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10 Novembre 2025

COP30: il futuro del clima si decide in Amazzonia

Belém ospita la conferenza cruciale per l'azione climatica globale
COP30: il futuro del clima si decide in Amazzonia
Foto di DEZALB from Pixabay
La COP30 si terrà a Belém do Pará, nel cuore dell'Amazzonia, dal 10 al 21 novembre 2025. Questo vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è cruciale per trasformare le promesse dell'Accordo di Parigi in azioni concrete. Con il pianeta a rischio di superare i limiti di sicurezza, la conferenza mira a rafforzare gli impegni globali e a promuovere una leadership politica forte, in particolare da parte del G20. L'Italia partecipa con luci e ombre, cercando di colmare il divario tra impegni e azioni.
La trentesima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP30) si terrà a Belém do Pará, in Brasile, dal 10 al 21 novembre 2025. È la prima volta che un vertice sul clima delle Nazioni Unite viene ospitato nel cuore dell’Amazzonia, una scelta dal forte valore politico e simbolico: il polmone verde del pianeta, oggi uno dei fronti più critici della crisi climatica, diventa il centro del dibattito internazionale sul futuro del clima globale.
L’appuntamento di Belém arriva in un momento decisivo per la decade d’azione climatica, poiché segna la scadenza fissata dall’Accordo di Parigi per l’aggiornamento e il rafforzamento dei contributi nazionali determinati (NDC), gli impegni di riduzione delle emissioni presi da ogni Paese. Dopo anni di negoziati spesso segnati da compromessi, la COP30 dovrà spingere la comunità internazionale verso l’attuazione concreta delle promesse, trasformando le dichiarazioni in politiche operative, investimenti e risultati misurabili.

I nuovi impegni sul clima e il rischio di restare “fuori bersaglio”

Alla vigilia della conferenza, il nuovo Emissions Gap Report 2025 del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha delineato un quadro allarmante sullo stato degli impegni climatici globali. Nonostante lievi progressi, la traiettoria del pianeta resta ben oltre i limiti di sicurezza fissati dall’Accordo di Parigi. Le proiezioni indicano un riscaldamento compreso tra 2,3 e 2,5 °C entro la fine del secolo, un miglioramento solo marginale rispetto ai 2,6–2,8 °C previsti nel 2024. In sostanza, i nuovi impegni nazionali – i cosiddetti NDC, che ciascun Paese deve aggiornare ogni cinque anni – non hanno ancora spostato in modo significativo l’ago della bilancia.
A oggi, meno di un terzo delle Parti dell’Accordo di Parigi – 60 Stati che coprono circa il 63% delle emissioni globali – ha presentato nuovi obiettivi di mitigazione per il 2035. Ciò significa che la maggioranza dei Paesi non ha aggiornato i propri piani, nonostante la scadenza del 30 settembre 2025. Ancora più preoccupante è il divario tra promesse e attuazione: le politiche effettivamente in vigore porterebbero a un aumento della temperatura di 2,8 °C, segno che gli strumenti messi in campo non bastano nemmeno a rispettare gli impegni già presi per il 2030. La crescita delle emissioni globali, salite del 2,3% nel 2024 fino a 57,7 gigatoni di CO₂ equivalente, conferma quanto la finestra d’azione si stia rapidamente restringendo.
Secondo l’UNEP, la media pluridecennale dell’aumento della temperatura globale supererà 1,5 °C già nei primi anni 2030, almeno temporaneamente. Limitare questo “overshoot” sarà possibile solo con tagli rapidi e consistenti delle emissioni, evitando di affidarsi a tecnologie di rimozione della CO₂ ancora incerte e costose. «Il superamento temporaneo di 1,5 °C è ormai inevitabile», ha ammesso António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, ricordando però che “1,5 gradi entro la fine del secolo rimane la nostra stella polare”. Anche Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP, ha sottolineato che «le nazioni hanno avuto tre tentativi per mantenere le promesse dell’Accordo di Parigi, e ogni volta sono finite fuori bersaglio».
Per allinearsi al percorso di 1,5 °C, le emissioni globali dovrebbero ridursi del 40% entro il 2030 e del 55% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019. Tuttavia, anche nella migliore delle ipotesi, l’attuazione completa degli NDC attuali porterebbe a una riduzione di appena il 15%, evidenziando la distanza tra ambizioni e realtà. L’UNEP invita quindi a una “rapida azione di mitigazione” già a partire dal 2025, puntando su energie rinnovabili a basso costo, riduzione delle emissioni di metano e maggiore sostegno ai Paesi in via di sviluppo. Ma la sfida, come sottolinea il rapporto, non è solo tecnologica: serve una leadership politica forte, in particolare da parte del G20, responsabile del 77% delle emissioni globali. Finora, però, solo sette membri del gruppo hanno presentato nuovi NDC, e nessuno è sulla buona strada per rispettare quelli del 2030.

Il ruolo dell’Italia

Nel contesto di un impegno globale ancora insufficiente, anche l’Italia arriva alla COP30 con luci e ombre. L’analisi annuale del think tank ECCO descrive un Paese che partecipa agli obiettivi europei di riduzione delle emissioni – meno 55% al 2030 rispetto al 1990, secondo il pacchetto Fit for 55 – ma con strumenti nazionali che non garantiscono il raggiungimento del traguardo. L’ultimo Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), aggiornato nel luglio 2024, prevede infatti una riduzione del 40% nei settori dei trasporti, del civile e delle piccole e medie imprese, a fronte del 43,7% richiesto dall’Unione Europea, e non indica misure efficaci per colmare il divario.
Proprio in questi comparti si concentrano oggi le principali criticità. Il trasporto rappresenta il 28% delle emissioni nazionali, con valori in crescita del 7% rispetto al 1990 e un parco di veicoli elettrici ancora dieci volte inferiore agli obiettivi del PNIEC. Nel settore civile, dopo il temporaneo calo dovuto alla crisi dei prezzi del gas tra il 2021 e il 2022, le emissioni si sono stabilizzate, mentre gli investimenti sono crollati da 120 miliardi nel 2021 a 20 miliardi nel 2023.
Qualche progresso si registra invece nel comparto elettrico, grazie all’aumento della capacità rinnovabile installata – 7,6 GW nel 2024 contro i 5,8 GW del 2023 – ma il ritmo resta ancora troppo lento per centrare gli obiettivi del 2030. Anche la riduzione dei consumi di gas appare strutturale, ma la prosecuzione degli investimenti in nuove infrastrutture metanifere rischia di generare costi aggiuntivi per i consumatori. Nel settore industriale, le emissioni sono in calo dal 2005, ma la mancanza di una chiara strategia industriale per la transizione limita l’innovazione e la competitività del sistema produttivo.
Oltre agli aspetti tecnici, ECCO evidenzia carenze più profonde legate alla governance e al quadro fiscale. L’Italia non dispone ancora di un sistema integrato di monitoraggio e valutazione delle politiche climatiche, né di una fiscalità coerente con la decarbonizzazione. L’energia elettrica continua a essere gravata da un’imposizione tripla rispetto al gas e doppia rispetto ai carburanti fossili, una distorsione che scoraggia l’adozione di tecnologie pulite nei trasporti e nel riscaldamento. Questo squilibrio, sottolinea il think tank, frena la transizione e priva cittadini e imprese dei benefici economici derivanti dall’efficienza energetica.
Alla COP30 di Belém, dunque, l’Italia si presenterà come parte di un’Unione Europea formalmente ambiziosa, ma con un percorso nazionale ancora incompleto e frammentato. L’esito della conferenza sarà anche un banco di prova per verificare se il Paese saprà colmare il divario tra impegni e azioni, trasformando la retorica della transizione in una politica climatica strutturale, coerente e socialmente equa.