Papa Prevost per convincerci della fondatezza teologica dell’opzione preferenziale per i poveri propone un duplice percorso. Il primo è quello biblico, tradizionale nei documenti dei pontefici. Il secondo forse è meno frequente: la storia della Chiesa, per documentare che sono più di duemila anni che la comunità ecclesiale si occupa dei poveri e che i suoi santi hanno documentato cosa voglia dire prendersi cura della «carne di Cristo».
Il percorso parte dalla Chiesa primitiva dove furono istituiti i diaconi per la cura dei più bisognosi fino a ricordare il diacono Lorenzo che a Roma, due secoli dopo, indicando i poveri disse: «Questi sono i nostri tesori». Ricchi di preziosi insegnamenti sono i Padri della Chiesa: san Ignazio di Antiochia, San Policarpo di Smirne, san Giustino, san Giovanni Crisostomo, il grande arcivescovo di Costantinopoli che sentenziò che se i fedeli non incontrano Cristo nei poveri che stanno alla porta, non potranno adorarlo nemmeno sull’Altare.
E che dire di sant’Agostino, tanto caro a papa Leone, secondo cui il povero non è solo una persona da aiutare, ma la presenza sacramentale del Signore.
Gesù curava i malati, i lebbrosi, i paralitici, ed ecco che nella storia della Chiesa sono sorti santi come Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Luisa de Marillac che si sono mossi per incontrare Cristo sofferente nei malati. Avverte il papa: «La tradizione cristiana di visitare i malati, lavare le loro ferite e confortare gli afflitti non si riduce semplicemente a un’opera di filantropia, ma è un’azione ecclesiale attraverso la quale, nei malati, i membri della Chiesa «toccano la carne sofferente di Cristo».
Impossibile riassumere qui tutti i personaggi e le situazioni evocate dal Papa. Se ne cita qualcuna per indurre a leggere l’intero documento. Interessante la storia degli ordini religiosi che si proponevano lo scopo di liberare i cristiani fatti schiavi. Per loro Cristo è per eccellenza il Redentore dei prigionieri e la Chiesa, suo Corpo, prolunga questo mistero nel tempo. «I religiosi non vedevano il riscatto come un’azione politica o economica, ma come un atto quasi liturgico, l’offerta sacramentale di se stessi».
Il pontefice ricorda che tale tradizione non è finita ma ha assunto nuove forme di azione di fronte alle schiavitù moderne: il traffico di esseri umani, il lavoro forzato, lo sfruttamento sessuale, le diverse forme di dipendenza. Vengono quindi ricordati santi che hanno combattuto la povertà educativa, a partire da san Giovanni Bosco; i santi che hanno sostenuto e accompagnato i migranti (Giovanni Battista Scalabrini e Francesca Saverio Cabrini); chi nel XX secolo si è dato totalmente agli ultimi, santa Teresa di Calcutta e altri, fra cui san Charles de Foucauld.
Dopo aver ricordato il grande contributo all’attenzione della Chiesa per i poveri portato da Concilio Vaticano II e dai documenti dell’episcopato, specialmente quello americano, Leone XIV propone due sottolineature: strutture di peccato che creano povertà e disuguaglianze estreme; i poveri come soggetti.
Bisogna impegnarsi a rimuovere le cause della povertà, le situazioni che producono ingiustizie, che emarginano i più bisognosi. Il papa scrive: «La carità è una forza che cambia la realtà, un’autentica potenza storica di cambiamento. Questa è la sorgente a cui deve attingere ogni impegno per "risolvere le cause strutturali della povertà" e per avviarlo con urgenza. Auspico pertanto che "cresca il numero dei politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del mondo, perché si tratta di ascoltare il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra"».
Rifacendosi al magistero dei vescovi dell’America Latina papa Leone ripropone la «necessità di considerare le comunità emarginate quali soggetti capaci di creare una propria cultura, più che come oggetti di beneficenza». Per accompagnare i poveri nel loro cammino di liberazione, occorre vivere una reale vicinanza a loro. «Per questa ragione, rivolgo un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno scelto di vivere tra i poveri: a coloro, cioè, che non vanno a fare loro una visita ogni tanto, ma che vivono con loro e come loro. Questa è un’opzione che deve trovare posto tra le forme più alte di vita evangelica».
Ci pare che vengano accolti tre importanti aspetti del carisma di don Benzi; l’impegno per la rimozione delle cause, i poveri come soggetti e non oggetti di liberazione, il metodo della condivisione diretta.
E la vecchia tradizionale elemosina? Papa Prevost la recupera specificando che non va praticata in alternativa all’impegno per la giustizia. E spiega: «L’amore e le convinzioni più profonde vanno alimentate, e lo si fa con gesti. Rimanere nel mondo delle idee e delle discussioni, senza gesti personali, frequenti e sentiti, sarà la rovina dei nostri sogni più preziosi. Per questa semplice ragione come cristiani non rinunciamo all’elemosina. Un gesto che si può fare in diverse maniere, e che possiamo tentare di fare nel modo più efficace, ma dobbiamo farlo. E sempre sarà meglio fare qualcosa che non fare niente. In ogni caso ci toccherà il cuore. Non sarà la soluzione alla povertà nel mondo, che va cercata con intelligenza, tenacia, impegno sociale. Ma noi abbiamo bisogno di esercitarci nell’elemosina per toccare la carne sofferente dei poveri». Sapendo che quella è «carne di Cristo».