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25 Agosto 2021

Difende gli indigeni e lo lasciano morire

Padre Swamy, gesuita, incarcerato in India con false accuse, non ha ricevuto le cure dovute. Molti parlano di omicidio di Stato.
Difende gli indigeni e lo lasciano morire
Il sacerdote, 84 anni, era in carcere da 9 mesi con l'accusa di terrorismo per il suo impegno a favore delle popolazioni tribali dell'India. Seppure fosse malato di Parkinson e di Covid-19, i giudici di Mumbai hanno rifiutato più volte la sua istanza di scarcerazione su cauzione. Pochi giorni prima dell'arresto aveva detto: «Io non sono uno spettatore silenzioso; io sono parte del gioco, sono pronto a pagarne il prezzo, qualunque esso sia».
Durante il funerale è stato rivestito con la casula rossa, simbolo del martirio. Padre Stan Swamy, un gesuita indiano di 84 anni, è morto il 5 luglio scorso dopo aver contratto il Covid-19 in carcere. Durante la sua lunga vita si è sempre battuto per difendere i diritti degli indigeni, in particolare quelli dello Stato del Jharkhand in India. Il suo attivismo dava fastidio e più volte era stato minacciato per farlo desistere dal suo impegno.
 
Padre Swamy aveva il morbo di Parkinson in fase avanzata e le sue condizioni di salute erano notevolmente peggiorate nella prigione di Taloja a Mumbai, sovraffollata e senza personale medico, nella quale si trovava recluso dall’8 ottobre 2020.
A metà maggio aveva iniziato a manifestare i sintomi del Covid-19. A nulla sono serviti i ripetuti appelli dei vescovi e dei religiosi dell’India per ottenere la scarcerazione del gesuita, viste le sue precarie condizioni di salute. L’unica cosa che gli è stata concessa è il ricovero in un ospedale cattolico di Mumbai lo scorso 29 maggio. Purtroppo era troppo tardi, la sua salute era ormai compromessa: il religioso è deceduto il 5 luglio, mentre in tribunale si discuteva ancora il suo ultimo ricorso per ottenere la scarcerazione su cauzione.
 
Molti attivisti, scrittori e accademici hanno affermato che la morte di padre Swamy non è avvenuta per “cause naturali”, ma sono convinti che si tratti di una morte provocata per mancanza di giustizia, un vero e proprio “omicidio di Stato”.
 
Padre Swamy era stato arrestato l’8 ottobre 2020 dall’Agenzia antiterrorismo indiana (Nia) insieme ad altri 15 attivisti sociali per i diritti degli Adivasi (le popolazioni tribali). L’accusa, per tutti, era stata formulata in base alla “Unlawful activities prevention act” (Uapa): terrorismo e complicità con i ribelli maoisti e in particolare un presunto coinvolgimento nei disordini scoppiati nel 2018 a Bhima-Koregaon, nello Stato del Maharashtra. Accuse che il sacerdote aveva sempre respinto come infondate, sostenendo che alcuni documenti fossero stati inseriti nei computer a lui sequestrati allo scopo di incastrarlo.
 
Proprio qualche giorno prima di essere arrestato, in un video, aveva fatto una dichiarazione profetica: «Quello che sta capitando a me non è qualcosa di unico; si tratta di un vasto processo che sta avvenendo in tutto il Paese. Siamo tutti consapevoli del fatto che intellettuali di spicco, scrittori, poeti, attivisti e leader studenteschi siano stati incarcerati per aver espresso il loro dissenso o per aver sollevato domande sui poteri al governo. Siamo tutti parte di questo processo. E sono contento di far parte di questo processo, perché io non sono uno spettatore silenzioso; io faccio parte del gioco, sono pronto a pagarne il prezzo, qualunque esso sia».
 
Il 22 maggio scorso, durante una drammatica videoconferenza davanti all'Alta Corte di Mumbai, padre Swamy aveva rifiutato un primo ricovero in ospedale. Ritenendo che ormai le sue condizioni di salute fossero compromesse, l’unica cosa che gli stava a cuore era di poter morire tra la sua gente. «Durante questi otto mesi – aveva sostenuto davanti all’Alta Corte - c'è stata una lenta ma costante regressione di ogni funzione del mio corpo. Il carcere di Taloja mi ha portato a una condizione in cui non sono in grado né di scrivere né di camminare da solo. Sto chiedendo di considerare il perché e le modalità attraverso cui è avvenuto questo deperimento della mia salute. Potrei soffrire, forse morire anche molto presto se il peggioramento delle mie condizioni dovesse andare avanti. Ma qualsiasi cosa accada voglio poter stare tra la mia gente».
 
Il provinciale dei gesuiti padre Stanislaus D’Souza, parla così di padre Swamy: «Come gesuita si è impegnato a camminare insieme agli esclusi, calpestati nella loro dignità in una missione di riconciliazione e giustizia. Con la sua morte si è unito ai martiri Adivasi e a quanti hanno sacrificato la loro vita per proteggere il tessuto secolare e democratico e le diverse culture della nostra Nazione».
 
Il caso Swamy ha provocato reazioni anche a livello internazionale, al punto che il 15 luglio scorso, la relatrice speciale delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani, Mary Lawlor, ha affermato che la sua morte rimarrà per sempre una macchia per i diritti umani in India.
Stan Swamy

Breve biografia di padre Swamy

Stan Swamy è nato il 26 aprile 1937 in un villaggio nel distretto di Trichy, nel Tamil Nadu in India. Ha terminato i suoi primi studi da St. Joseph a Trichy. Ispirato dal lavoro dei gesuiti, decise di entrare nella Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola.
Si laureò al St. Xavier's College, Ranchi nel 1962 e completò gli studi di filosofia a Shembaganur nel 1965.

L’incontro con gli Ho Adivasi, popolo indigeno sfruttato

Nel 1967 fu nominato insegnante e prefetto dell'ostello presso la St. Xavier's High School, Lupungutu, Chaibasa in Jharkahnd: fu lì che ebbe l'opportunità di visitare le famiglie e i villaggi dei suoi studenti. Fu lì che si innamorò del popolo indigeno chiamato Ho Adivasi. Questo popolo vive in villaggi remoti e molti di loro si recano al mercato settimanale di Chaibasa, dove di solito vengono truffati e sfruttati dai commercianti non Adivasi.
 
Riflettendo su tali esperienze, Stan diceva: «Provavo dolore, ma non potevo farci nulla». In questo periodo padre Swamy ebbe la possibilità di sperimentare in prima persona la vita e la cultura Adivasi. Nel 1970 decise di proseguire i suoi studi di teologia e di fare anche un master in sociologia nelle Filippine. «I miei master in sociologia – scriveva il religioso - si sono occupati della vita e delle lotte delle popolazioni indigene. Questo mi ha aiutato a capire le dinamiche delle loro lotte contro lo sfruttamento in altre parti del mondo».
 
Padre Swamy fu ordinato sacerdote il 14 aprile 1970 a Manila; il suo primo incarico fu quello di direttore del Catholic Relief Services (CRS) vicino a Jamshedpur. Istituì un ufficio per il CRS, costruì un magazzino per immagazzinare i materiali di soccorso e formò due dei suoi studenti per gestire le attività. Decise di non gestire lui stesso queste attività, perché non voleva fermarsi alla distribuzione del cibo ai poveri, non gli bastava: continuava a interrogarsi sul perché c'erano così tante persone povere che non avevano accesso al cibo.

Si schierò con gli oppressi e gli sfruttati

Sempre negli anni ’70 padre Swamy frequentò un corso di formazione sulla mobilitazione e lo sviluppo della comunità. Poi decise di trasferirsi a Baraibir, un remoto villaggio rurale di Ho Adivasi, dove visse per quasi un anno. Nel villaggio impiegò molte energie per contattare i giovani della zona aiutandoli a pensare in modo critico alla loro vita nella società. Molto presto si riunirono attorno a lui alcuni dei suoi studenti e altri volontari. Gli abitanti del villaggio offrirono loro un piccolo appezzamento di terra dove poterono costruire una casetta con una stanza e una cucina.
 
Tornato in India, durante il 1975-1991, tenne come docente un corso su "Analisi sociale e organizzazione di comunità". Al corso parteciparono giovani provenienti da diversi stati dell'India e dei Paesi limitrofi, come Sri Lanka, Bangladesh e Nepal.
I risultati dei suoi sforzi per formare le persone nell'analisi sociale scientifica e il suo esempio di vita di schierarsi con gli oppressi e gli sfruttati, hanno ispirato molti attivisti sociali nell'Asia meridionale e oltre.

Ha fondato il centro di apostolato sociale Bagaicha, per difendere i diritti dei popoli sfruttati

Nel 1991, Stan tornò al suo "primo amore": gli Adivasi del Jharkhand. Diede un grosso impulso per rilanciare le attività della JOHAR (Jharkhandi's Organization for Human Rights), un'organizzazione laica che accompagna gli Adivasi nelle loro lotte.
Alcuni gesuiti, coinvolti nelle lotte degli Adivasi per proteggere la loro terra ancestrale e le loro risorse di sostentamento, in particolare con i progetti del Netarhat Field Firing Range e della diga idroelettrica di Koel-Karo, hanno sentito la necessità di istituire un centro di apostolato sociale a Ranchi per coordinare la sforzi dei movimenti popolari per resistere allo sfollamento di massa e ad altri processi di impoverimento delle società emarginate. Padre Swamy si assunse la responsabilità di coordinare i movimenti popolari e di istituire un centro di apostolato sociale chiamato Bagaicha. Con questa nuova responsabilità, Stan si è trasferito a Ranchi nel 2002.
 
Il centro di apostolato sociale Bagaicha è sorto su un terreno donato dalla provincia gesuita di Ranchi. Bagaicha è stato un punto di ritrovo dove molte persone di varie comunità si sono riunite per discutere i propri problemi e raggiungere una decisione attraverso un processo di consenso.
Padre Swamy è rimasto a Bagaicha, dove svolgeva il ruolo di direttore, fino al suo arresto, avvenuto l’8 ottobre 2020.
 
Durante gli anni di impegno a Bagaicha, padre Swamy è sempre stato attento alle politiche dell’India che violavano le disposizioni protettive della terra e delle risorse degli Adivasi. Ha organizzato workshop, corsi di formazione, incontri e discussioni per sensibilizzare le persone interessate e per discutere le questioni che colpiscono le persone svantaggiate.
Ha partecipato alle lotte degli Adivasi contro lo sfollamento e l'espropriazione a causa dell'alienazione della terra da parte di vari progetti di “sviluppo” proposti da avviare nelle regioni che appartengono al popolo indigeno.
Scriveva regolarmente sulle disposizioni esistenti - costituzionali e legali - che miravano a proteggere le risorse delle persone, chiedendo allo Stato indiano di attuarle e rispettarle.
 
I lavori più recenti di padre Swamy includono la preparazione di documenti di formazione per creare consapevolezza e per allertare la popolazione Adivasi sui pericoli imminenti di diventare senza terra nei propri villaggi.
Nel 2014, aveva anche avviato uno studio sui prigionieri sotto processo, pubblicando nel 2015 i risultati di uno studio. Aveva anche presentato una controversia di interesse pubblico presso l'Alta Corte del Jharkhand nel 2017, chiedendo i dettagli completi di tutti gli arrestati secondo la legge UAPA, “Unlawful activities prevention act”, da alcuni ritenuta una legge utilizzata per togliere di mezzo le persone scomode.
In ricordo di padre Swamy
Padre Swamy, morto in carcere il 5 luglio 2021 per aver difeso il diritto delle popolazioni indigene dell'India.

Le false accuse, l’arresto e la morte

Nel frattempo, verso la fine del 2017, la polizia locale del distretto di Khunti, aprì un caso di sedizione contro Stan e contro altri 19 attivisti, semplicemente sulla base dei loro commenti su Facebook relativi a un movimento di resistenza chiamato Pathalgadi, che voleva difendere i diritti del popolo Adivasi. La polizia di Khunti confiscò alcuni degli effetti personali dalla stanza di padre Swamy in relazione al caso Pathalgadi. Inoltre, il 28 agosto 2018, la stanza del religioso fu perquisita dalla polizia del Maharashtra. Durante il raid, la polizia portò via l'hard disk del suo computer, la sim card del cellulare e pochi altri oggetti elettronici. Il motivo del raid, secondo la polizia, era quello di verificare che avesse qualche relazione con l'Elgar-Parishad, un raduno di attivisti sociali e culturali delle comunità dalit (cioè i fuori casta) in tutto il Maharashtra per pianificare la celebrazione della vittoria di Dalit sulla cosiddetta “casta superiore” Peshwar re di Bhima-Koregaon.
È un fatto che Stan non aveva alcun rapporto con Elgar-Parishad e Bhima-Koregaon.
 
Dopo questi fatti, ci fu un secondo raid il 12 giugno 2019.
Dopo un anno di incertezza, il 27, 28, 29, 30 luglio e il 6, 8 agosto 2020, un ufficiale della NIA (Agenzia antiterrorismo indiana) interrogò padre Swamy nella sua residenza a Bagaicha. E infine, in piena pandemia di Covid-19, l'8 ottobre 2020 il gesuita venne arrestato e portato nella prigione di Taloja a Mumbai.

Dopo aver trascorso circa 9 mesi in prigione, la sua salute iniziò ad aggravarsi: risultò risultato positivo al Covid-19 sviluppando complicazioni post-covid. Il 29 maggio, su intervento dell'Alta Corte, venne ricoverato presso l'Holy Family Hospital Bandra di Mumbai, dove ha esalato l'ultimo respiro il 5 luglio 2021 come prigioniero sotto processo. I suoi 15 compagni attivisti, arrestati e incarcerati in relazione allo stesso caso, continuano ad essere detenuti sotto processo nello stesso caso.
 
La sua profonda fede in Gesù lo ha aiutato a vivere e lavorare con gli indigenti, difendendo i loro diritti e la loro dignità. Possa la sua bella vita di impegno e coraggio nel lottare senza paura per i diritti delle persone continuare a ispirarci e rafforzarci.