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15 Maggio 2025

10 anni di progetto in Grecia: dalla crisi all'accoglienza

La missione di una speciale famiglia italiana nel cuore di Atene
10 anni di progetto in Grecia: dalla crisi all'accoglienza
Tra austerità, migrazioni e povertà, il racconto di Filippo e Fabiola, genitori toscani con 4 figli, che accolgono famiglie e minori stranieri, ma che si scontrano con un complesso sistema burocratico che rende difficile dare una casa ai tanti bambini negli istituti. Ecco il progetto ad Atene della Comunità Papa Giovanni XXIII che compie 10 anni il 17 maggio.
Era l'Autunno del 2009 quando l'allora Primo ministro greco denunciò il rischio bancarotta per il paese. In sei anni il PIL diminuì del 25 per cento, mentre il debito pubblico aumentò dell'80 per cento. Nel 2012 la troika di creditori – il Fondo monetario internazionale, l'Unione Europea e la Banca centrale europea – per sbloccare il pacchetto di aiuti internazionali posero come condizione l'attuazione di nuove misure strutturali e di austerità: taglio della spesa pubblica e quindi dei servizi, taglio delle pensioni, riduzione dei salari. Le conseguenze sociali furono devastanti. Fu in questo contesto che Papa Benedetto, dopo aver ascoltato le parole disperate di un padre e di una madre di Atene, propose alla Chiesa e alle Caritas in particolare di attuare “gemellaggi solidali”.
 
 
Da qui parte l'avventura di Filippo Bianchini e Fabiola Bianchi, entrambi toscani, genitori di quattro figli, responsabili della casa famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII ad Atene, «nel quartiere Neos Kosmos, nuovo mondo, a 20 minuti dall'Acropoli».
Oggi in casa accolgono una mamma del Kenya con due figli, una mamma eritrea con un bimbo ed un ragazzo afghano. Inoltre al piano superiore della casa danno ospitalità ad una famiglia Rohingya del Myanmar ed un altro ragazzo afghano. In questi anni hanno trovato spazio nella loro famiglia diversi minori stranieri non accompagnati che non erano stati riconosciuti tali dalle autorità locali.

Fabiola, dove vi sete conosciuti?


«Quando studiavamo all'Università a Siena. Filippo non era vicino alla Chiesa ma a Siena ha conosciuto la casa famiglia di Ida Maria Camerra dove sono accolte persone con gravi disabilità. Per la prima volta aveva visto una persona che lottava quotidianamente contro le ingiustizie, che, al di là di tante chiacchiere, ci aveva messo la vita. Da lì è nato anche in lui il desiderio di spendersi per i più poveri.» 

Com'è nata l'idea di andare in missione?

«Quando avevo 12 anni leggevo le storie dei bambini di strada brasiliani su Il Giornalino, una rivista per ragazzi pubblicata dalle Edizioni San Paolo, e così è nata questa passione. Il Signore mi ha messo la missione nel cuore con queste storie. Tanto che mi sono laureata in Lingue ed ho studiato appositamente il portoghese perché un giorno sarei voluta partire.»

Siete poi stati in Brasile?

«Sì, due volte. Nel 2005 da giovane coppia di sposini per un mese a João Pessoa in una missione, poi l'anno successivo siamo tornati per sei mesi a Belém, vicino alle foci del Rio delle Amazzoni, per sostituire temporaneamente una missionaria. Siamo tornati in Italia che aspettavamo il nostro primo figlio.»

Da quando siete in Grecia?

«Siamo arrivati ad Atene il 7 agosto 2014. Noi volevamo tornare in Brasile, dopo che ci eravamo già stati. Ma non potevamo perché avevamo intanto accolto due bambini in affido. In quel momento ci è stato proposto di andare ad Atene. La Grecia era ancora nel pieno della crisi economica e da qualche anno era iniziata un'altra emergenza: quella dei migranti. La Papa Giovanni aveva realizzato diversi campi di condivisione con i migranti a Patrasso fintanto che fu chiesto di aprire una presenza ad Atene.»
 

Come affronta la Repubblica Ellenica la questione migratoria?

«La Grecia è sempre stata uno snodo per le migrazioni, poiché da qui si parte per la cosiddetta “rotta balcanica”: i migranti arrivati dalla Turchia, passano in Grecia e poi per i Balcani per arrivare nel centro e nord Europa. All'inizio la Grecia non faceva da “tappo”, per cui i migranti passavano a frotte senza rimanere bloccati: dentro i container, attaccati sotto i camion. La Grecia non aveva neanche un sistema d'asilo. Ma non gli serviva perché tanto nessuno voleva chiedere qui l'asilo politico. Poi ci fu la crisi migratoria del 2015 in seguito alla guerra civile in Siria con i milioni di profughi che si riversarono qui in fuga dalle bombe. Ed allora intervenne l'Europa e la Grecia si è dovuta dotare di un sistema di asilo politico ed ha dovuto realizzare i campi profughi ad Atene e gli hotspot nelle isole greche.» 

Siete arrivati nel mezzo della crisi economica

«Quando siamo arrivati si era nel pieno della crisi economica ma il Paese ha resistito perché qui è ancora forte il ruolo ed il valore della famiglia. In certi luoghi della città “colonizzano” le strade: ci stanno i bisnonni, i nonni, i figli, i nipoti, tutti insieme. Per cui se qualcuno non riesce a cavarsela, si trova sempre una soluzione. La famiglia fa da scudo protettivo, è un porto sicuro dove tornare.»

E per chi è senza famiglia?

«È raro accogliere un greco ma chi è solo, senza famiglia, se si trova in difficoltà allora rischia di finire per strada. Per questo abbiamo aperto una Capanna di Betlemme, una casa di accoglienza per i senzatetto, perché i greci che hanno bisogno di essere accolti sono i senza fissa dimora.»

Come funziona la vostra Capanna di Betlemme?

«La Capanna sta in un altro quartiere della città. Filippo è referente e ci vivono due volontari italiani, Marco Lucchi e Max Scimé, che però non conoscono ancora la lingua, che è fondamentale per comunicare: se si devono curare, cercare documenti, un lavoro. Abbiamo dodici posti letto, ma abbiamo altre persone che vengono solo a cenare o altre che vengono al mattino per farsi la doccia. Facciamo anche unità di strada tutti martedì. Andiamo a cercare i senza fissa dimora al Pireo e in centro. Quando riusciamo i volontari si uniscono alle suore di Madre Teresa che vanno a trovare in strada i tossicodipendenti. Ci avevano proposto di aprire una comunità terapeutica, avevamo trovato anche un immobile ma non operatori disponibili.»

Voi avete aperto una casa famiglia. Ma in Grecia esiste l'affido familiare?

«Parlare di accoglienza familiare, quindi un estraneo che ti entra in casa, qui è impossibile. L'affido familiare esiste solo sulla carta, ma in realtà lo rendono impossibile. Noi, quando siamo arrivati qui, volevamo fare affido, anche perché sappiamo che ci sono tanti bambini greci negli istituti. Per due anni abbiamo frequentato convegni, cercato i servizi sociali, studiato. Siamo riusciti a entrare anche in alcuni istituti. Il bisogno c'è. Abbiamo avviato la procedura per l'affido, abbiamo fatto test, esami, richieste di tutti i tipi, colloqui, ma non siamo mai arrivati a nulla. Non ci hanno mai detto un “no” ma non ci hanno neanche mai dato una risposta esaustiva, rendendo impossibile nei fatti l'affido.»

Secondo te qual è il problema?

«Un problema è che qui i servizi sociali non sono territoriali, ma privati e interni agli istituti, che prendono le rette dallo Stato. Essendo privati, i servizi sociali non si parlano tra loro. Gli istituti non si parlano. Noi, dopo non essere riusciti in un istituto, abbiamo allora provato in un altro ma avremmo dovuto ricominciare l'iter daccapo perché non si passavano la documentazione. Il risultato è che i bambini rimangono senza famiglia in istituto o negli ospedali.»

I greci sono solidali?

«I nostri vicini di casa ci portano vestiti e giocattoli per i bambini, a Lesbo abbiamo conosciuto l'associazione “Convivenza” che aiuta i migranti e poi conosciamo tanti volontari o avvocati che aiutano gratuitamente. Magari è poco organizzata ma esiste la solidarietà.»