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26 Febbraio 2022
Ultima modifica: 26 Febbraio 2022 ore 13:08

Chi pagherà per le bombe di Putin?

Alberto Capannini, di Operazione Colomba, analizza l'attacco della Russia all'Ucraina e dice: «I siriani sapevano che sarebbe successo».
Chi pagherà per le bombe di Putin?
Foto di Operazione Colomba
Da 30 anni si occupa di conflitti, vivendoli dal punto di vista delle vittime. L'intervista dal campo profughi di Tel Abbas: «Qui la diplomazia di Putin la conoscono attraverso i bombardamenti. Lasciare proseguire per anni il conflitto in Siria ha aperto spazi di irresponsabilità e impunità che non hanno confini».
La guerra può essere vista da due prospettive: dall’alto, quella di chi lancia le bombe e si chiede quali obiettivi sia più utile colpire, e dal basso, quella di chi le bombe le vede arrivare e si chiede se stavolta toccherà a lui.
Alberto Capannini la vede dal basso, e la sua non è solo una scelta etica ma anche fisica, logistica. Per questo, quando lo contattiamo in quanto esperto di conflitti lui si schermisce: «Più che un esperto mi ritengo uno che ha un punto di vista, quello delle vittime».
Si collega alla nostra redazione con una videochiamata dal campo di Tel Abbas, in Libano.

Da tre settimane si trova tra i profughi siriani, a 5 km dal confine con la Siria, martoriata da 11 anni di guerra. Per lui non è un fatto straordinario trovarsi in un luogo come questo. Il suo impegno a fianco delle vittime, da entrambi i lati del fronte, parte da lontano, dal 1991 quando scoppiò il conflitto nei Balcani e l’Europa si trovò improvvisamente a constatare che le assurdità e gli orrori della guerra sperimentata nei due conflitti mondiali non erano banditi per sempre dai suoi confini; che dietro il pretesto di questioni etniche (in quel caso tra Serbi e Croati), di rispetto delle minoranze, di fasce di terra contese tra Stati – una storia che si ripete ad ogni guerra – si celavano ambizioni personali e interessi economici disposti a sacrificare migliaia di vittime innocenti, separando come nemici persone e famiglie che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente.
Fu in quella occasione che, con la benedizione di don Oreste Benzi, partì la prima missione di Operazione Colomba, il corpo civile non violento promosso dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per intervenire nelle zone di conflitto. Da allora centinaia di giovani hanno collaborato alle diverse missioni in giro per il mondo, donando periodi più o meno lunghi della loro vita. Lui, Capannini – nome di battaglia (si fa per dire) Kappa – è rimasto uno di quei giovani, e nonostante nel frattempo abbia messo su famiglia, quando c’è bisogno è sempre disposto a lasciare la sua pacifica e accogliente terra romagnola per andare in prima linea, perché è convinto che la via della nonviolenza sia l’unica veramente efficace.
 
Anche ora, Kappa, che cadono le bombe?
«Sì, anche ora, ma il risultato che ci possiamo attendere non è immediato. Per rompere un orologio basta un bambino inconsapevole che lo colpisca con un colpo di martello. Per ricostruirlo serve competenza e pazienza. Ma alla fine il risultato è ben diverso.»

Le radici della guerra 

Che percezione c’è del conflitto tra Russia e Ucraina lì dove ti trovi adesso?
«In Europa l’attacco di Putin ha stupito, qui tra i siriani del campo no. Loro conoscono la diplomazia di Putin attraverso i bombardamenti che hanno subito da parte della Russia a partire dal 2015. Sanno di che cosa è capace e sapevano che avrebbe attaccato.»
 
C’è qualche relazione tra la guerra in Siria e quella in Ucraina?
«Non c’è un legame territoriale ma esiste una correlazione. Il fatto che un conflitto come quello in Siria - con coinvolgimento diretto di vari Stati, che ha visto innumerevoli vittime civili e bombardare perfino alcune scuole - sia potuto proseguire indisturbato per anni, tranne qualche debole protesta, ha aperto degli spazi di irresponsabilità e di impunità che non hanno confini.»
 
Ti sei fatto un’idea del perché Putin abbia preso una decisione così grave e perché proprio adesso?
«Ho letto il suo discorso in cui risale alle origini storiche della Russia. È un discorso già sentito e per certi versi paradossale, perché se dovessimo riportare la storia dei popoli indietro di secoli diventa complicato, e anche i discendenti dei Longobardi o degli Unni potrebbero avere delle rivendicazioni da avanzare. In ogni caso non si può certo usarlo come pretesto per invadere un altro Paese. Che ci siano difficoltà di convivenza è possibile ma che queste difficoltà vengano risolte con dei bombardamenti io credo che non si possa più accettare.»

In arrivo dai 2 ai 4 milioni di profughi

Di fatto però i bombardameni sono cominciati
«Io sto guardando la situazione dal punto di vista dei dieci milioni di profughi scappati dalla Siria. Nei Paesi che stanno intorno all’Ucraina si prevede che arrivino in breve tempo dai 2 ai 4 milioni di profughi. Guerra è un termine generico. A me piace la definizione di don Milani che vede la guerra come una macchina che produce orfani e vedove.»

La migliore soluzione ai conflitti è quella che li previene. Si sarebbe potuto fare?
«Tutte le guerre, ma in particolare quelle di oggi, sono fondate su una montagna di bugie. La regola numero uno è cercare di capire cosa sta realmente succedendo e non fidarsi di quello che viene detto. Basti pensare che la Russia dopo anni di bombardamenti in Siria nega tuttora di aver colpito obiettivi civili, mentre chi li ha subiti lo può testimoniare: ci sono proiettili, foto, video, tantissime prove. Il secondo aspetto, per quanto riguarda la prevenzione, è che quando si lascia proseguire una situazione come quella in Siria, considerata la peggior crisi politico-militare dopo la seconda guerra mondiale, senza dare nessuna risposta – e non intendo una risposta insufficiente o sbagliata, ma proprio nessuna risposta da parte delle istituzioni internazionali – implicitamente si accetta quello che verrà dopo. Si avvalla l’idea che tanto l’Europa non farà niente.»

Che effetto avranno le sanzioni economiche

Gli Usa e l’Europa ora all’unanimità condannano l’aggressione e dichiarano di voler rispondere con fermezza. L’opzione militare resta esclusa e si ricorre alle sanzioni, come vedi questa soluzione?
«Di solito le sanzioni economiche colpiscono le persone e non i governi. La Siria ad esempio è diventata un Paese poverissimo e le sanzioni imposte dagli USA spesso vengono usate da chi sostiene il governo per attribuire alle sanzioni stesse la causa del malessere, anche se sappiamo che non è così.»
 
La Russia però è un Paese ben diverso dalla Siria
«In Russia Putin ha instaurato un regime basato sul culto della personalità. Non si farà intimidire dalle sanzioni, ma potrebbe essere utile toccare i soldi dei gruppi di potere, degli oligarchi russi che hanno utilizzato questo sistema per fare dei soldi, togliendo sostegno a questo regime.»

L'appello: non basta dire no alla guerra

Ci sono altre strade che si potrebbero percorrere? Cosa suggerisce la strategia nonviolenta?
«Io la nonviolenza la vedo come un’azione di ricostruzione. Ma mentre per distruggere basta poco – come dicevo con l’esempio dell’orologio – per costruire serve competenza. Chi sta guidando oggi questa società? Abbiamo dato delle responsabilità a persone che non sanno gestirle. Vivendo in un campo profughi vedo quanto sia difficile ricostruire la vita di queste persone che hanno subito ogni sorta di violenza e privazione. Decidere di scatenare una guerra vuol dire dare il via a migliaia di morti, milioni di profughi, con conseguenze che richiederanno anni e anni di lavoro e anche risorse economiche per ricostruire. Nessuno ha diritto di scatenare una guerra senza pagarne le conseguenze.»
 
Come Operazione Colomba avete lanciato un appello
«Si trova sul sito ministerodellapace.org e dice, appunto, che nessuno ha il diritto di fare la guerra. L’abbiamo scritto con quelle persone che in Paesi come la Siria, il Libano, la Palestina,  la Colombia, dedicano la loro vita a ricostruire quello che la violenza ha distrutto. Chiediamo non solo di firmare ma anche di dare una disponibilità, ognuno per quello che può, non solo partire per le zone di conflitto ma anche organizzare momenti di sensibilizzazione, o favorire l’accoglienza dei profughi. Dire no alla guerra non serve se non è accompagnato da un impegno personale. E non è solo contro la guerra di Puntin ma contro qualsiasi guerra. È un cambiamento che vogliamo costruire per noi ma anche per i nostri figli.»