Dopo che è stata respinta la richiesta di asilo fatta da due cittadini bengalesi salvati in mare dalla marina italiana, una sentenza cerca di far luce nel dibattito sulle procedure d'asilo e i diritti dei migranti.
Lo scorso 1° agosto 2025, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (cause riunite C‑758/24 e C‑759/24) si è pronunciata in modo chiaro su un nodo cruciale della politica d’asilo: la designazione dei Paesi di origine considerati “sicuri” e la sua incidenza sui rimpatri accelerati, in virtù del protocollo Italia‑Albania.
Con la sentenza, la Corte afferma 3 principi fondamentali:
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Gli Stati membri possono designare per legge Paesi terzi come “sicuri” al fine di applicare procedure d’asilo accelerate. Questo diritto legislativo è confermato, purché siano rispettate le condizioni di trasparenza e controllo.
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La designazione deve essere soggetta a un controllo giudiziario effettivo: sia il richiedente che i giudici nazionali devono poter accedere alle fonti di informazione che giustificano tale designazione, per poterla contestare o verificare.
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Non è legittima la presunzione di sicurezza se il Paese non offre protezione a tutti, inclusi gruppi vulnerabili o minoranze. Anche un rischio generalizzato per categorie specifiche è sufficiente a escludere il Paese dalla lista.
Il caso concreto riguarda 2 cittadini bengalesi salvati in mare e trasferiti nei centri CPR (Centro di Permanenza per Rimpatri) di Gjadër (Albania), dove
la loro domanda d’asilo è stata respinta poiché il Bangladesh era incluso nella lista italiana dei Paesi sicuri. Il Tribunale di Roma ha sollevato una questione pregiudiziale, lamentando l’impossibilità di verificare le basi della designazione: la Corte UE ha dato ragione alla magistratura.
La reazione del Governo italiano, per bocca della premier Giorgia Meloni e di altri esponenti, è stata durissima; dopo il conflitto tra i poteri dello Stato e la magistratura italiana, il Governo ha aperto una nuova accesa polemica con la giurisdizione europea: la decisione sarebbe una ingerenza nella politica migratoria nazionale che «indebolisce le misure contro l’immigrazione irregolare di massa».
Eppure, proprio
i principi fondamentali del diritto trovano in questa pronuncia la loro espressione più robusta. Il diritto di accesso alle fonti, il contraddittorio e la tutela delle categorie vulnerabili sono le pietre angolari di un sistema giuridico che respinge l’arbitrio e l’automatismo nelle decisioni migratorie.
L’esigenza di trasparenza, controllabilità e rispetto dei diritti fondamentali emerge con forza: la Corte non esclude che uno Stato possa avere una lista, ma vincola ogni Stato a renderla confutabile in sede giurisdizionale, basandosi su criteri concreti e materiali, che nel caso concreto,
la persona che cerca rifugio possa vantare a tutela dei propri diritti.
In una stagione europea segnata da spinte securitarie e difficoltà politiche, il pronunciamento della Grande Sezione costituisce un faro giuridico. Conferma che il diritto d’asilo non può essere sacrificato in nome dell’“efficienza”: proteggere chi fugge da pericoli non significa solo respingere chi non ne avrebbe bisogno secondo parametri standardizzati, ma garantire il diritto di verificare caso per caso, con strumenti certi, equi e trasparenti, chi necessita realmente di tutela.
Questa pronuncia rappresenta un passo decisivo in difesa del diritto e della dignità di chi chiede protezione. Raffigura uno Stato di diritto che funziona: non concede automatismi, ma legittimità, verifica e responsabilità giudiziaria. Al netto delle reazioni governative — e come molti esponenti della società civile avevano preannunciato già in sede di stipula dell’Accordo Italia-Albania — questa è una sentenza giusta e un necessario presidio di civiltà.