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12 Marzo 2021

Il giornalista Paolo Borrometi. «Perché la mafia mi teme»

Da sette anni il giornalista siciliano vive sotto scorta, solo per aver fatto il suo dovere: raccontare verità nascoste, per rendere la mafia meno invisibile. «Ho perso la libertà fisica, dice, ma non la libertà di pensiero e di parola».
Il giornalista Paolo Borrometi. «Perché la mafia mi teme»
Foto di ANSA/GIORGIO ONORATI
2 febbraio 2021. Operazione antimafia in Sicilia. Dalle intercettazioni ambientali emerge l'irritazione del boss nei confronti del giornalista per le sue inchieste.
«Ora tu capisti? T’affari i ca..i tuoi. U capisti?» gli urlavano in faccia i mafiosi, mentre lo massacravano di botte.  
Era il 16 aprile 2014 quando, appena uscito dalla sua casa di campagna, venne aggredito da due uomini incappucciati che gli ruppero la spalla in tre punti, rendendolo invalido al 20%. Aveva fatto domande scomode e scritto degli affari loro: se non la smetteva, quello era solo l’inizio.  E così è stato. 
È da allora che la mafia prova a far tacere Paolo Borrometi, all’epoca trentenne, solo per aver fatto il proprio dovere di giornalista,  ma lui non ha mai smesso di raccontare. 

Chi è Paolo Borrometi

Nato a Ragusa nel 1983 oggi, a 37 anni, è vice direttore dell’Agi, Agenzia Giornalistica Italia, direttore del quotidiano web La Spia, che ha fondato, collaboratore di TV2000 e presidente nazionale di Articolo 21. 
Fare il giornalista nel Sud Est siciliano, che erroneamente si pensa immune da infiltrazioni mafiose, può costare la vita. Su di lui pesa una condanna a morte da parte dei boss mafiosi, che da sette anni lo costringe a vivere sotto scorta e lo ha spinto a trasferirsi a Roma. 
Nel suo libro-inchiesta Un morto ogni tanto fa nomi e cognomi, smascherando gli affari sporchi di mafia e gli intrecci con la politica, che non riguardano solo la Sicilia – ci mette in guardia – ma tutta l’Italia: «Chi dice il contrario fa il loro gioco.»
Sue le inchieste che hanno portato allo scioglimento per infiltrazioni mafiose del comune di Scicli – la Vigata di Montalbano, dove era un netturbino a decidere le campagne elettorali – e del comune di Vittoria, in cui si trova il secondo mercato ortofrutticolo più importante del Sud Italia, con un giro d’affari di centinaia e centinaia milioni.
Ad ogni inchiesta seguono puntuali insulti e minacce sempre più incalzanti ed esplicite anche sui social, «mai concretizzate solo grazie al grande lavoro operato dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, con la stessa puntualità» scrive nel libro. 
Nel 2018 anche l’ultimo tentativo di far saltare lui e la sua scorta con un’autobomba è stato sventato. 
Ma sono arrivati anche tanti premi e riconoscimenti per il suo instancabile lavoro alla ricerca della verità, tra cui quello del Capo dello Stato Sergio Mattarella, che gli ha conferito l'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. 
Borrometi è giovane, gentile e disponibile, ancora capace di sognare. Non ha perso il sorriso anche se non nasconde di avere paura. «Spezzato, spaventato, ma io resto qui. Resisto ancora. Parlo. Scrivo. Vivo».
 
Paolo Borrometi riceve International Journalism Prize
9 giugno 2018. Paolo Borrometi riceve un Riconoscimento Speciale dal Procuratore Nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho, durante la XXXIX edizione dell'Ischia International Journalism Prize a Lacco Ameno, Isola d'Ischia. A destra La conduttrice televisiva Elisa Isoardi.
Foto di ANSA/CIRO FUSCO


Hai parlato di infiltrazioni mafiose nella provincia di Ragusa e Siracusa mettendo a repentaglio la tua vita. Cosa significa essere un cronista di queste periferie?
«Mi sono occupato e mi occupo da anni oramai di quel lembo di terra, perché è un territorio meraviglioso, produttivo. Eppure in quel territorio si è sempre detto che la mafia non esiste. Ma a Ragusa è stato ucciso (il 27 ottobre 1972 - ndr) un giornalista che si chiamava Giovanni Spampinato. Lui denunciava collusioni, presenze mafiose, trame eversive radicate da anni di silenzi, proprio in quel territorio. Io ho cercato di raccontarle, come qualsiasi giornalista deve fare. Facendo semplicemente il mio dovere, nulla di più. Le difficoltà sono enormi perché è la provincia più a Sud, molto lontana dai riflettori della grande stampa. A maggior ragione, raccontare diventa fondamentale.»

La vita sotto scorta di Paolo Borrometi 

La tua vita ha avuto un brusco cambiamento il 16 aprile 2014. Cos’è che ti ha fatto più male oltre alle conseguenze a livello fisico? 
«Le conseguenze sono ben impresse non solo nella mia mente ma anche nel fisico, vista quella menomazione permanente che mi porto dietro. La cosa che mi ha fatto e mi fa stare peggio è l’isolamento, la solitudine e il tentativo di screditare la mia persona, pensando così di screditare tutto quello che avevo scritto.» 

Ma non ci sono riusciti.
«Sfido chiunque a trovare un neo di illegalità nella mia vita. Temevo queste conseguenze, perché le conosco e sono sempre le medesime in quella terra di Sicilia e al Sud.  La vita di qualsiasi persona deve essere giudicata per quello che produce. Io ho scritto e fatto dei nomi e dei cognomi di persone fisiche, aziende, di politici, di mafiosi e voglio essere giudicato per quello e non per le minacce che ho ricevuto.»
 
La figura di Giovanni Spampinato è ancora poco conosciuta. Cosa ha significato per te? 
«L’incontro con la sua figura è avvenuto tra i banchi del Liceo classico Tommaso Campanella di Modica. Ce ne parlò per la prima volta la nostra professoressa. Sognai di fare il giornalista proprio grazie alla sua storia che conobbi quel giorno, che nessuno di noi conosceva, senza smettere di farmi domande, proprio come lui. Con la folle idea di ripercorrere le orme di giornalista libero.»

Paolo Borrometi e il giornalismo d'inchiesta 

Com’è cambiato da allora il giornalismo investigativo?
«Il giornalismo d’inchiesta deve stare al passo con i tempi. Quello che è cambiato oggi è il mezzo. È più semplice accedere ai documenti, più di quanto fosse all’epoca, però c’è un filo conduttore che lo collega negli anni: lo studio, l’approfondimento e la passione. Quando parlo a scuola ai ragazzi mi chiedono: “Che cos’è il giornalismo d’inchiesta?”. È studiare, analizzare, comprendere. È raccontare una notizia dai tanti punti di vista. Scavare per capire meglio i fatti.» 

Paolo Borrometi ricevuto da Papa Francesco
Città del Vaticano, 29 aprile 2018. Paolo Borrometi ricevuto da Papa Francesco.
Foto di ANSA


Nella notte tra il 24 e 25 agosto 2014 hanno persino tentato di dar fuoco alla tua casa. Come sono andate le cose?
«Ero a casa con i miei genitori e diedero fuoco alla mia abitazione mettendo del liquido infiammabile sulla porta, che venne completamente bruciata nella parte esterna. Quella notte scoprimmo che la porta era anche ignifuga. L’anima d’acciaio della blindatura aveva permesso alle fiamme di non propagarsi all’interno dell’abitazione. Fu un bruttissimo episodio a cui ho pensato più volte. Non stavano colpendo solo me, ma anche i miei genitori e mi sentivo responsabile.»
 
Ma tu hai continuato a scrivere e raccontare i fatti. Chi te lo fa fare? 
«Ho fatto semplicemente il mio lavoro, come fanno molti in questo Paese. Se vedi una persona che si sta buttando giù, allora scali il grattacielo per salvarla. Io non ho fatto nulla di eroico nella mia vita, ho fatto semplicemente il mio dovere. “Chi te lo fa fare?” una domanda che non amo, perché questo è diventato il Paese in cui quando fai il tuo dovere diventi un eroe, un simbolo, un modello e invece non è così. Questo Paese non ha bisogno di eroi ma di cittadini che facciano il loro dovere. »

 Paolo Borrometi non sta zitto

«La vita sotto scorta è un inferno», scrivi nel libro. Eppure c’è qualcuno che pensa sia un privilegio. 
«È una delle cose che mi fa imbestialire. La vita sotto scorta non è assolutamente un privilegio, non capisco come possa esserlo. Sono gli inquirenti e i processi ad aver stabilito come le minacce che ho ricevuto, purtroppo, fossero drammaticamente concrete. Ho 5 persone di scorta, sono gli angeli che abitano questo inferno con me, e che devo ringraziare. Non so come possa essere un privilegio vivere lontano dalla Sicilia, dagli amici. Il dover programmare tutto: se dimentichi una medicina, o se un amico ti invita a cena all’ultimo minuto e sei già ritornato a casa e avevi detto che non uscivi, non lo puoi più fare. Sono privazioni enormi della libertà, ma io cerco sempre di guardare il bicchiere mezzo pieno, altrimenti non sarei riuscito a sopravvivere sette anni a questa condizione. Ho perso la libertà fisica, ma ho preservato la mia libertà di pensiero, di parola e di fare, appunto, il mio dovere.»

Paolo Borrometi con la sua scorta
Roma, 17 aprile 2018. Paolo Borrometi, protetto dalla sua scorta, durante il presidio dei giornalisti italiani a piazzale Clodio contro l'archiviazione delle indagini sull'omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. L'omicidio della giornalista del Tg3 e dell'operatore avvenne il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, in Somalia.
Foto di ANSA/Massimo Percossi


Com’è adesso la tua vita?
«È una vita complessa, segnata, ma è un vita in cui continuo a fare semplicemente il mio dovere e lo faccio con la stessa intensità di sogni, di passione che avevo quando, quella mattina a scuola, si parlava di Giovanni Spampinato. Quella stessa passione di chi non vuole che la propria vita sia decisa da altri. Troppe volte ho incontrato sulla mia strada persone rassegnate. Papa Francesco ci ha messo in guardia dal male della  rassegnazione dell’indifferenza. Io cerco di non essere indifferente nei confronti della mia terra, dei miei cittadini conterranei, e cerco di non rassegnarmi all’ineluttabilità della vita.  Se ognuno di noi si impegna può fare qualcosa. Un altro grande uomo di fede (don Milani – ndr) ha detto: “A cosa serve avere le mani pulite se poi si lasciano in tasca?”. Io ho tentato semplicemente di sporcarle.»
 
Dove trovi questa forza, dipende dalla fede?
«La fede è un qualcosa di molto intimo della quale ho parlato sempre pochissimo. Penso che la fede non vada predicata ma praticata. Usando una metafora, è una scialuppa in tante notti di solitudine e per me è stata fondamentale.»
 
«La mafia teme la scuola più della giustizia, l’istruzione toglie erba sotto i piedi della cultura mafiosa» diceva Antonino Caponnetto. Tu che dialoghi con tanti ragazzi nelle scuole, cosa racconti loro? 
«Più che raccontare tento di confrontarmi con loro. Ed è un arricchimento soprattutto per me. Questi ragazzi sanno molte cose, ma di alcune vanno informati. Va spiegato cosa sia la mafia. Paolo Borsellino diceva: “Parlate di mafia, in radio, in televisione, ma parlatene”. E io cerco di fargliela comprendere, invitandoli a non arrendersi, a sognare. Il potere dei sogni è il potere opposto alla rassegnazione. È questo che cerco di trasmettere loro.»

Perché hai chiamato la tua testata giornalistica on line La Spia? Una provocazione? 
«È una provocazione non tanto nei confronti dei mafiosi, che pure mi definivano “sbirro” o “spione”, ma nei confronti degli altri, le persone che secondo i mafiosi fanno bene il loro dovere. La figlia del capomafia di Vittoria, oggi condannato con sentenza di primo e secondo grado per minacce di morte nei miei confronti, mi disse: “Non capiamo perché non fai il tuo lavoro come tutti gli altri, sei uno spione, uno sbirro”. È più faticoso, ma è più bello.».