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13 Novembre 2025

Danimarca: social vietati ai minori di 15 anni?

I commenti sulla proposta danese per proteggere la salute mentale dei giovani
Danimarca: social vietati ai minori di 15 anni?
Foto di Mirko Sajkov da Pixabay
La Danimarca propone di vietare l'uso dei social network ai minori di 15 anni, un'iniziativa che ha suscitato dibattiti in Europa. Lilit Boninsegni, esperta in comunicazione e media, discute l'importanza di un approccio inclusivo che coinvolga genitori, ragazzi e istituzioni. La sfida è costruire una cultura digitale consapevole, dove la tecnologia sia usata in modo equilibrato e responsabile.

Durante l’apertura del nuovo anno parlamentare, la premier danese Mette Frederiksen ha presentato un’iniziativa destinata a suscitare un ampio dibattito: vietare l’uso dei social network ai minori di 15 anni. La Danimarca si unisce così a Paesi come Norvegia e Australia, che stanno già discutendo misure simili per proteggere la salute mentale dei giovani.
La proposta di legge è ancora in una fase iniziale e non sono stati definiti i dettagli pratici: non si sa come sarà controllato il rispetto del divieto né quali piattaforme saranno coinvolte. L’unica ipotesi finora emersa è che i ragazzi dai 13 ai 15 anni potrebbero accedere ai social solo con l’autorizzazione dei genitori. Frederiksen ha chiarito che l’obiettivo non è proibire tutto, ma ripristinare un equilibrio: rendere le piattaforme più responsabili del tempo trascorso dagli utenti, dei contenuti mostrati e del loro impatto emotivo. Se necessario, ha aggiunto, saranno introdotti limiti legali e strumenti tecnologici per tutelare i più giovani.
Resta però aperta la domanda: una legge può davvero bastare per proteggere bambini e adolescenti? Quale ruolo possono avere i genitori in questo cambiamento?

Lilit Boninsegni
Cerchiamo di rispondere a questa domanda attraverso l’intervista a Lilit Boninsegni, esperta in comunicazione, media e culture giovanili, ha lavorato sia in Italia che all’estero. Attualmente è attiva nel settore della comunicazione per il mondo della moda, vive a Firenze e ha cofondato Generazione Universo, un’associazione impegnata nella promozione di soluzioni creative per il cambiamento sociale, nel supporto ai giovani nell’uso consapevole dei media, con particolare attenzione ai diritti e all’educazione digitale delle nuove generazioni e all’empowerment intergenerazionale. Madre di una bambina di quattro anni, ha scelto di approfondire con particolare sensibilità i temi legati all’impatto digitale sull’infanzia e sull’adolescenza. Lilit è co-leader del gruppo “Smartphone Free Childhood Italia” e parte del coordinamento internazionale di SFC europeo. Negli ultimi anni ha dialogato con numerosi genitori, educatori e professionisti per favorire una riflessione condivisa sull’uso delle tecnologie tra i più giovani.
A livello europeo, collabora con i rappresentanti di SFC Europa per mettere in rete esperienze e strategie dei diversi Paesi, definendo obiettivi comuni e promuovendo campagne di sensibilizzazione. Il suo impegno è rivolto a rafforzare la consapevolezza pubblica, stimolare azioni concrete di tutela e coinvolgere attivamente i giovani, condividendo strumenti e buone pratiche per costruire una cultura digitale più sana, creativa e responsabile.
Smartphone Free Childhood Italia è un gruppo di più di 500 genitori ed educatori sparsi in tutta Italia, uniti per creare un hub nazionale e locale per supportare un uso informato e creativo del digitale, per aiutare nella fase di accompagnamento dei figli ai media e alla tecnologia, a partire dalla più piccola comunità esistente: la famiglia, che entra in relazione con la comunità locale.

Cosa pensa della proposta della Danimarca?

«La proposta danese di limitare l’accesso ai social media per i minori di 15 anni nasce da un intento condivisibile: proteggere i più giovani dagli effetti dannosi di un’esposizione prolungata ai social network. Tuttavia, una buona decisione dovrebbe essere costruita in modo più informato e partecipato, andando oltre la logica del semplice divieto. Serve un approccio inclusivo, che coinvolga genitori, ragazzi e istituzioni in modo più concreto e prolungato durante il processo, rispetto a quanto già messo in atto, e forse darebbe frutti differenti rispetto ad un generalizzato divieto. Il genitore non può essere lasciato solo di fronte a un tema tanto complesso: è necessario fornirgli strumenti, competenze e sostegno per accompagnare i figli in un percorso di crescita digitale più consapevole. Al momento non è ancora chiaro quali piattaforme verrebbero effettivamente vietate, ma ciò che conta è il metodo: le politiche di tutela dovrebbero nascere da un dialogo aperto con la società civile, magari attraverso tavoli realmente partecipativi che uniscano cittadini, giovani e genitori, esperti e rappresentanti del mondo educativo e soprattutto affrontino, proponendo soluzioni adeguate, il problema alla radice: perché i genitori sono soli? Perché ai bambini riesce così divertente e facile socializzare ed accedere al digitale in età precoce? Infine, resta una riflessione rilevante: un mondo dove i bambini non accedono al digitale, è davvero possibile, quando tutti gli adulti continuano ad averne accesso?
Un esempio positivo arriva dall’Unione Europea (Better Internet For Kids, applicato in Italia con “Generazioni Connesse”), che in alcuni progetti ha sperimentato consultazioni dirette con bambini e genitori, dando voce a chi vive ogni giorno le sfide dell’educazione digitale. Questi progetti dovrebbero divenire più inclusivi, e costituire una priorità.
In questo senso, l’obiettivo non è solo posticipare l’accesso dei giovani ai social o agli smartphone, ma costruire insieme un ambiente di supporto, dove le famiglie non si sentano isolate. Le vere “periferie esistenziali” oggi non si trovano lontano da noi, ma nelle nostre case, tra genitori disorientati e figli in cerca di equilibrio nel mondo digitale».

Ritiene che un divieto simile sarebbe utile anche in Italia?

«Un eventuale divieto dovrebbe essere il risultato di un percorso ampio e condiviso, non una misura isolata. È necessario affiancarlo ad azioni concrete di supporto alle famiglie, affinché genitori e figli possano comprendere, scegliere e agire in modo consapevole.
Il cambiamento, infatti, deve avvenire su due livelli complementari: da un lato quello sociale, che coinvolge la comunità e la vita quotidiana delle famiglie; dall’altro quello istituzionale, che deve promuovere politiche partecipate e strumenti di accompagnamento.
La tecnologia, d’altra parte, non è un nemico, ma uno strumento potente che, se usato con consapevolezza, può offrire opportunità».

Quali aspetti positivi o criticità vede in un divieto generalizzato per i ragazzi?

«L’idea di introdurre un divieto per proteggere i più giovani dall’esposizione precoce ai social media parte da un intento positivo, ma la vera sfida è capire come costruirlo e attuarlo in modo efficace. Una misura di questo tipo deve essere accompagnata da strumenti concreti, percorsi educativi e spazi di confronto, per evitare che, pur con buone intenzioni, finisca per creare nuovi rischi o diseguaglianze.
Occorre quindi un processo partecipato, che coinvolga genitori, scuole, comunità locali e istituzioni. Formare tavoli di lavoro e confronto che possono dare vita a strumenti accessibili e concreti, veloci e applicabili da subito nelle realtà locali, è un passo possibile e fondamentale per prendere decisioni più informate e condivise, in grado di accompagnare davvero le famiglie nel tempo.
Un esempio concreto arriva dal gruppo Smartphone Free Childhood Italia, che sta avviando un progetto a Lucca in collaborazione con una scuola media. Qui la comunità locale sta progettando una tavola rotonda che riunisca studenti, genitori, insegnanti e professionisti della comunicazione per discutere del rapporto tra giovani e digitale, condividere le problematiche e insieme stabilire in che direzione andare. Da questo confronto scaturisce l’idea di creare gruppi autogestiti di formazione e dialogo nelle scuole, supportati da materiali e strumenti pensati per essere utilizzati all’interno della comunità. Diverse altre città si stanno muovendo in questa direzione mettendo in campo la loro creatività e sensibilità, non applicando quindi un metodo “infallibile” ma dialogando e confrontandosi con la community.
L’approccio si fonda sul coinvolgimento diretto dei genitori, che in relazione al contesto territoriale in cui operano, promuovono iniziative locali in collaborazione con le scuole. Un modello basato su co-creazione, partecipazione e formazione all’uso responsabile della tecnologia. L’obiettivo è costruire una cultura digitale più consapevole e condivisa, dove la tecnologia non venga demonizzata ma utilizzata in modo equilibrato ed educativo.
Per favorire questo processo, il gruppo SFC ha realizzato un vademecum pratico e accessibile, pensato per fornire ai genitori informazioni chiare e strumenti semplici da applicare. Il passo successivo è rafforzare il legame con le comunità locali, creando occasioni di incontro e dialogo.
Per creare comunità serve tempo, ma è proprio da lì che bisogna ripartire: dalla relazione tra le persone, dal sostegno reciproco, dal crescere insieme i nostri figli. In un’epoca in cui la tecnologia è diventata il principale mezzo di relazione, ricostruire il senso di comunità locale è forse il primo, vero passo per proteggere le nuove generazioni».

Come creare comunità?

«Il gruppo SFC si trova oggi in una fase di consolidamento e definizione delle strategie, con alcune esperienze già avviate in diverse realtà italiane. L’obiettivo è ora quello di rafforzare gli strumenti di conoscenza e comunicazione per rendere la community più visibile e riconosciuta, ma senza rinunciare alla qualità del lavoro. Ci stiamo prendendo il tempo necessario per fare le cose bene.
La diffusione avviene con il passaparola, piccoli eventi, volantinaggio e collaborazioni con altre associazioni e istituzioni. La lentezza rappresenta una forza: un movimento dal basso, costruito su relazioni reali e volontariato, che punta a durare nel tempo grazie alla solidità delle persone che lo animano».

Pensa che l’Italia sia pronta a un cambiamento “culturale” come quello proposto in Danimarca?

«Il tema è già molto sentito anche in Italia. Sempre più genitori, già quando i figli hanno 7 o 8 anni, iniziano a interrogarsi sulla possibilità di rimandare l’accesso allo smartphone, comprendendo poi che non si tratta solo di una scelta individuale, ma di una questione relazionale e collettiva. Il dibattito è vivo in tutte le famiglie, ma manca ancora una vera informazione e una conoscenza approfondita delle culture giovanili. Si parla spesso di pericoli, cyberbullismo, contenuti tossici, dipendenza, ma raramente di ciò che attrae e appassiona i bambini online. Per accompagnarli davvero, i genitori devono conoscere linguaggi, tendenze e spazi digitali, non solo temerli.
Alla domanda se l’Italia sia pronta, la risposta è “ni”. Il nostro Paese è creativo, sociale e relazionale: se scegliesse di intraprendere questa strada con consapevolezza, potrebbe sorprendere, trovando il modo giusto di agire al momento giusto. Un aiuto potrebbe arrivare dai patti tra genitori, che propongono di ritardare l’uso dello smartphone fino ai 15 anni. 
Perché il punto non è considerare i ragazzi come una categoria fragile, ma aiutarli a diventare forti e responsabili. Se li trattiamo solo come fragili, come potranno crescere? La sfida, quindi, è attivare i giovani, renderli protagonisti e capaci di formare altri giovani, in un percorso condiviso di educazione digitale».

Cosa direbbe a un genitore che oggi si sente in colpa o disorientato?

«Non è necessario sapere tutto prima di agire. Il consiglio è di non restare soli, ma di iniziare parlando con altri genitori, condividendo dubbi e preoccupazioni e cercando insieme le prime soluzioni collettive. Il cambiamento nasce proprio da qui: dal dialogo e dalla relazione, dall’attivarsi all’interno di piccoli gruppi di confronto. La crescita digitale dei figli non è un percorso individuale, ma una responsabilità condivisa che può essere affrontata solo costruendo comunità e sostegno reciproco. È nella capacità di mettersi in ascolto, di aprirsi agli altri e di costruire reti di fiducia che si trova la chiave per accompagnare i più giovani nel mondo digitale con consapevolezza e serenità».
 
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