Vescovo della Diocesi di Ivrea dal 1966 al 1999, e predecessore di don Tonino Bello alla presidenza di Pax Christi, è morto all'alba di domenica 16 luglio 2023 Mons. Luigi Bettazzi.
Se ne è andato il 16 luglio 2023, all'età di 99 anni, mons. Luigi Bettazzi. Fu tra i padri presenti al Concilio Vaticano II, ricordato come unico firmatario italiano del Patto delle Catacombe, nel quale 43 vescovi si impegnavano alla realizzazione di una "Chiesa serva e povera".
Il suo sostengo alla nonviolenza lo aveva visto presente anche ad Ivrea lo scorso maggio, nonostante le condizioni di salute precarie, ad una manifestazione per la pace in Ucraina.
Proprio per questo impegno alla pace, lo avevamo incontrato come Sempre nel dicembre 1995. Ecco cosa ci aveva raccontato in quell'occasione.
Mons. Luigi Bettazzi è un uomo di Dio che parla di pace cercando anche di promuoverla. L'attenzione ai “segni dei tempi” e l'impegno per il disarmo, per i diritti dei popoli oppressi, per la nonviolenza, nasce proprio dalla convinzione che una spiritualità, per essere “umana”, deve realizzarsi nel concreto della vita, quindi nella storia. Al suo attivo ha svariate pubblicazioni, l’ultima delle quali è Farsi donna, farsi giovane per la pace. È convinto che la pace sia la grande sfida degli uomini e, per i cristiani, il vero modo di dare gloria a Dio.
Accattivante, ricco di battute, sa prendere e colpire la gente perché colpisce al cuore mettendosi a fianco dei poveri.
Mons. Bettazzi. La pace è la grande sfida degli uomini
Come è avvenuto il suo incontro con Dio?
«Io ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia molto religiosa. Mia mamma mi confidò, quando io ero già prete, che lei era stata molto esitante tra sposarsi o no, perché a quei tempi non le sarebbe piaciuto farsi suora, ma se ci fossero stati gli istituti secolari l'avrebbe fatto. Poi conobbe il mio babbo, che era di Torino, durante la guerra a Bologna. Lo vide così religioso che accettò la proposta di matrimonio, mettendo come condizione l’avere molti figli, chiedendo che vivessero tutti in grazia di Dio e che almeno uno si facesse prete. Fin da bambino andavo a servir messa a Treviso e tornavo a casa dicendo a mia mamma: "Mamma, mi piacerebbe servire Messa come don Carlo". Sono entrato in seminario che non avevo neanche dieci anni.
I problemi che si hanno nell'adolescenza e nella giovinezza, li ho affrontati e risolti all'interno del seminario, in una vocazione che ho sempre pensato fosse la mia vocazione. Devo dire che, se ho avuto dei momenti di perplessità, di difficoltà o di dubbio, non sono mai stati così forti da mettere in gioco l’orientamento a Dio, il mio servizio a Lui e alla comunità.»
Com’era il suo rapporto con i compagni?
«Io sono un tipo molto timido, in famiglia lo siamo tutti, ma io in modo particolare. I miei genitori erano uno emiliano e l'altro piemontese, così in seminario a Treviso, come in seminario a Bologna, non sapevo parlare il dialetto e questo era causa di un piccolo complesso di inferiorità. Riuscivo bene negli studi; lì trovavo la mia soddisfazione, anche se poi con i miei compagni non sono mai stato in posizione influente, ma amica, visto che con un temperamento abbastanza remissivo difficilmente vivevo occasioni di scontro.
D’altra parte, sia il giocare al calcio, dove riuscivo abbastanza bene, sia il concertino che c'era a Bologna di ocarina (ero diventato anche direttore della cantoria) mi facevano recuperare le difficoltà che la timidezza mi portava.»
Le sue scelte orientate verso la pace, da dove nascono?
«Il mio arcivescovo mi mandò a Roma per studiare filosofia e attraverso degli amici che avevo là, miei compagni di corso, fui aiutato a capire la filosofia.
Generalmente nei seminari si insegnava la filosofia “vera”: tutte le altre sono sbagliate, quindi sono da combattere. Invece questi amici mi aiutarono a capire che ogni filosofia ha un'anima di verità, ed a scoprirla prima ancora di scoprire l’anima dell'errore. Mi mandarono a fare l’assistente ai giovani universitari, ed anche in mezzo a loro c’era questa valorizzazione degli aspetti meno chiusi, che forse nelle nostre comunità c’erano.
Poi nel ’68, la C.E.I. mi chiese di entrare come presidente nel movimento di Pax Christi (che non conoscevo). Erano i famosi anni dei giovani, e forse i miei predecessori avevano lasciato l’incarico perché ne erano spaventati. Io entrai forse con incoscienza, o forse con fiducia, e ricostruimmo Pax Christi partendo dal basso. C'è anche il Concilio in mezzo, con il tema della pace e la Gaudiumet spes, che ci aprivano a delle visuali diverse: non la Chiesa da una parte e il mondo dall'altra, ma la Chiesa nel mondo come un fermento, come un lievito. Anche nella Diocesi di Ivrea, in cui entrai nel gennaio del ‘67 come Vescovo, fui spinto a fare scelte di pace: con tutti i problemi del mondo del lavoro, ci fu la necessità di ascoltare, di mettersi in contatto con una realtà diversa dalla nostra.»
Il punto di partenza è il dialogo
Non le sembra che, ricercando una verità in ogni filosofia, si rischi di perdere la propria identità di cristiani cattolici?
«Certo, se uno la cercasse partendo da zero, dicendo: “Vado alla ricerca di qual è la corrente vera”.
Ma se uno parte dalla pienezza di verità che ritiene di avere, allora ha piacere di scoprire tutti i punti di verità che ci sono anche nelle altre correnti, per poter ridimensionare gli aspetti di errore. Se io dialogo partendo dall’errore, escludo chi non la pensa come me. Se io parto invece dall’anima di verità, io ho un punto di partenza per il dialogo con l’altro che potrò poi, pian piano, portare a vedere gli aspetti di errore che ha. Se io parto dall’errore, ho un nemico fin dall'inizio, ma se parto dalla verità, attraverso questa simpatia, questa amicizia, posso anche portarlo a rispettare la mia posizione, visto che io ho guardato con interesse la sua.»
Lei si è schierato con i disoccupati contro i licenziamenti, si occupa di ecumenismo, di cooperazione tra le chiese, di armi e disarmo. Non le sembra di essere un vescovo un po’ fuori dal comune?
«Tutte le settimane io ho scritto sul mio settimanale diocesano proprio per spiegare per prima cosa che se prendevo certe posizioni era perché mi avevano avviato i vescovi, nominandomi presidente del movimento di pace, compito che mi metteva nell'eventualità, se non addirittura nel dovere, di seguire questo movimento cattolico. La seconda preoccupazione era spiegare come queste posizioni non fossero politiche, ma posizioni radicate sul Vangelo. Era per far capire come anche le posizioni più singolari derivavano da una maturazione, da un approfondimento del Vangelo. Così il trovarmi in una Diocesi fortemente industriale con molti lavoratori, mi imponeva l'impegno di cercare di capirli, di essere vicino a loro. Mi ricordo di un incontro molto amichevole, dove loro affermavano: "A noi meraviglia che lei ci stia ad ascoltare, perché di solito voi partite dalle vostre verità assolute e quando arrivate ai problemi o voi non ci arrivate, o noi non vi abbiamo seguito. Chiediamo di poter continuare a lavorare e di poter tirar su bene i nostri figli e dare loro una speranza. Ecco, se voi partite da qui noi possiamo stare ad ascoltarvi anche quando parlate di Gesù Cristo".»
Presidente nazionale di Pax Christi nel ‘68 ed internazionale nel ‘78. Cosa ha significato e significa questo movimento di pace per l’umanità?
«All’epoca, era più una facciata: c’erano 6.000 indirizzi dei quali più di metà di parrocchie o di enti. Si ridussero a poco più di 100 quelli che in quel momento volevano ripartire per approfondire il tema della pace. Si è ripartiti ispirandosi molto all'Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII e alla Gaudium et spes.
Ci chiedono di essere vicini agli uomini e ai popoli proprio cominciando dai più poveri. Perché, se noi partiamo dai più ricchi e dai più potenti, continueremo a divaricare la visuale: da una parte chi è ricco e potente lo diventerà sempre di più, e dall’altra chi è povero diventerà sempre più povero.
Lo diceva fin dal ‘67 Papa Paolo VI nella Populorum progressio, l’enciclica in cui affermava che il nuovo mondo della pace è lo sviluppo dei popoli. La etichettarono subito come un’enciclica rivoluzionaria e faziosa perché i grandi mezzi di informazione, che sono nelle mani dei potentati politici ed economici, non vogliono essere disturbati nella loro logica. Un amico dell’Uruguay sosteneva che in fondo la vera guerra è quella in corso tra il Nord e il Sud del mondo. Per stare alla terminologia del rapporto del 1980, il Nord è la parte più ricca e sviluppata che mira a un sempre maggior sviluppo e dominio dell’altra parte, che diventa sempre più numerosa ma sempre più povera ed emarginata. Il frutto di questa guerra sono tra i 30 e i 40 milioni di morti all’anno per la fame e le conseguenze della fame.»
La radice delle guerre è l'economia
Dopo questo profilo che ha tracciato, la pace sembra quasi un’utopia?
«È un’utopia nel senso che è una cosa molto difficile che però, proprio per questo, deve essere perseguita giorno per giorno. È importante puntare su una maggiore autorevolezza dell’O.N.U., la quale, a causa di quei cinque Paesi che possono porre il veto bloccandone l’azione, non è un'organizzazione imparziale. L'O.N.U. inoltre si dovrebbe interessare di economia, poiché è lì oggi la radice delle guerre e delle tensioni, dato che si trova nelle mani dei paesi ricchi, che la utilizzano per diventare potenti ed emarginare i più deboli. Bisogna arrivare a superare le chiusure degli stati sovrani.
Uno dei grandi compiti, quindi, è quello di dare all’O.N.U. maggiore autorevolezza e dei compiti di regolazione dell’economia mondiale. Oggi questo viene fatto dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale che non dipendono dall’O.N.U.
Noi paesi ricchi li abbiamo fatti, li guidiamo, ed è chiaro che li guidiamo secondo i nostri interessi.»
Perché ha avuto la necessità di completare il suo libro “Farsi uomo” scritto nel ‘77 con l'ultima fatica “Farsi donna e farsi giovane per costruire la pace”?
«Direi che è stato quasi un caso, perché pensavo di scrivere un libro sulla pace e fondamentalmente questi sono i due primi grandi capitoli. Finora si diceva: se vuoi la pace prepara la guerra. Ma se tu prepari la guerra vuol dire che la vuoi, invece se vuoi la pace, prepara la pace. Da qui è nato che la pace, rifacendomi alla definizione di don Tonino Bello, è la convivialità delle differenze. Noi vediamo le diversità come un’occasione di dominio: se sei di un’altra razza, di un altro paese, di un’altra religione, ti faccio la guerra e ti domino. E invece no: se sei diverso da me, mettiamoci insieme per crescere insieme.
Così mi è venuto da pensare che Farsi uomo, che allora era rivolto soprattutto alla Chiesa che con il Concilio si era fatta più vicina all’umanità, noi lo pensiamo in realtà sempre come farsi maschio adulto, mentre il Signore ha voluto delle differenze fondamentali come uomo e donna, e le ha volute non per la guerra ma per la pace, perché si vogliano bene.
Mi è venuto anche di cercare perché e in quale modo la donna, diversa dall'uomo, può favorire di più la pace. La donna è più forte nell'intuizione dei valori concreti, l'uomo è forse più portato all'astratto, che lo porta al progresso ma anche al dominio, mentre i valori concreti portano maggiormente al rispetto e all’incoraggiamento del singolo, che potrebbe essere il vero veicolo della pace. Così come il giovane è più portato a buttare all'aria i progetti già fatti, mentre l'anziano cerca di difendere quello che ha costruito.
Allora in questo senso l'intuizione dei valori e la capacità di rinnovamento sono caratteristiche della donna e del giovane che potrebbero essere il punto di partenza per la pace e anche per la pace nella Chiesa.»