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28 Giugno 2019

Come dovrebbe essere un prete

Settanta anni fa, il 29 giugno del 1949, un giovane di nome Oreste Benzi celebrava la sua prima messa. Ecco come vedeva lui la figura del sacerdote.
Come dovrebbe essere un prete
È stato definito il prete dalla tonaca lisa e infaticabile apostolo della carità. Ma qual era la sua visione del sacerdozio? Don Benzi lo ha spiegato in un convegno organizzato dal Movimento Apostolico Ciechi a Rocca di Papa dal 28 al 31 agosto 1990 intervenendo sul tema: «La missione del prete in una Chiesa chiamata a testimoniare la carità». Parole che oggi appaiono quanto mai attuali e profetiche.
Qual è la missione di un prete nella Chiesa chiamata a vivere la carità? Io ho trovato sempre molto forte quello che dice Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Io conosco le mie pecorelle e le mie pecorelle conoscono me». Quelle parole contengono il segreto del modo di rapportarsi con gli uomini ed in particolare con i battezzati. 
C'è un'intelligenza che viene dall'amore: tante cose si capiscono con l'intelligenza, ma se non c'è amore, quell'intelligenza è più scienza che sapienza: la sapienza viene dall'amore. 

Il sacerdote specialista dell'amore.

Il primo problema di ogni prete è la fede, ma in ordine operativo – come dice S. Agostino – il primo problema è l'amore, è perdersi per generare vita. Uno per te esiste nella misura in cui tu lo conosci; per quanto non lo conosci, lui non esiste. Tu per gli altri esisti nella misura in cui sei conosciuto; nella misura in cui tu non sei conosciuto non esisti. Ogni uomo è dono, ha in sé potenzialità enormi, è una parola irripetibile di Dio. Ma questo dono non è tale fino a quando non c'è qualcuno che lo accolga, e il primo che deve accogliere tutto come dono è il pastore del gregge, lui che presiede alla carità. Se tutta la Chiesa è carità, è amore, il prete è lo specialista della carità, dell’amore. 
Credo che al prete perdonino tante colpe; la gente però non riesce a perdonargli quando non ama.
Ritengo che su una cosa non si possa mai fingere, nonostante tutte le maschere che possiamo avere, ed è sull'amore, perché l'altro sente se tu non lo ami; e se l'amore non l'hai dentro di te, tutt'al più ti comporterai con il galateo di monsignor Della Casa che alla fine, però, fa vomitare. Se tu invece ami non hai bisogno di galateo, perché il galateo verrà fuori dall'amore.

Anche i nomadi sono tuoi parrocchiani.

Un altro stimolo molto importante mi è fornito dalla prima lettera ai Tessalonicesi, capitolo 2: «Io avrei voluto darvi non solo il Vangelo, ma anche la vita perché mi siete divenuti cari».
A me è capitato spesso di sbrigare le persone come pratiche sociali, di difendermi da loro e liberarmi anche senza far brutta figura, sembrando anche un prete buono: ognuno di noi ha una sua figura da difendere e questo, forse, è anche un mezzo per sopravvivere a livello psicologico.
San Paolo dice: «Tu mi sei divenuto caro». Quando l'altro ti è divenuto caro, capisci che ti senti cieco in chi è cieco, ma più di tutto ti senti buttato via con chi è cieco, ti senti affamato nello stomaco di chi ha fame, ti senti disprezzato in chi è disprezzato, ti senti reagire dentro di fronte a chi è colpito dall'ingiustizia.
Tutti i nomadi che vengono nella tua parrocchia, anche se si fermano per ventiquattro ore, sono tuoi parrocchiani.
Sono persuaso che tante distanze siano dovute soltanto ad una distanza di conoscenza e di amore. 
Noi, a Rimini, tutte le sere andiamo alla stazione ad accogliere coloro che non sanno dove andare a dormire: i barboni, gli sbandati, e li portiamo in una casa chiamata: “Capanna di Betlemme”. All'inizio credevo che il non saper dove andare a dormire fosse la sofferenza più grande; ma non è vero: un posto lo trovano sempre, nei vagoni di un treno, sotto un ponte o nelle baracche... Anche il mangiare: mai un barbone è morto di fame, trova sempre il necessario per sopravvivere. La sofferenza più grossa per loro è quella di non essere considerati da nessuno. 
Non dobbiamo essere prigionieri di schemi mentali che ci siamo fabbricati: sono tutte difese che proteggono le caste. Anche noi possiamo essere una casta protetta da schemi che ci siamo costruiti attraverso i secoli e che ci sono diventati comodi. 

Come ho iniziato il cammino con i poveri.

All'inizio, quando la gente veniva, la mandavo via perché cre­devo che altri se ne dovessero occupare. Un giorno ho capito che mandandoli via, gli altri continuavano ad avere bisogno. Allora ero io che dovevo mettere in discussione le mie sicurezze, perché se io non le mettevo in discussione, l'altro continuava ad avere bisogno. 
Un povero non è una figura ideale: è un uomo come tutti gli altri che vive in condizioni particolari in cui l'abbiamo posto noi come società o in cui lui si è lasciato porre. Molte volte la responsabilità è sua, ma il più delle volte è nostra.
A volte si incontrano poveri che sono talmente convinti di essere nulla che sembra quasi ti chiedano scusa di esistere. Io ne ho incontrati pochi, ma uno mi ha schiantato. Una sera alla stazione vedo un uomo: si vedeva che soffriva. Allora mi sono accostato e prima di tutto lui si è meravigliato che qualcuno si accostasse a lui. Da quattordici anni era sulla strada e da un anno e mezzo aveva subito un'operazione all'intestino. Uscito dall'ospedale chi lo aspettava? La strada. Quando io mi sono avvicinato, non mi ha parlato, ma semplicemente mi ha guardato come se mi volesse dire: «Ma chi sono io perché tu venga da me?»
Non so lo avete mai provato, ma in questi casi io mi sento un niente, ho voglia di cadere in ginocchio e chiedere perdono. C'è tutta una giustizia da realizzare in questa società. Sarà bello quando non ci saranno più mense per i poveri. La mensa dei poveri è la mensa di quelli che tu fai essere poveri. 

Una vita senza schemi.

Io credo che la vita del prete sia una vita perduta, senza schemi: l'amore non ha schemi. 
Se non abbiamo il cuore pieno d'amore, i convegni pastorali a cui partecipiamo ci danno solo dei principi di scienza, ma l'informazione non è formazione, è una componente della formazione. La formazione è quando tu paghi di persona, quando ci sei dentro fino al collo, ed allora ti vengono in mente tutte le cose che ti sono state dette nei convegni di studio.
Esistono scuole di teologia molto valide, ma bisognerebbe fare sei mesi di studio e sei mesi di condivisione, altrimenti queste scuole non servono.
La vita è qui: «Mi sei divenuto caro», «Ti ho dentro al cuore», questo è il motore che accende tutto.

Perché i giovani non vanno in chiesa.

La presenza dei fedeli nelle parrocchie è molto bassa, i giovani che vanno in Chiesa arrivano al 5‑10%. I fatti dicono che dobbiamo evolverci, aprirci come mentalità, svecchiarci.
Perché i giovani non vanno più in chiesa? Perché non trovano il modo di vivere. Credo che nel mondo dei giovani ci sia una forte domanda di vita.
I giovani oggi non si riuniscono più attorno a sigle di carattere ideologico. Invece tutti i movimenti che hanno una concretezza di vita si stanno sviluppando rapidamente perché i giovani vi trovano la vita.
Nel mondo della tossicodipendenza vediamo che i problemi provengono dai grossi interrogativi che il minore si pone dai dieci ai diciotto anni e che non sono stati risolti. Si tratta di interrogativi attorno al mistero.
I giovani hanno il bisogno di incontrarsi con il mistero. Quando noi dimostriamo con troppa chiarezza chi è Dio è il momento in cui i giovani lo perdono.
Quest'anno nelle nostre strutture (case famiglia, cooperative, aziende agricole, soggiorni di vacanza) c'è stato un forte afflusso di giovani provenienti da ogni parte a trascorrere un periodo di dieci/quindici giorni di vacanze alternative. Vengono per noi? No, perchéstando vicino a noi vedono subito i nostri limiti. Allora per chi vengono? Per i poveri? Io credo di no, perché a lungo andare ci si stanca anche dei poveri. E allora qual è il vero motivo per cui vengono?
Io ritengo che quando c'è una condivisione di vita 24 ore su 24 e l'altro entra dentro la tua vita, per mezzo di questa condivisione di vita si crea una condizione molto favorevole alla rivelazione di Dio. Tanti giovani vengono perché hanno sete di Dio e questa condivisione di vita crea una particolare presenza e rivelazione di Dio: i poveri sono i rivelatori di Dio.

La carità non si può delegare.

Tutti i cristiani sono affidati al prete, ma in modo particolare lo sono i poveri e quindi il prete non può mai delegare ad altri la carità, l'amore verso di loro: la sua famiglia è la famiglia dei poveri, dei disperati, dei disgraziati.
Io ho notato che se il prete sta con i poveri, ti capiscono anche i ricchi, ma se tu stai con i ricchi non ti capiscono né i ricchiné i poveri. 
La Chiesa si presenta come famiglia, ma che famiglia è se non si accorge che c'è qualcuno che non riesce a mangiare mentre tutti gli altri banchettano tranquillamente?Tu non puoi dire: «Io lavoro per loro», tu devi essere con loro.
Per me la conclusione di tutto ciò è questa: vita vissuta con il povero uguale a vita vissuta alla presenza di Dio. 
Credo che la vita del prete sia questa: ogni volta che torni a casa, vai a riferire al Signore come sono andate le cose, ed ogni volta che esci dalla chiesa vai a riferire ai fratelli qual è il cammino con il Signore. 

Se si ama saltano le regole.

Non ci si può però limitare a mettere la propria spalla sotto la croce del fratello e dire: «Non sei più solo, guarda, siamo insieme», ma bisogna anche dire a chi fabbrica le croci che la smetta di fabbricarle. Tu non puoi dare da mangiare all'affamato e nel medesimo tempo andare allegramente a braccetto con chi affama. Bisogna rimuovere le cause che producono il male, come è stato ribadito da Paolo VI: «Non puoi dare per carità ciò che devi dare per giustizia».
Io ho partecipato a ben sette occupazioni. È indispensabile agire in comunione con il proprio vescovo. 
A chi mi ha chiesto se ho mai trovato difficoltà con il mio vescovo io rispondo: chi ti può impedire di amare? Chi ti può impedire di sacrificarti? Qual è il vescovo che ti impedirà mai di essere povero e vicino ai poveri e fare il loro cammino? Chi ti impedirà di pregare? Chi ti impedirà mai di consumare la tua vita per loro?
Se si va fuori dalla vera dottrina, è giusto che intervengano, ma sul piano della povertà, dell’accoglienza, del dono di te, chi ti può impedire di fare questo?
La Chiesa ha bisogno di questo, non ha bisogno di discussioni. 
Il Cardinal Journet diceva che quanto più prolifica il diritto tanto più si spegne l’amore. È un indice: quante più regole si fanno, tanto più vuol dire che si litiga. Perciò: quanto più si ama, tanto più le regole salteranno per aria perché il cristianesimo non è un insieme di idee ma è una persona, Gesù Cristo!

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Sintesi del testo a cura di Alessio Zamboni.
Per approfondire la conoscenza di don Benzi e del suo pensiero vai al sito www.fondazionedonorestebenzi.org.