomo Cricca, il mio futuro marito. Ci siamo fidanzati e poi nel 2000 ci siamo sposati in Italia e siamo ripartiti subito per lo Zambia. Abbiamo vissuto bellissime esperienze, che hanno plasmato la nostra famiglia. Abbiamo anche incontrato Precious, che ora fa parte della nostra famiglia. Grazie all’esperienza in Zambia ho scoperto il senso da dare alla mia vita, ho capito che volevo far parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, ho trovato una nuova famiglia, ho davvero ricevuto tanto».

Giada Poluzzi e Matteo Mazzetti: «Siamo membri della Comunità Papa Giovanni XXIII dal 2013 e siamo partiti per lo Zambia a ottobre 2013 dove siamo rimasti fino a dicembre 2015. Matteo era coinvolto nel progetto Mary Christine Farm, con adulti con disabilità intellettiva, nell'orto e nel pollaio. Giada invece nel progetto delle Scuole Speciali, in supporto a una classe in particolare, quella con i casi più gravi. L'esperienza in Zambia è stata la nostra prima esperienza missionaria e ci ha aiutato a mettere in discussione tutta la nostra vita: le scelte alimentari, lo stile di vita più essenziale, l'accoglienza della diversità, il confronto con un'altra cultura. Ci ha dato tanta ricchezza di vita, autenticità, legame con la terra. I nostri occhi hanno visto cose, persone, luoghi che porteremo sempre nel cuore e sono il nostro metro di misura nelle scelte di oggi. Grazie a questa esperienza, abbiamo deciso di lasciare l'Italia di nuovo per un'altra esperienza missionaria in Europa, infatti dal 2019 viviamo in Irlanda».

«Ho cambiato lo sguardo verso le persone e verso il mondo»

Giulia Fea: «Ho 24 anni, sono infermiera e sto finendo il percorso triennale in Infermieristica pediatrica. Sono partita come volontaria per lo Zambia a gennaio 2023 fino a luglio 2023.
Ho scelto di partire perché, dopo essermi laureata in Infermieristica, avevo il desiderio di fare un’esperienza che mi mettesse in discussione e mi aiutasse a capire chi fossi e che cosa stessi cercando per il mio percorso di vita. Ho fatto il corso missioni a settembre 2023 con il desiderio di andare in missione, ma senza una meta in particolare; poi nei mesi successivi, leggendo sul sito di Condivisione fra i popoli avevo sentito un interesse per il progetto Rainbow in Zambia, perché, siccome seguiva i bambini malnutriti, avrebbe unito le mie competenze in qualità di infermiera con la possibilità di mettersi in gioco nello scoprire una cultura tutta nuova e lontana da quella in cui ero cresciuta. Così, dopo essermi confrontata con i referenti del corso missione e con Gloria Gozza, il 16 gennaio 2023 sono partita. Il primo impatto con l’Africa è stato molto forte, le prime settimane ricordo che la sera facevo fatica ad addormentarmi un po’ per la paura di essere punta dalle zanzare e di prendere la malaria e un po’ per tutti i pensieri che emergevano rispetto il nuovo mondo che avevo iniziato a scoprire. Mi fa sorridere con tenerezza ora ripensare a quelle prime settimane. L’inserimento nel progetto Rainbow non è stato semplice: mi aspettavo di poter essere parte attiva, in realtà mi sono resa conto fin da subito di quanto fosse importante che questo progetto funzionasse a prescindere dalla presenza mia o di altre volontarie e che avrei dovuto capire pian piano come inserirmi all’interno dello stesso. I primi mesi mi hanno permesso di ridimensionare le mie aspettative e di osservare senza giudizio tutto quello che mi circondava per poi entrare in punta di piedi e portare un pezzo di me, delle mie potenzialità. Scoprire un mondo nuovo mette in luce discordanze, situazioni in cui non pensavi di poterti ritrovare: il confronto con delle scelte di vita, con delle abitudini completamente stravolte rispetto le tue, con delle storie di sofferenza importanti; tutto questo ha messo in gioco aspetti profondi di me e della mia vita. È stato bello vedere pian piano quello che stavo costruendo, la relazione che si è instaurata con le mamme e coi loro bambini, i sorrisi con cui mi accoglievano al centro nutrizionale, le piccole attenzioni che per me erano tutt’altro che piccole. Ogni giorno io e Giorgia, una delle mie compagne di quest’avventura, a cui sono molto grata, ci spostavamo per raggiungere i vari centri nutrizionali dislocati in vari compound di Ndola. Imparare a muoversi in città, raggiungere le baraccopoli, inserirsi nei vari centri nutrizionali è stato un aspetto molto complesso, ma la bellezza nel vedere quanto questo progetto stesse diventando parte della mia vita mi ha permesso di affrontare con più serenità le mie difficoltà.
Vi racconto questa storia, che mi è rimasta molto impressa. Ero nel centro nutrizionale di Chipulukusu e un giorno è arrivata una mamma con tre bambine, due gemelle di circa 3 anni e una bimba un po’ più grande: era stata mandata dalla clinica perché, oltre ad aver diagnosticato la tubercolosi alle due bimbe più piccole, sospettavano che potessero essere anche malnutrite. Dopo il controllo dei parametri che eravamo solite rilevare (peso, MUAC ed edema) abbiamo dovuto comunicare alla mamma che dovevano iniziare il percorso perché malnutrite e che ogni settimana si sarebbe dovuta presentare al centro nutrizionale con le due bimbe per la rilevazione progressiva dei parametri. Lo sconforto e la paura nei suoi occhi mi hanno colpita molto. Ad un mese dalla diagnosi di malnutrizione una delle due bambine aveva raggiunto un valore del peso adeguato, i parametri erano rientrati in parametri fisiologici. Dopo aver comunicato questa notizia alla mamma, lei è scoppiata in un pianto di felicità e i suoi occhi hanno trasmesso una luce e una gioia intensa. Per me è stato davvero significativo vedere la forza di una mamma che senza l’aiuto di nessuno – il padre aveva abbandonato la famiglia – era riuscita a prendersi cura delle sue bambine: è stata una vittoria per tutti e un segno di speranza per le altre mamme. Quest’esperienza ha significato davvero molto per la mia vita, mi ha permesso di cambiare il mio sguardo verso le persone e verso il mondo, ma anche rispetto a me stessa: ha messo in luce molte fragilità che non conoscevo e allo stesso tempo mi ha fatto emergere una forza e delle potenzialità che non pensavo di avere. 
Vi lascio un pensiero che ho scritto mentre ero là in Zambia, durante l’ultima settimana a Ndola, tornando a piedi da un centro nutrizionale.
 
Sono qui
Sto camminando in Chipulukusu
La terra rossa ormai secca
Ho le treccine
E i pantaloni azzurri
Mi sento bene
Una gallina ogni tanto mi attraversa la strada
Voglio camminare lentamente e godermi l'ultima volta l'Africa
Qualche voce che sussurra «Musungu»,
questa tanto odiata parola su cui ho riflettuto tanto,
ma che per loro è simbolo di rispetto e ammirazione
Bambini soli per strada
Liberi di giocare e sporcarsi
Baracche in legno
Verdure fresche
Tanti sguardi che si incrociano
I bambini curiosi
Bici scassate che fanno km
Mamme che stendono i panni con i bimbi sulla schiena
Oggi è nuvolo e il sole si nasconde
C'è un venticello piacevole
Altre mamme sedute e con lo sguardo un po' perso

Vedo Loshima, che regalo immenso
Ero solita camminare con lei un tratto di strada
E vedo la sua mamma
Che bella la vita!

«Mi ha insegnato che ogni piccolo gesto può fare la differenza»

Ilaria Carbone: «Il desiderio di vivere un’esperienza di volontariato in Africa mi ha accompagnato per molto tempo e nel 2025 ho avuto la fortuna di farlo diventare realtà. Ho 26 anni e sono una studentessa universitaria. Ho deciso di fare questa esperienza a pochi mesi dal termine del mio percorso di studi in Biologia della Nutrizione e, grazie a Nutrizionisti Senza Frontiere e alla Comunità Papa Giovanni XXIII ho svolto il mio tirocinio universitario a Ndola, dove la Apg23, oltre ad altri progetti, porta avanti il Progetto Rainbow, che si occupa di malnutrizione infantile. La mia esperienza è durata un mese e sono stata accolta da Christine alla Holy Family, dove la parola chiava è condivisione. Durante l’intero periodo ha tenuto un diario di viaggio dove ho annotato quotidianamente le attività che svolgevo; questo mi ha aiutato a mettere nero su bianco le mie emozioni. “Paura, crisi di pianto, delusione, sbaglio, soddisfazione, consapevolezza, rabbia, incredibile, stanchezza, meraviglia, stupore, confusione, inadeguata, inutile”: queste sono alcune delle parole che ho scritto e che descrivevamo il mio umore. È stato un mese in cui le emozioni sono state molteplici e contrastanti e ogni attimo è stato diverso. La prima settimana è stata sicuramente la più difficile. Difficoltà ad ambientarmi soprattutto dovuta al mio basso livello di inglese che è stato il mio grosso limite durante tutto il periodo, ma soprattutto mi guardavo intorno e mi chiedevo “Cosa ci faccio qui? Sono inutile”. Ho cercato di cogliere ogni dettaglio, ogni aspetto della nuova realtà che stavo vivendo, ma non è facile metabolizzare subito immagini che sono molto lontane dalla realtà a cui siamo abituati. Inoltre, c’era la frustrazione, la rabbia e la delusione per l’impossibilità di fare qualcosa di concreto in poco tempo. Solo quando ho iniziato a capire che l’importante era esserci e non fare, le cose sono iniziate ad andare meglio. Ho avuto la possibilità di visitare i centri del Progetto Rainbow: stare a stretto contatto con bambini e famiglie che lottano quotidianamente per sopravvivere a causa della fame e della povertà mi ha scosso psicologicamente. Le dinamiche famigliari sono spesso complesse, i bambini presentano segni chiari di malessere e, oltre ai corpi indeboliti ciò che più è impattante sono le loro espressioni vuote che raccontano storie difficili anche solo da immaginare. Il Progetto Rainbow è ben strutturato e porta avanti un lavoro straordinario: oltre alle visite i e alla distribuzione di cibo, viene fatta anche educazione alimentare e igienico-sanitaria cercando di trasmettere alle mamme nozioni fondamentali per il benessere di tutta la famiglia. Tutto questo diffonde molta speranza e soprattutto mette in luce l’enorme passione e dedizione di chi a deciso di vivere la sua vita aiutando gli altri. Questa esperienza nel progetto Rainbow mi ha mostrato la forza della comunità e la necessità di lavorare insieme per riuscire a migliorare situazioni davvero complesse. In alcuni momenti ho giocato con i bambini e ho apprezzato come con dei sassi o dei legni si possa vivere un momento di gioia e spensieratezza. È stata sicuramente un’opportunità di crescita personale più che professionale che mi ha insegnato che ogni piccolo gesto può fare la differenza. Ho scritto tante volte nel mio diario “grazie vita” perché mi sono resa conto di tutte le cose che spesso do per scontato, ma soprattutto sono grata di aver vissuto questa esperienza che rimarrà custodita tra i miei ricordi più preziosi.»
 
Mariagrazia Zampacorta e Giambattista Reali: «Abbiamo scelto di trascorrere il nostro viaggio di nozze a Ndola, per supportare il centro nutrizionale Mc Kenzie del progetto Rainbow e siamo stati ospiti del centro Cicetekelo per 2 settimane. Abbiamo riabbracciato la nostra amica Giulia e abbiamo conosciuto Gloria Gozza e altre fantastiche persone che ci hanno mostrato tutte le attività che svolgevano sul territorio a supporto della popolazione locale. Siamo rimasti colpiti ed ammirati dalla dedizione e dalla compassione mostrati dagli operatori soprattutto nella lotta alla malnutrizione e nella formazione professionale dei ragazzi di strada per dare loro una speranza di un futuro migliore. L'approccio alla povertà si manifesta positivamente nell'insegnamento agli abitanti delle baraccopoli di tecniche agricole per il sostentamento familiare, attraverso l'utilizzo di strumenti di fortuna, di facile riadattabilità allo scopo, la gestione oculata dell'acqua ed il microcredito. Abbiamo convissuto con i volontari e condiviso momenti di gioia nel piacere reciproco di renderci utili. Dell'Africa portiamo con noi anche il ricordo del memorabile viaggio che Giulia Amerio e Gloria Gozza ci hanno consentito di fare nel visitare Livingstone e le maestose cascate Vittoria, attraversando l'intero Stato in fuoristrada. Un'esperienza indimenticabile, con il piccolo Gabriel, figlio di Gloria Gozza e Stefano Maradini, che ci ha fatto ascoltare per 800 km sempre la stessa canzone, perché le altre non gli piacevano. Sempre grazie alla Papa Giovanni XXIII abbiamo avuto la possibilità di contribuire al mantenimento degli studi universitari di Jackson, un brillante ragazzo locale affetto da una patologia oculare degenerativa, che oggi fa l'insegnante.»

«Ha lasciato una traccia indelebile in me» 

Marina Figus: «L’esperienza in Zambia ha significato molto per me: è stato il luogo in cui mi sono sentita davvero a casa. Nonostante le differenze di lingua, cultura e colore, lì ho capito che la mia casa era il mondo. Alla Holy Family, Tina era la mamma di tutti, anche un po’ la mia, ed è in quel clima che ho compreso come il mondo intero potesse diventare la mia casa. Sono rimasta insieme a Tina per 6 mesi, da febbraio a luglio del 2003. È stata un’esperienza bellissima, anche se ricordo anche le fatiche e non solo la bellezza. Mentre ero lì, abbiamo iniziato da zero il progetto della Farm Ukubalula e ci sentivamo davvero piccole, quasi incapaci, ma ci è stata data tanta fiducia. Con me c’era un’altra volontaria, Alessandra: insieme, abbiamo davvero avuto la possibilità di fare, di pensare, di crescere, sempre però in comunione con gli altri. Quando ripenso alle responsabilità che ci sono state affidate e a quanto eravamo giovani, comprendo pienamente il valore di quella fiducia che ci è stata concessa. Grazie a questa esperienza poi ho deciso di far parte della Comunità Papa Giovanni XXIII e sono partita per la Tanzania, dove sono stata per 14 anni
 
Matilde Fuser: «Sono stata a Ndola in Zambia tra luglio e settembre del 2023, come esperienza di tirocinio internazionale universitario in ambito educativo. Nei miei due mesi sono riuscita a prendere parte in diversi progetti, come ad esempio nelle attività con i ragazzi delle Scuole Speciali, nei centri nutrizionali del progetto Rainbow e nelle varie fasi del progetto Cicetekelo youth project, in particolare sono stata inserita nella fase 3 a Nkwazi, dove si offre un percorso di integrazione sociale ai ragazzi che hanno un vissuto difficile. Nel mio servizio ho condiviso con i ragazzi del progetto momenti sia di svago, con giochi, balli e canti, oltre a momenti più strutturati all’interno delle loro classi, cercando di aiutarli nel loro percorso di studio, affiancando gli insegnanti durante le ore scolastiche. Questa esperienza è per me uno scrigno di emozioni che porto nel mio cuore, fatta di incontri, sguardi, risate e commozione. Un miscuglio di sentimenti che si sono intersecati nel mio vissuto e che mai se ne andranno.
Tuttora dopo quasi 2 anni da questa esperienza mi ritrovo a ripensare ai momenti che ho vissuto, alle persone che ho incontrato e da tutta la ricchezza che ho ricevuto da un luogo e da una popolazione che la nostra società contemporanea occidentale definirebbe “povera”: ma che ai miei occhi non lo è! O meglio, certo una difficoltà economica è presente, ma spesso non è contemplata la ricchezza di uno sguardo o saluto. Forse dovremmo dare una connotazione più specifica di “povertà” e non fermarci ad un mero dato economico. Questo periodo ha provocato in me una fase intesa di riflessione e di crescita personale che mi ha rafforzato sia come persona ma anche come l’educatrice che voglio essere nel mio quotidiano. Sicuramente la presa di coscienza e la visione di una diversità culturale ha arricchito e cambiato il mio punto di vista sulla vita, su chi è l’altro per me e sul mondo che mi circonda.
Devo essere sincera: quei 2 mesi, sebbene possono sembrare pochi, hanno davvero lasciato una traccia indelebile in me, che spesso mi è difficoltosa da spiegare a parole o da riorganizzare nella mia testa e nel mio cuore. Risulta essere tutt’ora un’esperienza talmente grande da poter essere concepita dalla mia persona, memoria e anima. Sono partita con delle domande, forse nemmeno ben chiare e dopo quei 2 mesi, ma anche dopo un anno e mezzo di rielaborazione, la maggior parte rimangono tali e che forse rimarranno sempre così in quanto troppo grandi. Ma è proprio questo forse il bello, ovvero continuare a cercare risposte a delle domande e camminare in questa direzione cercando piano piano di arrivare a delle conclusioni a modo nostro!»

«Mi ha insegnato la gioia di vivere»  

Michele Bianchi: «Quando sono arrivato per la prima volta al Cicetekelo Youth Project (CYP), nel 2014, ero curioso, motivato e felice. Pensavo di portare competenze, strumenti, idee. Probabilmente qualcosa ho portato, ma in realtà ho ricevuto molto di più: una lezione di condivisione, fiducia e determinazione. Abbiamo deciso di utilizzare uno strumento speciale: lo sport, attraverso il quale abbiamo lavorato su molteplici obiettivi sociali. Abbiamo costruito relazioni, fiducia, valori forti e la convinzione che anche i percorsi più difficili possono trovare una direzione. Allenamento dopo allenamento, con qualità e perseveranza, abbiamo provato a creare un ambiente dove i bambini e i giovani possono sentirsi visti, ascoltati, valorizzati. Lavorare con il Cicetekelo Youth Project (CYP) mi ha insegnato ad essere costante, a credere nei piccoli gesti quotidiani, a fidarmi degli altri e, forse soprattutto, ad affidarmi. Mi piace molto correre e collaborare con CYP è come una continua affascinante corsa insieme senza pensare al traguardo, ma guardando chi ti corre accanto, dentro e fuori dal campo. È bello ed è un privilegio far parte di questo percorso che va avanti da oltre 11 anni. Per tutto quello che imparo, per tutte le persone che ho incontrato, e per ogni nuovo stimolo e sorriso, posso affermare con ancora più convinzione quanto valga la pena impegnarsi e godersi ogni giorno, restando sempre molto curioso, motivato e felice.»
 
Sauro Monnecchi: «Come membro di Comunità ho fatto delle esperienze brevi in Zambia nel 2001 e nel 2002 per seguire il progetto Rainbow. Poi ho vissuto lì da giugno 2003 al 13 maggio 2009. Nel progetto Rainbow, dove ero già coinvolto prima di partire, mi sono occupato della parte amministrativa e del microcredito agricolo e commerciale, inoltre partecipavo ai vari incontri di network. L’esperienza in Zambia mi ha lasciato tanto: stupore e bellezza e anche gratitudine per tutto quello che ho vissuto. Stupore, perché ho scoperto un mondo nuovo; bellezza, perché gli spazi in Africa sono incredibili, vivi un senso di apertura enorme, che ha cambiato la mia sensibilità rispetto ai paesaggi e alla natura. Inoltre per me l’incontro con la cultura zambiana e con gli zambiani è stata un'esperienza fondante, perché mi ha permesso di vedere e di vivere in modo alternativo sia le relazioni, sia la percezione della realtà, sia il modo di leggere i fatti, molto più spirituale. Quello che ho vissuto mi ha aiutato a rileggere i miei schemi culturali di italiano e di europeo, anche schemi personali, esempio il senso del tempo. Una visione più mistica, meno razionale; alcuni aspetti magari all’inizio possono infastidire, ma poi ne scopri tutta la ricchezza.»
 
Silvia Finelli:
«Sono stata in Zambia per la prima volta nel 2004, durante le mie 3 settimane di ferie. Sono stata così bene che anche nel 2008, 2009 e 2010 ho trascorso lì le mie ferie. Stavo così bene che ho deciso di trascorrervi un periodo più lungo e così ho chiesto un’aspettativa, che però mi è stata negata: così mi sono licenziata. Da marzo 2011 a novembre 2016 ho vissuto in Zambia, tornando in Italia solo per le vacanze di Natale. Nel 2011 ho conosciuto mio marito, ci siamo sposati nel gennaio 2017 in Italia e oggi viviamo a Bologna. Il nostro rientro in patria è stato dovuto a un problema di salute: mi sono rotta la schiena in un incidente e, soprattutto, avevo paura di mettere al mondo un figlio in Zambia. Era una decisione difficile ma necessaria.
In Zambia mi occupavo soprattutto di amministrazione e contabilità del progetto Cicetekelo, gestivo i fondi che arrivavano e tutte le pratiche burocratiche. Amo la matematica, fare i conti mi è sempre piaciuto, quindi quel lavoro mi si addiceva perfettamente.
Questa esperienza ha cambiato la mia vita a 360 gradi, anche nelle scelte più personali: mai avrei pensato di incontrare mio marito proprio lì, ma è successo. Lo Zambia mi ha insegnato una gioia di vivere che qui da noi spesso ci dimentichiamo. Ogni volta che ripenso a quel periodo, mi viene un sorriso perenne: lì ho imparato a vivere apprezzando le piccole cose, a essere felice con poco.
Al nostro matrimonio, tra l’altro, c’erano più volontari conosciuti in Zambia che parenti e amici! Una testimonianza di quanto quei legami, nati durante quegli anni, siano diventati parte fondamentale della mia vita.
 
Stefania Moramarco
«Non avevo idea che quella partenza mi avrebbe cambiato la vita, non solo professionale, ma soprattutto personale. Fin da subito sono stata coinvolta nel Progetto Rainbow e andavo in giro con gli operatori dei centri nutrizionali. Mentre passavano i giorni mi rendevo conto di come tutta la teoria studiata non avrebbe mai potuto spiegare quello che vedevo sul campo: la vita nei centri nutrizionali, le storie delle donne, lo sguardo dei bambini sofferenti e come quello sguardo cambiava dopo che il bambino era stato curato dalla malnutrizione, le braccine che si rimpolpavano di muscolo, le faccine che riacquistavano sorrisi, le speranze che tornavano a fiorire, i sogni che guardavano più lontano dell'oggi. Ma anche la frustrazione per i farmaci che non si trovavano e per il supplemento nutrizionale che non arrivava, la lotta con gli assistenti sociali per fare udire la voce di chi è considerato meno di niente dalla società, le ore di attesa per essere ricevuti dalle autorità locali. Fa tutto parte di questo mondo così denso e fatto di contraddizioni, eccezioni e compromessi che è lo Zambia.  
Cosa ho trovato in Zambia? Tantissimo: ho trovato il mio mentore, che ha ispirato il mio percorso professionale. Ho trovato la mia “banabucombe”, cioè la confidente e guida di vita zambiana (nonché collega nella supervisione dei centri nutrizionali). Ho trovato mio marito e abbiamo celebrato il nostro matrimonio in Zambia, organizzandolo in poco meno di una settimana, ma celebrandolo nella sua essenzialità. Insomma ho trovato la mia Zambian-Italian family, quella famiglia allargata fatta di tante persone con personalità diverse, molte che sono ora lontane, ma che quando reincontri, anche dopo anni, ti riempiono il cuore e non vorresti più lasciarle andare. Insomma, l'esperienza in Zambia mi ha permesso di trovare il posto giusto al momento giusto, ed ancora oggi "mi serve" per rifiatare quando la vita frenetica mi fa sentire lontana da tutti ma soprattutto da quella parte di me che resta sopita per tanto tempo, fino a che finalmente riesplode appena rimetto piede sulla sua terra rossa».

Il continente in perenne cammino

Thomas Monticelli: «L'Africa è un continente in perenne cammino, a qualunque ora del giorno o della notte, con il caldo e la siccità o con le piogge e il fango, migliaia di persone camminano, riempiono le strade, c'è sempre qualcuno che si sposta a piedi, studenti che vanno a scuola, mamme con i figli in spalla nel chitenge, operai ed impiegati che vanno al lavoro, perdigiorno in cerca di fortuna, bambini che giocano o vanno a vendere frutta e ortaggi.
L'Africa è in perenne cammino, eppure è sempre un po' indietro, non so se gli altri mondi vanno troppo veloci o se questa terra dei contrasti ha deciso autonomamente di andare più piano. Un occidentale che arriva qui, si porta dietro mille idee, mille possibilità, una voglia di fare che da noi è pane e virtù, e si scontra con la realtà africana che è fatta di antichi riti che si legano alla vita moderna, di ataviche spiritualità che sono miste al senso religioso, tutti a messa la domenica, però attenzione agli anziani che sono coloro che hanno il potere di fare fatture e malocchi secondo la tradizione popolare.
La realtà africana non è fatta per noi che facciamo mutui a 20 anni, che pensiamo a cosa faremo da grandi: già diventare grandi in Zambia è un sogno e il pensiero più lontano, il progetto più longevo non supera la settimana; l'africano non pensa al domani, primo perché già fa fatica a pensare all'oggi – il cibo, il lavoro, la salute – secondo perché ha una concezione della vita che è molto legata alla natura, ai suoi tempi, alle sue bellezze e alle sue crudeltà. La morte non è considerata come un evento da esorcizzare, da allontanare e respingere, ma fa parte della vita, è quasi quotidiana, la morte arriva per i bambini, arriva per i giovani, arriva per gli adulti e a volte arriva per gli anziani. Si convive con la morte (scusate il gioco di parole), in Africa ci sono una collezione di malattie che a dirle tutte ci sarebbe da ridere, sono strane e assurde per noi, per gli africani è quotidianità, la malaria, il colera, l'aids, la filaria, senza contare tutti i vari funghi e insetti che si approfittano del nostro corpo nel modo più subdolo.
È però curioso vedere che a morire sono solo i neri, gli africani, non un bianco che ci lascia la pelle per motivi di salute, l'ultimo bianco di cui conosco la fine è perché (poveraccio) è caduto da un albero (gli alberi africani sono alti parecchio più dei nostri). Gli ospedali pubblici brulicano di gente bisognosa, senza medicine e senza strutture, in condizioni pietose; fortunatamente le cliniche private sono formidabili, complete e moderne ma vuote, mantenute da quei pochi pazienti (90% bianchi) che le possono pagare, viva la sanità privatizzata.
Ma saremo noi bianchi che vogliamo l'Africa in queste condizioni o sono gli africani a volervici rimanere?
I residui di mentalità coloniale ci sono, sono evidenti nelle grandi farm inglesi tuttora presenti, nella riverenza che spetta ai bianchi quando passano, nel saluto soddisfatto dei poliziotti quando ti vedono al volante e ti augurano buona giornata.
Io, per andare al centro del Cicetekelo Project, attraverso tutto un compound, quartiere, uno dei più poveri anche se non il peggiore, e mentre in bicicletta mi avventuro per le stradine di terra, una marea di bimbi mi avverte che non passo inosservato, chi grida in lingua Bemba "musungu" (un bianco), chi mi rivolge un saluto in inglese, chi mi dice che vuole caramelle e chi, un po' più smaliziato, mi chiede dei soldi. Le ragazze mi salutano e ridono, chissà cosa si dicono in quella lingua misteriosa, i ragazzi del centro sono ragazzi di strada, abituati alle peggiori angherie, eppure se alzo la voce io, un bianco, la mia autorità è infinita, se io chiedo una cosa è imperativo per loro soddisfarmi, se io la ordino, immediatamente viene eseguita. È strano, non so fino a che punto qui si vivono le conseguenze del nostro modo di vivere occidentale, dove invece partono le culture e le tradizioni africane.
L'Africa è un continente in cammino, probabilmente non è che rimane indietro agli altri, forse, semplicemente, cammina per i fatti suoi, facendosi influenzare da tutti e non stando ad ascoltare nessuno.»
 
Vanna Semeraro: «Ho conosciuto la Comunità Papa Giovanni XXIII grazie a un’amica, volontaria di clownterapia, che aveva svolto anni fa il suo periodo di volontariato in uno dei progetti in Zambia. La mia esperienza si è svolta a Ndola nell’agosto 2023, per circa 4 settimane. Questa scelta nasce da un desiderio molto antico, della me bambina, affascinata da queste terre africane non poi così lontane geograficamente dall’Italia, quanto invece lontane anni luce da noi per tanti altri aspetti. Sognavo di essere lì a godere di quei sorrisi, quell’energia che vedevo sprigionare da quei corpi sinuosi che sanno ballare magnificamente, mostrati nelle serie tv, nei videoclip delle canzoni, nelle pubblicità. Sognavo di abbracciare e coccolare quei bambini dagli occhi tanto grandi quanto tristi delle pubblicità progresso che mi facevano commuovere ogni volta che le guardavo. Sognavo di vivere un’esperienza che mi potesse donare una visione più reale della vita, che mi potesse insegnare qualcosa e arricchirmi.
Così, ho lottato affinché quel sogno potesse diventare realtà. Ero pronta a partire da sola, ma poi il mio compagno, con mio stupore, ha scelto di accompagnarmi, rendendomi molto felice.
Le mille domande che hanno preceduto il mio arrivo, colorando tutti i preparativi fatti di vaccinazioni, raccolta di abiti e giochi per i bambini e per la gente del posto, acquisto di repellenti antizanzare tra i più potenti in commercio, seppur con tanta adrenalina, hanno avuto risposte che si sono costruite e rese nitide durante tutta la nostra permanenza a Ndola. La nostra casa per l’intero periodo è stata la Holy Family, dove Christine Mwewa, la capo famiglia zambiana, ci ha accolti facendoci subito sentire abitanti della casa piuttosto che ospiti. Una casa fatta di regole a noi sconosciute, abitata da lei, suo figlio Chipo, Maxi (figlio di Comunità che ci ha rubato il cuore) e Charles, che aveva il compito di supportare Maxi soprattutto nella sua terapia farmacologica. Come in ogni casa e in ogni cultura che si rispetti, abbiamo conosciuto le regole di convivenza e ci siamo adattati, rodando per qualche giorno. Ciò che ha reso la permanenza senza dubbio più semplice, a livello di adattamento ad usi e costumi locali, è stata la presenza di altri giovani volontari italiani che abitavano già la casa da qualche settimana prima del nostro arrivo. Poi ci hanno raggiunto anche dei volontari Caschi Bianchi e la casa si è davvero affollata. Abbiamo creato la nostra sinergia di gruppo: a turno, alcuni di noi si occupavano della cena, altri delle pulizie, dopo cena giocavamo tutti insieme a giochi di società, imparando a condividere il tempo e a conoscere le storie di vita di ognuno. Al mattino ci spostavamo insieme per raggiungere i vari luoghi dove si svolgono i diversi progetti attivi della Comunità.
Io mi sono personalmente occupata delle “Holiday activities”, attività estive inserite nel Cicetekelo Youth Project, in una delle fasi del percorso educativo per ragazzi, che garantisce vitto e alloggio, scolarizzazione, attività sportive e un ambiente familiare, che si prende cura della loro crescita. In queste attività erano coinvolti anche i bambini e ragazzi disabili della Scuola Speciale, una bellissima occasione di inclusione pensata diversamente da come invece accade in Italia. Insieme ad altre due volontarie italiane abbiamo progettato una serie di attività ludico-ricreative coinvolgendo l’intero gruppo di bambini che ogni mattina ci accoglieva con autentico entusiasmo e sorrisi. La sinergia creatasi con le altre volontarie ci ha permesso di supportarci a vicenda, andando a sopperire l’una alle piccole difficoltà dell’altra, tenendo sempre come punto di riferimento Gloria Gozza, Stefano Maradini e Deborah Rasia, responsabili del progetto.
Se dovessi parlare di ciò che quei bambini, così piccoli per quella che è la nostra idea occidentale di infanzia, sono stati in grado di insegnarmi, mi viene senza dubbio in mente la loro già matura autonomia nella cura della propria persona, dei loro abiti e dei loro spazi abitativi. Bambini che si dedicavano al bucato dimostrando un senso di responsabilità e maturità che poi però scompariva nei loro occhi, pieni di tenerezza e purezza, quando giocavamo con le bolle di sapone. Sento di indirizzare questa mia osservazione rispetto al livello di autonomia di questi ragazzi anche alla grande fetta di bambini e adulti con disabilità che ho conosciuto negli altri progetti della Comunità. Un concetto di disabilità completamente differente da quello occidentale, dove il disabile, sicuramente per la mancata visione di assistenzialismo dalla quale provengo, viene lasciato molto più libero di esplorare e costruirsi la sua autonomia con le risorse che ha a disposizione, che rappresentano così valore aggiunto.
Ogni giorno vissuto con loro ha rappresentato per me uno spunto per ripensare la mia esistenza, per abbattere ogni mia convinzione sul modo “giusto” di crescere e condurre la mia vita.
Ho avuto anche la fortuna di visitare le altre realtà di cui si occupa la comunità, come quella dei ragazzi di strada e quella dei centri nutrizionali. Attraverso entrambe ho toccato con mano il vero significato di privazione, di precarietà, di essenziale. I miei occhi hanno conosciuto forse per la prima volta nella mia vita, attraverso gli occhi di donne con in fascia i loro figli neonati, il valore di un pasto, per me così scontato fino a quel momento.
Tutta questa gente, quelle mani strette, quegli abbracci, quelle risate condivise, anche quando non comprendevo la loro lingua locale, hanno solcato la vita, il mio cuore e la mia anima, che ogni giorno immaginano il momento in cui, con mio figlio e suo padre, io tornerò lì, a risanare nuovamente la mia essenza, a respirare il sapore della vita fatta solo ed esclusivamente di vita.
Chiaramente oggi posso definire la curiosità e le motivazioni che per anni hanno alimentato il mio sogno parte minima di un’immagine ben più ricca e complessa della realtà africana, che è difficile spiegare a chi non la vive in prima persona.
Io, oggi, so di essere una donna nuova, una mamma grata, fatta di nuove consapevolezze, attenta a non sottovalutare piccoli e impercettibili doni quotidiani che la vita mi mette davanti, come il poter stringere la mano del padre di mio figlio e sapere che possiamo garantirgli un letto caldo e almeno tre pasti al giorno».
 
Alessandra: «Ho fatto un’esperienza in Zambia nel 2003. Ecco cosa ho scritto mentre ero là: “Alzo gli occhi al cielo, alla ricerca della splendida luna che in queste sere non smette di sorprendermi. È accesa, luminosa, carica di un’energia forte. Mi lascio baciare e accarezzare dal suo silenzio. Ringrazio la sua bellezza e mi emoziono al pensiero che la stessa luna appartiene a tutti noi esseri umani, chissà se nel nostro individualismo ci accorgiamo del suo splendore oppure se, come per tutte le cose, finiamo per esserci abituati dando per scontato che il suo cielo non può essere fermato. Questo è ciò che l’Africa, questa terra così piena di energia, così calda e avvolgente, così “terra”, mi sta regalando la capacità di stupirmi, di non annoiare i miei pensieri, di riuscire ad osservare e ad ammirare ogni giorno questa splendida natura, questo popolo, questa naturalezza e semplicità nell’accettare inconsapevolmente ma con dignità questa povertà, dove solo la tua forza contro la natura ti fa sopravvivere; dove un Cristo in croce è un denominatore comune. Dov’è Gesù in mezzo a loro? Penso che a noi non sia dato di capirlo, possiamo seguire le nostre sensazioni ma non possiamo sentirlo totalmente”.»

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