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10 Febbraio 2022
Ultima modifica: 10 Febbraio 2022 ore 11:18

Carcere: ogni sbaglio si può riparare

Esperti a confronto per garantire la certezza del recupero.
Carcere: ogni sbaglio si può riparare
Come lo immaginiamo un carcere? E cosa intendiamo per giustizia e pena riparativa? Se ne è discusso il 5 febbraio all'incontro webinar della Scuola di Pace "P. Panzieri" di Pesaro.
Il 5 febbraio si è tenuto il primo incontro webinar- molto partecipato- della Scuola di Pace "P. Panzieri" di Pesaro su un tema di grande attenzione  ancora poco conosciuto dalla cittadinanza, e che ha posto profondi interrogativi sul Carcere e sull’idea che abbiamo di Giustizia. Hanno dialogato con i partecipanti Silvia Cecchi, magistrata e Sostituto procuratore presso il Tribunale di Pesaro e Giorgio Pieri, coordinatore nazionale del progetto CEC -Comunità educanti coi Carcerati della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Dal confronto sono emerse diverse domande importanti a cui i relatori hanno offerto una visione

Compito della giustizia è dare contenuti alla pena

Come si concilia una Giustizia che vuole rieducare e riparare con l’obbligatorietà dell’azione penale, cioè l’obbligo di sanzionare con una pena?

Silvia Cecchi: «L’obbligatorietà dell’azione penale è certamente compatibile con la riparazione. L’obbligatorietà, che è posta a garanzia dell’uguaglianza di fronte alla legge, riguarda l’attivazione del processo penale, dalla fase delle indagini fino all’affermazione (o esclusione) della responsabilità. La rieducazione mediante riparazione, condotte impegnative, responsabilizzazione e altre modalità di recupero, riguarda invece la risposta sanzionatoria alla accertata responsabilità, una volta che il procedimento abbia compiuto il suo percorso.  Semmai è la mediazione penale (pratica diversa dalla sanzione riparativa) che può interferire con il processo, in vario modo, ma anch’essa non esclude l’obbligatorietà dell’azione penale, salvo in casi di procedibilità a querela di parte. Compito della giustizia è quello di dare contenuti alla pena, offrire percorsi fortemente impegnativi, dare l’opportunità di sostituire la passività del carcere tradizionale con attività lavorative, relazioni significative, presa in carico di bisogni sociali e delle vittime».

Giorgio Pieri: «Nelle nostre Comunità coi carcerati (CEC) quando le persone entrano si sottopongono a patto educativo volontario sulla rieducazione, compiono un atto di responsabilità che supera, nel senso che si va oltre, l’obbligatorietà dell’azione penale. Con la scelta del patto si riassume la propria libertà. L’obbligo che noi come comunità chiediamo è il lavoro interiore. Se non vuoi farlo torni in carcere: la libertà è decidere di entrare o non entrare in un percorso educativo. Dobbiamo inoltre tenere presente che nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti e tutti sono necessari in questo percorso perché chi educa nella società non è solo la famiglia, anzi siamo molti, c’è la scuola, il vicinato, il quartiere, la parrocchia etc. etc. Le vittime dovrebbero poi avere un posto d’onore nella riparazione. Abbiamo visto che fare incontrare il reo con la sua vittima è molto difficile, ma ad esempio già questo incontro avviene con i reati derivanti dalla tossicodipendenza, nelle nostre comunità terapeutiche facciamo incontrare i figli rei coi genitori feriti.
È molto più impegnativo del carcere optare per il percorso che proponiamo, ci sono strumenti stringenti (regole e resoconti etc) affinchè i detenuti rivedano i loro vissuti e decodifichino i loro mali, le loro emozioni, i loro sentimenti e attuino il cambiamento. Si rende la pena utile. Come Paese e come cittadini dobbiamo decidere se la sofferenza della pena sia utile o un inutile passatempo».

Il carcere è una costosa inutilità!

Il carcere come deve evolvere? È davvero necessario? Dobbiamo “buttare la chiave”?

Silvia Cecchi: «Sono convinta che occorra una nuova filosofia e una nuova politica della sanzione penale, banco di prova della democraticità di un ordinamento. Un carcere che calpesta o non rispetta la dignità umana e diritti primari di ogni detenuto contraddice i presupposti di un ordinamento democratico. La pericolosità sociale, che deve essere dimostrata in concreto, in un sistema di giustizia costituzionalmente orientato, è a mio avviso l’unica legittimazione della restrizione carceraria, fermo restando che un carcere deve avere comunque e sempre dei requisiti strutturali e regolamentari rispettosi dei diritti della persona. Verso questa filosofia delle sanzioni alternative e dunque di una sanzione carceraria non più primaria, si muove la "riforma Cartabia" che, sia pure con gradualità, prevede l'applicazione, già da parte del giudice della cognizione, di sanzioni non carcerarie, derogando alla tuttora vigente logica della unicità della pena della reclusione.  Per quanto riguarda l’ammirevole lavoro realizzato, anche in misura imponente, da comunità come quella di Giorgio Pieri, ritengo che tuttavia le istanze di recupero e la profonda carità umana ad esse sottesa non possano bastare e debbano diventare diritti. Occorrono finanziamenti pubblici, investimenti dello Stato, capitoli dedicati di bilancio».

Giorgio Pieri: «Nelle carceri italiane 10 detenuti su 7 tornano in carcere, qualcuno dice che 8 su 10 tornano a delinquere, abbiamo l’80% di recidiva. Il personale degli istituti penitenziari, direttori polizia, tutti loro si impegnano e fanno grandi sforzi e alcuni di loro sono veri eroi, ma questo non toglie che l’istituzione carcere abbia oggettivamente fallito il suo mandato costituzionale. Col buttare la chiave non si va da nessuna parte. Bisognerebbe, se fosse un’azienda, scrivere chiuso per fallimento; e ci vogliono 3 mld per tenerla in piedi. Fuori abbiamo una guerra a bassa tensione; le persone che escono dal carcere più che redente, sono più arrabbiate di prima e secondo alcuni studi commettono reati ancora più gravi di prima. Se accettiamo questo carcere e diciamo che non c’è alternativa, accettiamo una guerra silenziosa.
Vi assicuro che molti detenuti dicono: “Esco e stavolta farò bene”, c’ è questo movimento dentro di loro, c’è il principio della lotta verso il bene, ma una volta usciti in questa lotta perdono, non ce la fanno e bastano pochi minuti e tutto si perde. Le persone vivono forti passioni di rabbia, ira, cose che da soli non riescono gestire. Alla radice del male c’è un mistero, ma nelle piaghe di un cuore ferito è lì che nasce il male. Anche il lavoro in sé per sé non è rieducativo, il lavoro è educativo solo se è inserito in contesto educativo. Noi tutti nella comunità esterna dovremmo sentire il compito di abbassare la recidiva. L’amico psichiatra Vittorino Andreoli disse che "il carcere è una costosa inutilità! Il male non si vince con il male". Istintivamente ci vien da dire butta la chiave ma dobbiamo rielaborare questo impulso vendicativo ed essere umani, diventare umani».

Carcere: all'offesa si risponde con un male di ritorno.

In conclusione quindi cosa fare?

Giorgio Pieri: «Ho provato a scrivere qualcosa nel mio libro Carcere: l'alternativa è possibile, Sempre Editore, di tutta la nostra esperienza con le Comunità Educanti. Siamo stati ispirati dal modello di carcere senza guardie dell’APAC brasiliano e abbiamo avviato la nostra esperienza alternativa adattandola al nostro contesto italiano. Abbiamo diverse case ma nonostante i risultati evidenti sotto il profilo anche della recidiva, non abbiamo sostegno istituzionale concreto anche economico; purtroppo questo, a nostro vedere, resta un grosso limite ed una grossa ingiustizia perché il valore di certe esperienze consolidate secondo il principio di sussidiarietà dovrebbe essere riconosciuto dallo Stato.
Nel nostro metodo abbiamo il coinvolgimento della comunità esterna ed i volontari sono veri "apostoli di pace". Conoscono i detenuti entrano nelle loro ferite. I recuperati educano i recuperandi, c’è formazione lavorativa, umana e spirituale, insomma è una grande scuola di pace con i familiari, i detenuti e la comunità esterna. Abbiamo visto grandi miracoli».

Silvia Cecchi: L’idea-guida è quella della eccedenza, della ulteriorità della persona rispetto all’atto criminale commesso: su questa non coincidenza fa leva la scommessa rieducativa degli autori di crimini, lievi o gravi che essi siano, fatta propria dalla Costituzione. Vi è poi l’idea della corresponsabilità sociale, della profonda iniquità di punire, con il condannato, anche la sua famiglia, i suoi figli, anche minori.
La transizione ad una concezione diversa della pena deve passare per una concezione relazionale della responsabilità, l’unica compatibile con un diritto penale dei beni e dell’offesa.  Il carcere è invece una sanzione che esprime una diversa forma-pensiero, difficile da estirpare culturalmente, per la quale all’offesa si risponde con un male di ritorno, con la punizione afflittiva, con la deprivazione, la retribuzione, la pena corporale (il carcere attuale è anche una pena corporale), la pena morale.
Per questo anche in molte proposte di riforma il carcere resta il convitato di pietra, a cui si deve fare ritorno ogni qualvolta il trattamento rieducativo fallisca o sembri fallire. Dobbiamo prendere atto che una visione alternativa della sanzione penale fatica tuttavia ad attecchire nella cultura e coscienza sociale. La questione culturale va messa dunque al primo posto. Del resto la sicurezza sociale non può che essere maggiormente tutelata da sanzioni rieducative, dall’idea che il detenuto uscirà dal percorso sanzionatorio migliore e non peggiore di come è entrato».