«Quando studiavamo all'Università a Siena. Filippo non era vicino alla Chiesa ma a Siena ha conosciuto la casa famiglia di Ida Maria Camerra dove sono accolte persone con gravi disabilità. Per la prima volta aveva visto una persona che lottava quotidianamente contro le ingiustizie, che, al di là di tante chiacchiere, ci aveva messo la vita. Da lì è nato anche in lui il desiderio di spendersi per i più poveri.»
«Quando avevo 12 anni leggevo le storie dei bambini di strada brasiliani su Il Giornalino, una rivista per ragazzi pubblicata dalle Edizioni San Paolo, e così è nata questa passione. Il Signore mi ha messo la missione nel cuore con queste storie. Tanto che mi sono laureata in Lingue ed ho studiato appositamente il portoghese perché un giorno sarei voluta partire.»
«Sì, due volte. Nel 2005 da giovane coppia di sposini per un mese a João Pessoa in una missione, poi l'anno successivo siamo tornati per sei mesi a Belém, vicino alle foci del Rio delle Amazzoni, per sostituire temporaneamente una missionaria. Siamo tornati in Italia che aspettavamo il nostro primo figlio.»
«Siamo arrivati ad Atene il 7 agosto 2014. Noi volevamo tornare in Brasile, dopo che ci eravamo già stati. Ma non potevamo perché avevamo intanto accolto due bambini in affido. In quel momento ci è stato proposto di andare ad Atene. La Grecia era ancora nel pieno della crisi economica e da qualche anno era iniziata un'altra emergenza: quella dei migranti. La Papa Giovanni aveva realizzato diversi campi di condivisione con i migranti a Patrasso fintanto che fu chiesto di aprire una presenza ad Atene.»
«Quando siamo arrivati si era nel pieno della crisi economica ma il Paese ha resistito perché qui è ancora forte il ruolo ed il valore della famiglia. In certi luoghi della città “colonizzano” le strade: ci stanno i bisnonni, i nonni, i figli, i nipoti, tutti insieme. Per cui se qualcuno non riesce a cavarsela, si trova sempre una soluzione. La famiglia fa da scudo protettivo, è un porto sicuro dove tornare.»
«È raro accogliere un greco ma chi è solo, senza famiglia, se si trova in difficoltà allora rischia di finire per strada. Per questo abbiamo aperto una Capanna di Betlemme, una casa di accoglienza per i senzatetto, perché i greci che hanno bisogno di essere accolti sono i senza fissa dimora.»
«La Capanna sta in un altro quartiere della città. Filippo è referente e ci vivono due volontari italiani, Marco Lucchi e Max Scimé, che però non conoscono ancora la lingua, che è fondamentale per comunicare: se si devono curare, cercare documenti, un lavoro. Abbiamo dodici posti letto, ma abbiamo altre persone che vengono solo a cenare o altre che vengono al mattino per farsi la doccia. Facciamo anche unità di strada tutti martedì. Andiamo a cercare i senza fissa dimora al Pireo e in centro. Quando riusciamo i volontari si uniscono alle suore di Madre Teresa che vanno a trovare in strada i tossicodipendenti. Ci avevano proposto di aprire una comunità terapeutica, avevamo trovato anche un immobile ma non operatori disponibili.»
«Parlare di accoglienza familiare, quindi un estraneo che ti entra in casa, qui è impossibile. L'affido familiare esiste solo sulla carta, ma in realtà lo rendono impossibile. Noi, quando siamo arrivati qui, volevamo fare affido, anche perché sappiamo che ci sono tanti bambini greci negli istituti. Per due anni abbiamo frequentato convegni, cercato i servizi sociali, studiato. Siamo riusciti a entrare anche in alcuni istituti. Il bisogno c'è. Abbiamo avviato la procedura per l'affido, abbiamo fatto test, esami, richieste di tutti i tipi, colloqui, ma non siamo mai arrivati a nulla. Non ci hanno mai detto un “no” ma non ci hanno neanche mai dato una risposta esaustiva, rendendo impossibile nei fatti l'affido.»
«Un problema è che qui i servizi sociali non sono territoriali, ma privati e interni agli istituti, che prendono le rette dallo Stato. Essendo privati, i servizi sociali non si parlano tra loro. Gli istituti non si parlano. Noi, dopo non essere riusciti in un istituto, abbiamo allora provato in un altro ma avremmo dovuto ricominciare l'iter daccapo perché non si passavano la documentazione. Il risultato è che i bambini rimangono senza famiglia in istituto o negli ospedali.»
«I nostri vicini di casa ci portano vestiti e giocattoli per i bambini, a Lesbo abbiamo conosciuto l'associazione “Convivenza” che aiuta i migranti e poi conosciamo tanti volontari o avvocati che aiutano gratuitamente. Magari è poco organizzata ma esiste la solidarietà.»