«Quando raccolsi la bambina dal mare, era leggera. Mentre la prendevo, pensavo fosse ancora viva perché galleggiava in acqua. Il pannolino gocciolava. La tenevo in braccio stretta, la guardavo in viso. Mi resi conto di avere a che fare nella maniera più intima con qualcuno che non conoscevo. Poi mi guardai intorno, percepii il caldo e l'orrore».
I corpi furono recuperati dalla nave Vega della Marina militare italiana, che in quei giorni accolse a bordo 629 sopravvissuti in diverse operazioni di soccorso. La nave, carica di morti e vivi, attraccò al porto di Reggio Calabria il 27 maggio 2016, la domenica del Corpus Domini, quella in cui la Chiesa celebra la presenza di Gesù nell'Eucarestia. Quel giorno, il giorno della festa del Corpo del Signore, 45 corpi senza vita arrivarono a Reggio Calabria.
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Come sempre prima di uno sbarco con criticità, la Prefettura convocava un tavolo operativo. In questo caso la criticità era una nave con 45 cadaveri a bordo. Altre volte erano arrivate al porto di Reggio persone senza vita ma mai così tante in una sola volta. Anche per noi che eravamo abituati fu difficilissimo. Ancora oggi abbiamo nitide le immagini di quel giorno.
Andammo al porto. Prima scesero tutti i 629 migranti che erano stati soccorsi in diverse operazioni nel canale di Sicilia nell'arco di più giorni. Durante le operazioni di sbarco, grazie al nostro mediatore culturale avevamo raccolto le informazioni. I sopravvissuti venivano dal Pakistan, Libia, Senegal, Eritrea, Nigeria, Siria, Marocco e Somalia.
Poi furono effettuate le procedure di sbarco: il protocollo degli sbarchi messo in atto dal Ministero degli interni in quel periodo prevedeva che ogni persona dovesse essere sottoposta ad un accertamento medico (triage medico), ricevere un’informativa sui suoi diritti previsti dalla legge italiana sull’immigrazione e asilo, essere pre-identificata ed informata sulla sua condizione di irregolarità. In questa fase accompagnavamo i migranti più fragili. Tra loro c'era una giovane donna che, piangendo, imprecava e si picchiava battendosi la testa con le mani. «Il mare me l'ha portato via, - urlava - il mare me l'ha portato via, la colpa è mia, non sono riuscita a tenerlo». Quella donna, quella madre, parlava del suo bambino.
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Foto di Nicoletta Pasqualini
Il Prefetto ci chiese di sostenere ed accompagnare amici e parenti nel riconoscimento dei cadaveri, una fase molto delicata, che necessitava di volontari robusti di carattere. I sopravvissuti arrivarono con un autobus riservato, tutti insieme, scesero all'unica fermata di quel breve viaggio. A quel punto intervenimmo noi.
Vengono in mente le parole di don Oreste Benzi, il prete degli ultimi, fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, quando ripeteva, «bisogna mettere la spalla sotto la croce del povero». Noi prendemmo alla lettera quel richiamo, accompagnavamo le persone prendendole sotto le ascelle, perché le loro gambe tremolanti non reggevano. Quando si apriva la cerniera del sacco nero e si veniva avvolti dal fetore del corpo in putrefazione, quasi di sorpresa nonostante gli fornissimo dei fazzoletti, allora veniva a mancare la terra sotto i piedi. Era il momento in cui dovevamo sostenere con maggior forza le persone. Era il momento più duro.
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Le esequie furono celebrate il 3 giugno con un'immensa partecipazione. (...) Da allora ogni 3 giugno la città di Reggio Calabria si ferma per fare memoria di tutte quelle persone che, cercando una nuova vita, sono morte nel mare.
Oggi quei corpi riposano nel piccolo cimitero di Armo, alle porte di Reggio, sulle prime colline della città. (…) Qui, in questa collina che si affaccia sul mare, dove tira forte il vento, dove si vede la costa della Sicilia ed il profilo dell'Etna che fuma, riposano anche la piccola Maryam e sua mamma Abshiro, il cui nome significa «la donna che porta speranza».