Al termine di faticosi negoziati, il 22 novembre si è conclusa la COP30, caratterizzata da una vivace e numerosa presenza di rappresentanti della società civile e dei popoli indigeni. Tra i delegati alla conferenza annuale dell'ONU sul clima tenutasi a Belém anche Simone Ceciliani, missionario in Kenya della Comunità Papa Giovanni XXIII
Era ormai sera a Belém quando, con più 24 ore di ritardo rispetto al programma stabilito, dopo una notte di negoziati serrati e una lunghissima sessione plenaria conclusiva, il 22 novembre è calato il silenzio sui padiglioni che per due settimane hanno ospitato la COP30, la 30ª Conferenza annuale delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), con i 42.000 delegati accorsi da tutto il mondo nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.
COP della verità: scienza, equità e politica in Amazzonia
Nelle intenzioni della presidenza brasiliana, questa doveva essere la «COP della verità», per ricostruire fiducia e speranza nella lotta contro il cambiamento climatico mettendo insieme la scienza, l’equità e la determinazione politica, rafforzando il multilateralismo, connettendo questo processo con le persone sul campo e accelerando l’implementazione dell’Accordo di Parigi.[1] E in effetti molte verità si sono fatte strada durante i lavori di queste due settimane, fino ad esplodere nei negoziati finali.
L'impatto devastante del cambiamento climatico, un allarme concreto
Innanzitutto la verità della forza devastante dell’impatto del cambiamento climatico e del nesso di causalità con le attività umane e il nostro modello di produzione, consumo e sfruttamento della natura, messa nero su bianco dagli studi e dai rapporti inequivocabili degli enti di ricerca, degli istituti internazionali e degli scienziati del clima, nonché testimoniata in prima persona da chi ha perso tutto o è costretto a migrare a causa di inondazioni, siccità, degrado ambientale e inaridimento dei suoli causati dallo stravolgimento del clima. Una realtà che peraltro riguarda molto da vicino anche l’Italia, essendo il 16° Paese più colpito dagli effetti del clima a livello globale (e il primo in Europa) negli ultimi 30 anni, secondo il Climate Risk Index (CRI) dell’ente indipendente tedesco Germanwatch.
C’è poi la verità degli enormi interessi in gioco che si contrappongono quando si tratta di definire, attuare e finanziare sia le politiche di contrasto e mitigazione delle cause del cambiamento climatico (legate in particolare all’utilizzo dei combustibili fossili e alle conseguenti emissioni nocive, principali responsabili del riscaldamento globale) sia le azioni per l’adattamento agli effetti e ai danni provocati dal mutamento del clima (che spesso colpiscono più duramente chi meno vi ha contribuito). La strenua indisponibilità da parte del blocco di Paesi che basano le loro economie sui combustibili fossili anche soltanto a citare questo termine nel documento finale della COP30 evidenzia chiaramente che per alcuni governi e gruppi di pressione la priorità non è il futuro dell’umanità ma i propri interessi economici di breve termine. (Basti pensare che circa un delegato su 25, quindi in totale più di 1.600, a Belém era un lobbista dell’industria dei combustibili fossili).
Simone Ceciliani, missionario in Kenya, era presente alla COP 30 (conferenza delle Nazioni Unite per i cambiamenti climatici) in Brasile
Sostenibilità e riduzione emissioni: una speranza crescente
Per fortuna, un’altra verità più rassicurante e fonte di speranza è emersa sia durante i negoziati sia attraverso le tantissime iniziative che hanno animato la COP30: nonostante le aspre resistenze e i passi indietro, la sostenibilità ambientale e la riduzione delle emissioni inquinanti è ormai imprescindibile per diversi governi, per settori consistenti dell’economia e per la gran parte dei movimenti, delle ONG e delle reti che rappresentano la società civile di tutto il mondo. Ad esempio, durante la COP il Movimento Laudato Si’ ha annunciato che altre 62 istituzioni religiose (tra cui 4 diocesi italiane) si sono impegnate per il disinvestimento dalle aziende di combustibili fossili, unendosi alle oltre 1.700 organizzazioni religiose che in tutto il mondo hanno già scelto di reindirizzare i propri investimenti verso l’energia pulita e lo sviluppo sostenibile. La strada della conversione ecologica si rivela sempre più necessaria e inevitabile e come tale è stata intrapresa e si sta affermando soprattutto a partire dal basso, anche se il consenso politico non è ancora sufficientemente forte e stabile per attuare i necessari cambiamenti strutturali prima che sia troppo tardi. Come ha affermato Simone Stiell, segretario esecutivo di UNFCCC (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), «una nuova economia sta nascendo, mentre quella vecchia e inquinante sta esaurendo le sue potenzialità».
In un contesto internazionale e geopolitico di polarizzazione, negazionismo ed erosione delle istituzioni sovranazionali, pur con tutti i suoi limiti la diplomazia climatica ha saputo dimostrare una verità per niente scontata: il multilateralismo è ancora vivo e capace di creare spazi di dialogo e cooperazione per affrontare collettivamente i grandi temi globali. Infatti, il primo risultato finale della COP30 è aver comunque raggiunto una soluzione di compromesso ed evitato che i negoziati deragliassero per le forti resistenze politiche e le divergenze sui contenuti, considerando che in queste Conferenze si procede solo con il consenso di tutti gli Stati.
La marcia dei popoli durante la conferenza sui cambiamenti climatici (COP 30) in Brasile dal 10 al 22 novembre 2025
Foto di Simone Ceciliani
La Comunità Papa Giovanni XXIII per la giustizia climatica
Tra le realtà della società civile presenti a Belém, sia alla COP che alla Marcia dei Popoli, quest’anno c’era anche laComunità Papa Giovanni XXIII, che per la prima volta ha partecipato alla conferenza annuale dell’ONU sul clima per condividere la propria esperienza con le vittime dei cambiamenti climatici e unirsi alla mobilitazione globale per la giustizia climatica. Grazie ad un partenariato con la ONG italiana CESVI, è stato infatti possibile accreditare un proprio delegato. A rappresentare l’Associazione c’era Simone Ceciliani, missionario in Kenya e componente dell’Ufficio APG23 presso l’ONU, da molti anni impegnato sulle tematiche dell’ambiente, del clima e dell’acqua, in particolare a sostegno delle popolazioni delle aree aride e semi-aride del Nord del Kenya nella regione del lago Turkana vittime degli effetti del cambiamento climatico (un approfondimento è disponibile in questo articolo pubblicato a luglio su Semprenews). La sensibilità su questi temi della Comunità trova espressione in particolare nell’Ambito Ecologia Integrale e nelle attività di advocacy internazionale all’ONU, nel cui quadro si inserisce anche la partecipazione alla COP.
Dal Kenya al Brasile: la testimonianza di Simone Ceciliani
La testimonianza di Simone Ceciliani dalla COP30 di Belém ci restituisce una prospettiva attuale e interessante sulla lotta per la giustizia e la relazione tra i luoghi della diplomazia climatica e le periferie del mondo. Ascolta qui l'intervista su Radio Vaticana a Simone (dal minuto 16:30)
«Come Comunità Papa Giovanni XXIII è importante essere qui per far sentire la voce degli ultimi nei Paesi dove siamo presenti e per fare network con le altre organizzazioni della società civile che, come noi, lottano per i diritti umani e i diritti dei più poveri ed emarginati. Non per carità ma per giustizia: è quello che chiedono i popoli del Sud del mondo e le comunità indigene, i poveri e gli emarginati. Non si tratta solo di riparazione, si tratta di cambiare il sistema. Il cambiamento del sistema economico, energetico e produttivo è urgente e necessario, perché insistendo con le politiche estrattive di combustibili fossili e minerali critici continuiamo non solo a danneggiare l’ambiente e le comunità più vulnerabili, come gli indigeni dell’Amazzonia, ma anche a perpetuare un modello economico basato sullo sfruttamento e il colonialismo. Il cambiamento climatico non è stato causato dagli ultimi della terra, è responsabilità dei più ricchi eppure i poveri ne stanno pagando le conseguenze. Il cammino per la giustizia climatica deve quindi partire dagli ultimi e dalle vittime».
«A questo riguardo, sono stato molto colpito dal coraggio e dalla forza morale della dichiarazione congiunta delle Conferenze episcopali cattoliche di Africa, Asia, America Latina e Caraibi, in cui il riscaldamento globale non viene considerato un problema tecnico ma una questione esistenziale di giustizia, dignità e cura della nostra casa comune, che richiede di dare la priorità alle persone povere rispetto alle logiche aziendali che aggravano le disuguaglianze. I vescovi del Sud del mondo hanno ribadito che la Chiesa Cattolica non cesserà di alzare la voce contro le ingiustizie ecologiche e sociali, al fianco della scienza, della società civile e dei più vulnerabili, ricordando che il grido della Terra è anche il grido dei poveri.
Tra le tante ingiustizie contro cui lottare, ci sono anche quelle legate alle soluzioni proposte dalla COP. Ad esempio, non è accettabile che meno del 5% delle risorse della finanza climatica arrivi alle comunità più vulnerabili: c’è tantissimo da migliorare anche nei meccanismi di distribuzione delle risorse e degli aiuti».
Cosa puoi fare tu
«La COP – continua Ceciliani – mi ha confermato nell’idea che il cambiamento per la giustizia deve passare dal cambiamento degli stili di vita. È facile prendersela con i lobbisti dell’industria dei combustibili fossili, con il sistema economico… ma i combustibili fossili e questo sistema economico esistono per alimentare i nostri stili di vita! È facile prendersela con obiettivi esterni, mentre è molto più difficile fare un esame di coscienza e capire in che misura noi, con il nostro stile di vita, contribuiamo a questa economia di sfruttamento e colonizzazione.
Un’iniziativa molto bella che può aiutare il cambiamento per la giustizia climatica è quella dei Peoples’ Determined Contributions. Si tratta di un appello globale lanciato dal Movimento Laudato Si’ rivolto a individui, comunità e istituzioni affinché adottino azioni concrete in risposta alla crisi climatica, prendendo in mano la responsabilità di dare ognuno il proprio contributo alla riduzione delle emissioni attraverso il cambiamento degli stili di vita, anche per superare l’azione insufficiente dei governi e dei piani nazionali climatici (National Determined Contributions)».
I popoli indigeni: «Non vogliamo i vostri soldi, rispettate il nostro stile di vita!»
«Un aspetto importante della COP nel cuore dell’Amazzonia è stata la presenza dei popoli indigeni e la possibilità di creare un ponte con loro, la loro cultura e l’esperienza unica di difensori degli ecosistemi – dichiara Ceciliani. Ad esempio, come ho sentito spiegare dagli indigeni del Canada, il problema del cambiamento climatico non è tanto una questione di soldi, di finanziamenti, di tecnica… è una questione relazionale, un problema di relazioni fra noi esseri umani, e di relazioni tra gli esseri umani e il creato. È una prospettiva che riporta al cuore della questione, mentre spesso si rischia di perdersi in tecnicismi e nel pensare che sia solo un problema di soldi e finanziamenti. Alcuni indigeni dell’Amazzonia invece gridavano: “Non vogliamo i vostri soldi, vogliamo che rispettiate il nostro ambiente, la nostra cultura, il nostro stile di vita!”»
Marcia dei popoli a Belém in Brasile: i popoli indigeni sono intervenuti durante la COP30 (conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico).
Foto di Simone Ceciliani
La marcia dei popoli
«Il momento più bello ed intenso – continua Ceciliani – è stato quello della Marcia dei Popoli, tra l’altro con moltissimi indigeni. Vedere questo movimento di società civile e semplici persone è stato bellissimo e mi fa credere che il futuro è nella COP dei popoli più che nella COP degli Stati. Penso che siano innanzitutto i popoli che possono fare la differenza, specie in questo particolare periodo storico pieno di autoritarismi in cui la democrazia è sotto pressione e messa in discussione. La Marcia Globale ha rappresentato la forza e la bellezza di un movimento dal basso e trasversale con persone di tutto il mondo e di tutte le religioni, unite dal grido: “Non c’è giustizia climatica senza tutte le altre forme di giustizia e senza i diritti umani!”»
Non c’è giustizia climatica senza rispetto dei diritti umani
La testimonianza di Simone ci ricorda che giustizia climatica, ambientale, energetica, sociale ed economica sono dimensioni strettamente interconnesse. Esempio ne è il legame tra debito estero e debito ecologico, due facce della stessa medaglia accomunate da una doppia ingiustizia come denunciato più volte anche da Papa Francesco (legame ben spiegato in questo approfondimento sul sito della Campagna «Cambiare la rotta» co-promossa dalla Comunità proprio in relazione al tema del debito).
Una transizione giusta, equa e sostenibile deve tener conto di queste connessioni ed essere basata sui diritti umani, l’inclusione, le responsabilità di chi ha maggiormente contribuito al riscaldamento globale; deve mettere al centro gli ultimi e le vittime, e deve incoraggiare e sostenere il cambiamento degli stili di vita, del modello di sviluppo e dei meccanismi iniqui di sfruttamento delle persone e delle risorse naturali.
Compromessi e delusioni nel documento finale
L’accordo raggiunto lascia comunque molti vuoti, qualche forte delusione e una certa distanza rispetto alle attese iniziali (riassunte nell’articolo pubblicato su Semprenews all’apertura della COP). In particolare, la presidenza brasiliana della COP30 non è riuscita a raccogliere il consenso trasversale necessario per inserire nel documento finale la proposta più ambiziosa rilanciata anche dal presidente Lula, ossia la previsione di una roadmap per l’abbandono dei combustibili fossili, la cui assenza indebolisce molto il risultato complessivo. C'erano infatti grandi aspettative da parte della società civile e di molti Stati, soprattutto sudamericani ed europei, che la decisione finale della COP30 includesse un riferimento esplicito all'eliminazione graduale dei combustibili fossili (ed una bozza di testo preliminare lo aveva addirittura temporaneamente incluso, salvo poi essere sostituito con un riferimento soltanto indiretto, citando la decisione della COP28 in cui si chiedeva la transizione dai combustibili fossili).
Roadmap fossili e deforestazione: un impegno parziale
Intorno a questa proposta si è comunque creata una convergenza di circa 80 Paesi che intendono procedere verso l’uscita dai combustibili fossili e rilanciarla in vista delle prossime COP, capitanati dalla Colombia che l’anno prossimo ospiterà la prima Conferenza internazionale sulla transizione giusta e l’abbandono dei combustibili fossili. È rimasta fuori dal documento finale anche la proposta di una roadmap per fermare e invertire la deforestazione, ma anche in questo caso 90 Paesi, incluso il Brasile che ne è stato il promotore, hanno già espresso l’intenzione di darvi comunque seguito con un percorso parallelo con gli Stati disposti a sostenerlo.
Il successo della COP30 si misurerà quindi anche dall’evoluzione di questi impegni volontari e programmi d’azione stabiliti al di fuori degli accordi negoziati, una strategia per aggirare l’opposizione degli Stati sponsor del petrolio, del gas e del carbone alle proposte più ambiziose come quella sui combustibili fossili, nonché per sollecitare un più adeguato supporto finanziario da parte dei Paesi economicamente più ricchi e storicamente responsabili della gran parte delle emissioni causa del riscaldamento globale.
Lo sforzo collettivo per la giustizia climatica
Con il consenso di tutti i 194 Stati presenti (il governo degli Stati Uniti non ha inviato nessun delegato in linea con la posizione negazionista sul clima di Donald Trump), il documento finale ha comunque rilanciato la centralità dell’Accordo di Parigi proponendo nuove iniziative (come il Global Implementation Accelerator e la Belém Mission to 1.5°C) per ridurre il divario troppo ampio tra gli insufficienti piani nazionali climatici esistenti e l’obiettivo di contenere l’aumento delle temperature entro la soglia critica di 1,5°C. Tra i passi avanti nel documento finale adottato ci sono quelli nell’ambito della finanza climatica, in particolare con l’impegno a triplicare i finanziamenti per l’adattamento (ma solo entro il 2035) e a rendere operativo il fondo per perdite e danni già concordato 2 anni fa. Il documento finale, inoltre, ha il merito di stabilire l’avvio di un nuovo meccanismo per la transizione giusta, di focalizzarsi anche sul rapporto tra politiche commerciali e azione per il clima, e di riconoscere la necessità di contrastare la disinformazione sul clima e promuovere l'integrità dell’informazione. Si tratta di progressi positivi anche se parziali e ancora insufficienti per rispondere adeguatamente alla crisi climatica e attuare gli impegni stabiliti.
La COP30 delle popolazioni indigene e della mobilitazione globale
Il senso di questo accordo, del processo per arrivarci e di tutta la COP30 si può sintetizzare con una parola originaria della lingua delle popolazioni indigene dell’Amazzonia Tupi-Guarani, mutirão, traducibile approssimativamente con «sforzo collettivo», «procedere insieme verso un obiettivo comune». L’espressione «Global mutirão» è stata scelta dalla Presidenza della COP30 come nome del documento principale contenente gli esiti e le decisioni scaurite dalle negoziazioni, ma è anche lo slogan usato a Belém per la mobilitazione per il clima da tutto il mondo e dai vari settori della società. Infatti, dopo 3 anni di COP svoltesi in Paesi con forti restrizioni e limitazioni alla libertà di espressione e manifestazione, la COP30 di Belém ha visto il ritorno in massa delle organizzazioni e delle reti della società civile, dei movimenti di base e delle organizzazioni religiose che hanno animato la sede della Conferenza e tutta la città di Belém, culminando con la grande Marcia dei Popoli in cui più di 40.000 persone si sono riunite per chiedere giustizia climatica e azioni incisive per scongiurare la crisi climatica. È stata anche la COP delle popolazioni indigene, con la flotilla di 200 imbarcazioni e 6.000 indigeni che ha attraversato i fiumi dell’Amazzonia per giungere a Belém nei giorni della Conferenza e chiedere il rispetto delle proprie terre, delle proprie tradizioni e dell’ecosistema in cui hanno sempre vissuto in armonia con la natura, ora minacciati dallo sfruttamento indiscriminato dell’ambiente e dall’impatto del riscaldamento globale.
[1] L’Accordo di Parigi è un trattato internazionale giuridicamente vincolante siglato nel 2015 che stabilisce l’impegno dei 195 Paesi firmatari a contenere a lungo termine l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della soglia di 2°C oltre i livelli pre-industriali, proseguendo gli sforzi per limitare tale incremento a 1,5°C.