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5 Gennaio 2024

Don Adamo Affri. In carcere incontro Gesù ferito

Da garzone pasticcere a operaio. Scopre il sacerdozio condividendo con gli ultimi. Vive in casa famiglia con una coppia, ma è cappellano del carcere di Piacenza ed ora anche parroco.
Don Adamo Affri. In carcere incontro Gesù ferito
Don Adamo vive a stretto contatto con i poveri, gli emarginati, con chi ha un debito verso la società. Nel carcere di Piacenza dove è cappellano incontra ogni giorno un'umanità ferita, carcerati e anche guardie. «Mettermi in ascolto senza giudicare mi permette di vedere che in ogni persona c'è una scintilla di Dio.»

Adamo a quarant’anni fa una scelta che aveva accantonato anni prima, tanto non si sentiva all’altezza. Ma succede che quando qualcosa è radicato in maniera così profonda in noi, prima o poi sboccia con tutta la sua potenza. E lui, ad un certo punto della sua vita, non può più dire di no, e si fa prete. 
Don Adamo Affri è nato l’8 settembre 1969 a Nosadello, frazione del Comune di Pandino in provincia di Cremona. Una famiglia semplice alle spalle. La mamma è casalinga e il papà un mungitore di mucche. Pensando a lui ricorda: «Da mio padre ho imparato l’impegno e la dedizione al lavoro. Faceva il mungitore di mucche eppure lo faceva con amore. Mi ha sempre colpito il fatto che per me le mucche erano tutte uguali, mentre lui, pur avendo a che fare con oltre cento mucche, le conosceva tutte per nome.»
Dopo la terza media va subito a lavorare, sia perché non ha chiaro cosa avrebbe voluto studiare, sia per sostenere economicamente la famiglia, dato che già il fratello maggiore sta studiando e il padre ha problemi di salute per cui la famiglia inizia a trovarsi in difficoltà economiche. 
La sua è un’adolescenza difficile, tormentata, come se ci fosse qualcosa che gli sfuggiva e che non riusciva ad afferrare. Da ragazzo faceva fatica ad esprimere quello che provava, riusciva solo con il canto. Quello gli apriva il cuore in maniera del tutto naturale. Una passione che conserva tutt’ora, pur tra mille impegni. 
Poi incontra la Comunità di don Oreste Benzi e nel 2009 diventa sacerdote. Ma la cosa più particolare di don Adamo è che non vive come la gran parte dei sacerdoti in canonica, ma in casa famiglia con una coppia, come un fratello, uno zio dei loro figli naturali e accolti. Quasi tutti i giorni varca i portoni del carcere “Le Novate” di Piacenza e nei volti di chi è dietro le sbarre incontra Gesù povero. 
Lì è cappellano ed è la sua seconda famiglia, perché dice: «Quando sono in carcere mi sento in famiglia». Lì dentro c’è tanto bisogno di parlare. «Hanno bisogno di non sentirsi soli. È un’esperienza che mi ha cambiato e che continua a cambiarmi. In carcere ho scoperto la presenza di un Dio incarnato nell’essere umano. Ho capito che qui il bisogno più profondo per tutti è toccare Dio».

E tu come sei stato toccato da Gesù?

«Nella vita di condivisione di casa famiglia. Ho intravisto un disegno. In particolare un giorno.»

Cosa è successo?

«Ci sono stati dei precedenti. Nel 2004 si è tenuta una udienza speciale della Comunità Papa Giovanni XXIII con papa Giovanni Paolo II. Durante il viaggio ho sentito una voce interiore che diceva: “Adamo, perché non mi dici di sì fino in fondo?”. Pian piano è riemerso un sogno che avevo sentito da ragazzo: diventare sacerdote, l’avevo messo da parte perché mi sentivo inadeguato, solo. È riemerso quando ho scelto di far parte di una comunità.»

Prima della scelta di diventare sacerdote chi era don Adamo?

«Un adolescente inquieto, non trovavo un senso nella mia vita, in alcuni momenti ho pensato addirittura di togliermela.»

Don Adamo Affri celebra la messa a Canazei
Don Adamo Affri celebra la messa nella cappellina dell'albergo della Comunità Papa Giovanni XXIII Madonna delle Vette a Canazei.
Foto di Riccardo Ghinelli


Che lavoro facevi?

«Prima il pasticcere a Milano, come garzone. Poi ho lavorato per 11 anni in una azienda chimica vicino a Milano, facevo i turni. È stata una esperienza importante per conoscere l’umanità. Nel tempo libero però frequentavo l’oratorio; lì ho sentito il desiderio di dedicarmi agli altri. In particolare mi ha colpito un incontro.»


Con chi?

«Un ragazzino di 11 anni malato di tumore alla testa. Da un giorno all’altro non l’ho più visto arrivare in oratorio. Sono andato a cercarlo a casa e sono stato vicino a lui e alla sua famiglia per tre anni, fino alla sua morte. Ho sperimentato una sorta di condivisione stretta.  Due mesi dopo la sua morte ho incontrato la Comunità che mi proponeva lo stile che avevo sperimentato con questo ragazzino. Ho sentito che il Signore mi stava accompagnando.» 

L’incontro con la Comunità Papa Giovanni XXIII invece come è avvenuto? 

«Uno della Comunità è venuto in oratorio a parlarci della sua esperienza in Africa. Poi ho voluto incontrarlo per dirgli che anch’io avrei voluto fare la stessa cosa. Lui mi ha ascoltato e poi mi ha detto che io non cercavo una esperienza, ma una risposta che desse senso alla mia vita, e mi ha consigliato di incontrare il responsabile di zona di allora della Comunità del territorio, Primo Lazzari.»

Com’è andata?

«Mi sentivo attratto, ma ho subito fatto un passo indietro, mi sembrava una proposta troppo forte, mi sentivo inadeguato. Nel 1999 però mi sono riavvicinato, ho chiamato Primo e ho iniziato di nuovo il periodo di verifica vocazionale.» 

Da giovane in ricerca ti sei messo a servizio di altri giovani. 

«È la parte dell’azione della Comunità che mi ha subito attirato. È in questo ambito che ho incontrato Gesù. Stando con i giovani, e anche i giovani con disabilità. Dopo questi primi approcci sono tornato da Primo e gli ho detto che ero disponibile a fare un altro passo avanti, così mi ha proposto di andare a vivere in una casa famiglia, pur mantenendo l’impegno con i giovani.»

Cosa hai scoperto di te stesso in questo percorso?

«Che non sono quello che gli altri mi dicono che sono, ma sono un mistero che si svela piano piano a me stesso stando con Gesù e con i poveri. Mi sono fatto seguire anche da un padre spirituale che era anche psicologo, con cui piano piano ho scoperto i miei talenti e il mio bisogno di appartenere, di condividere questi talenti con gli altri, vincendo la solitudine. Per questo oggi mi sento particolarmente vicino a chi si sente solo.»

«Il valore aggiunto, per noi preti, non è fare belle prediche ma far sentire le persone parte di una famiglia.»

Come è nata la chiamata al sacerdozio?

«Nel giugno 2004 ho fatto i voti come laico, ma sentivo che dovevo continuare a camminare, che c’era un'ulteriore chiamata. A settembre dello stesso anno, durante una “quattro giorni” tra consacrati della Comunità un sacerdote, don Elio Piccari (ndr sacerdote che per tanti anni ha condiviso la parrocchia La Resurrezione con don Oreste Benzi), disse: “Abbiamo bisogno di preti; magari qualche consacrato sentisse la chiamata al sacerdozio!”. Poi nel dicembre di quell’anno, come dicevo, ho sentito quella voce interiore “Perché non mi dici di sì fino in fondo?”.»

Don Adamo Affri in visita alla Comunità Papa Giovanni XXIII in Zambia
Don Adamo Affri in visita alla Comunità Papa Giovanni XXIII in Zambia.

Il tuo seminario però è stata la Casa Famiglia. Una scelta fuori dal comune, non trovi?

«Pensavo che il vescovo mi avrebbe detto di lasciare la casa famiglia e andare a vivere in seminario, invece mons. Luciano Monari mi ha detto che potevo iniziare subito a frequentare la scuola di teologia in seminario (dalla terza, avevo già fatto tre anni teologia per laici) pur rimando a vivere nella casa famiglia Madre Teresa di Fiorenzuola.»

Una coppia, figli naturali e accolti. C’è posto anche per un prete? 

«È il dono più grande che un prete possa ricevere. Don Oreste diceva che il prete non ha bisogno di moglie, ma ha bisogno di una famiglia. È proprio vero! Quello che mi può dare questo confronto con una coppia, con i figli naturali e accolti è qualcosa di grande. Vedere come loro vivono la preghiera e allo stesso tempo la cura dei figli mi ha dato e mi continua a dare tanto. Il Papa dice a noi preti di stare attenti a non entrare in una casta, che dobbiamo avere l’odore delle pecore, stare dentro il popolo. Io questo lo vivo molto nella casa famiglia, oltre che in parrocchia e in carcere.»

Che legame si è creato con questa famiglia acquisita?

«Affettivamente è impegnativo, ti aiuta a crescere. A tavola siamo una dozzina e poi abbiamo spesso ospiti. È una esperienza unica. Quando delle coppie mi invitano a prepararle al matrimonio, io spesso le invito a venire a cena da noi e vedo che accolgono questa opportunità con stupore e gratitudine. C’è l’idea della famiglia come una realtà chiusa, riservata, ma non è così. Le nostre case famiglia sono un santuario. Il valore aggiunto, per noi preti, non è fare belle prediche ma far sentire le persone parte di una famiglia, ma per comunicarlo dobbiamo viverlo noi stessi.» 

Cappellano del carcere di Piacenza. Che umanità incontri lì dentro?

«Un’umanità ferita, sia i detenuti e spesso anche le guardie carcerarie. Mettermi in ascolto senza giudicare mi permette di vedere che in ogni persona c’è una scintilla di Dio. Don Oreste diceva che l’uomo non è il suo errore. È vero, ogni persona è abitata dalla presenza di Dio. La messa che celebro in carcere ogni domenica mattina è una esperienza stupenda in cui emerge tutto questo.»

«Mettermi in ascolto senza giudicare mi permette di vedere che in ogni persona c’è una scintilla di Dio.»

Cosa ti chiedono i detenuti?

«Spesso sono richieste di misure alternative al carcere, ma anche quando non riesco a soddisfare questa richiesta l’incontro è sempre positivo, e anche io mi sento arricchito. Quando prego sento che porto quei volti, quelle ferite, è una presenza viva.»

Ora sei anche parroco di San Pietro in Cerro e Polignano.

«Il 2 luglio 2020 ho finito il mio mandato come responsabile della Zona Rimini della Comunità, in precedenza lo ero stato per la Zona Zambia. La domenica successiva sono andato a celebrare la messa in una parrocchia, e i parrocchiani mi hanno chiesto di continuare ad andare in quanto mancava un parroco titolare. Poi sono andati dal vescovo a chiedere se potevo essere il loro prete e io ho detto di sì, nonostante gli impegni. Mi è sembrata una cosa bella questa scelta dal basso. Siamo in tre preti a seguire una unità pastorale di 8 parrocchie.»

Don Adamo Affri con la casa famiglia e il vescovo di Piacenza
A sinistra don Adami Affri. Al centro della foto il vescovo di Piacenza Mons. Adriano Cevolotto in visita alla casa famiglia

Da giovane amavi cantare. Il canto c’è ancora dentro di te?

«Sì. Mi è servito molto quando da giovane non riuscivo ad esternare quello che sentivo dentro, tranne che nel canto. Oggi ci riesco di più, ma quando canto sento che vinco ogni timidezza.» 

Vivere con i poveri cosa ti ha aiutato a capire?

«Che è importante fare famiglia con i poveri, non basta aiutare. Il modo di fare famiglia può essere vario, ma è importante la relazione, il legame. Io sento che i poveri mi portano Gesù; poi, quanto io lo porto a loro non lo so, ma sento che la mia e la loro storia sono legate. Tu ami Gesù se ami i fratelli. È questa coscienza di popolo, tanto richiamata da don Oreste, che può vincere la solitudine che oggi dilaga nel mondo. Allora il dolore si porta assieme e questo dà speranza.»

Cosa ti ha lasciato don Oreste?

«Lui era davvero un innamorato di Cristo e mi ha trasmesso tanto, ma ho anche un’immagine particolare che mi è rimasta dentro.»

Quale?
«Eravamo seduti in auto, io, lui e Primo Lazzari. Don Oreste dormiva. Ad un certo punto all’autogrill, Primo scende dall’auto per andare a prendere qualcosa da mangiare. Restiamo io e don Oreste. Lui all’improvviso si sveglia e mi dice: “Adamo, quanto dobbiamo parlare io e te…». Io avevo da poco iniziato il cammino verso il sacerdozio. Poco tempo dopo don Oreste è mancato, e non abbiamo più avuto occasione di proseguire il discorso, ma sento che oggi mi sta parlando attraverso la Comunità. Per questo faccio di tutto per dire di sì quando mi chiamano.»