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26 Gennaio 2024

Don Alberto Ravagnani. Influencer per fede

Con i suoi video realizzati durante il lockdown è diventato una vera star del web tra i ragazzi parlando di fede, di amore, delle cose della vita con lo sguardo di Dio.
Don Alberto Ravagnani. Influencer per fede
La storia di don Alberto Ravagnani, un sacerdote millennial che usa i social per raggiungere i giovani, scrivendo romanzi e promuovendo la vita comunitaria in parrocchia. Parla dei cambiamenti nella Chiesa, della sua chiamata e dell'importanza di creare relazioni autentiche.
Appena il tempo di pronunciare i voti nel giugno del 2018 e iniziare il suo apostolato di prete a Busto Arsizio, che un anno e mezzo dopo si trova a fronteggiare il lockdown a causa della pandemia da Covid 19, costretto a stare lontano dai suoi ragazzi.
È stato questo, a 24 anni, l’esordio come sacerdote del giovane don Alberto Ravagnani, classe 1993, nato il 22 agosto a Brugherio in Brianza.
Le attività con i ragazzi dell’oratorio “San Filippo Neri”, la presenza tra i giovani liceali a cui insegna religione: tutto è bloccato. Ma ciò che poteva diventare un problema insormontabile, per don Alberto si trasforma in opportunità. Aziona le sue capacità di “millennial” e, seguendo l’insegnamento di Gesù, va in cerca delle proprie pecorelle usando ciò che i ragazzi oggi sanno usare meglio e nessuna pandemia può fermare: i social.
Con 153 mila views su YouTube, 97,6 mila followers su Tik Tok, 171 mila su Instagram, più i podcast, don Alberto Ravagnani, per tutti “don Rava”, diventa una sorta di influencer di Dio, un punto di riferimento sui grandi temi che interessano i ragazzi: fede, preghiera, educazione, amore, persino videogiochi. «Cose che riguardano la vita – dice – viste da una prospettiva di fede, che può illuminare.»

Nel 2021, don Alberto Ravagnani, ha scritto un romanzo: La tua vita e la mia
 
Nel 2021 scrive addirittura un romanzo: La tua vita e la mia vita per la Rizzoli. Due storie parallele di giovani provenienti da ceti sociali diversi. Una amicizia vera, di aiuto reciproco nelle difficoltà, che ruota attorno al mondo della parrocchia, dell’oratorio di Busto Arsizio, in cui gioca un ruolo importante un sacerdote che sa davvero ascoltare. 
Dal varesotto, don Alberto, oggi 30enne, svolge la sua missione di prete a due passi dalla movida milanese dei Navigli, come vicario parrocchiale nella chiesa di San Gottardo al Corso.

Un prete in palestra

Recentemente don Alberto è entrato in palestra, per indagare l'animo umano. Perché ha sentito dire che lì «c'è gente che dà l'anima per il proprio corpo, che gode nel soffrire quando solleva quintali di ghisa..». Attrezzi alla mano è andato a conoscere la gente della palestra. Da questa nuova esperienza sono nate delle interviste interessanti, scoprendo che oltre i muscoli c'è dell'altro.





Don Alberto, dal punto di vista dell’evangelizzazione com’è la situazione dalle tue parti?

«Difficile. La società corre molto veloce a Milano, in particolare i giovani, e la Chiesa non sempre riesce a starci dietro. La zona dei Navigli è una delle più frequentate, ma pochi vengono in chiesa. La domanda che mi pongo è come poter raggiungere queste persone.»

Ti sei dato una risposta?

«Come abbiamo chi si occupa della pastorale ordinaria, penso sia importante avere chi si dedica all’evangelizzazione, per raggiungere coloro che non sono credenti, coloro ai quali Dio apparentemente non interessa e che non verranno mai agganciati con la pastorale ordinaria.» 

Vivi in una sorta di comunità con gli adolescenti all’interno della parrocchia. Quanto è importante per un prete non essere solo?

«È fondamentale. Ho iniziato a vivere da solo in oratorio al San Filippo Neri, poi sono venuti dei ragazzi a condividere con me, in casa mia. Sono passati anche dei sacerdoti, altri ragazzi si sono fermati in maniera più stabile. Quando l'oratorio, la parrocchia diventa casa, lì c'è la possibilità di generare delle relazioni anche di fede. Mi è sembrato naturale, con il mio trasferimento, impostare la vita in comunità, l’esercizio del mio ministero si basa su questo. È importante da un punto di vista umano e spirituale testimoniare la bellezza del Vangelo attraverso relazioni che funzionano. Imparare a stare insieme, a volersi bene e presentarsi agli altri come una fraternità, come amici veri. Questo può toccare il cuore delle persone.»

«Dio ha cambiato la mia vita e io ho deciso di dare la mia vita a Lui.»

I seminari sono sempre più vuoti, eppure qualcuno ancora si fa prete. A te come è successo di diventarlo?

«Ho deciso di entrare in seminario a 19 anni, dopo la maturità classica. A 17 anni mi ero sentito chiamato a dare la vita e questa mi sembrava un’istituzione credibile in cui fare discernimento. Non sempre tuttavia i seminari, per come sono strutturati, corrispondono alla pasta di cui son fatti i ragazzi di oggi. Il percorso previsto talvolta non è affascinante, come forse oggi non è attraente per i ragazzi il ministero del prete. Questi fattori insieme sono la causa del problema vocazionale.»

Hai soluzioni?

«No, ma suggerisco di modificare l’impianto di formazione del seminario. È affascinante essere sacerdote per i ragazzi di oggi? Un tempo essere sacerdote portava ad una sorta di prestigio sociale, oggi è più una scelta in perdita. C’è sempre meno soddisfazione in questa vita donata: meno confratelli, meno fedeli, l’età media di chi va in chiesa è sempre più alta. Non è un problema di vocazione, Dio chiama, ma è più difficile oggi rispondere. Mi chiedo in che modo possiamo lavorare perché la forma esteriore della vita del prete si adegui alla necessità dei giorni d’oggi, pur mantenendo l’identità del prete nei suoi fondamenti teologici, che è imprescindibile.»

don Alberto Ravagnani

Come hai sentito che Gesù ti stava chiamando?

«Dopo aver incontrato Dio la mia vita è cambiata. Mi sono sentito veramente amato. Il mio cuore si è aperto, la mia intelligenza si è risvegliata, i miei talenti sono venuti fuori. Improvvisamente la mia visuale si è aperta a 360 gradi, e questo mi ha fatto stare bene. Mentre vivevo questa apertura di cuore mi sono anche innamorato di una ragazza, ma davanti alla vita, al futuro, mi sono chiesto: “Per che cosa voglio vivere?”. Per me era troppo poco dare la vita ad una sola persona, sentivo di essere chiamato ad amare quante più persone possibili, di voler essere a disposizione di tutti. Dio ha cambiato la mia vita e io ho deciso di dare la mia vita a lui. Sono stato accompagnato, aiutato. Anche le crisi poi hanno confermato questo cammino.»

«Ai ragazzi serve far capire che c'è un orizzonte di vita, che Gesù, che Gesù è venuto a cambiare la vita delle persone.»

C’è un fatto particolare che ti ha illuminato?

«Una vacanza in montagna con l'oratorio. Avevo 17 anni. Per la prima volta ho instaurato un rapporto di amicizia vera e profonda con un ragazzo, Andrea. Lui mi ha aperto il cuore. Un giorno stavamo parlando di delusione e scopro che il vero motivo per cui tante cose ancora non giravano nella mia vita era perché  mi sentivo deluso dai miei genitori, non mi sentivo voluto bene. Vado a confessarmi e mentre racconto al sacerdote che non mi sento amato, che sono triste, mi sento sempre più voluto bene e sempre più felice. Subito non attribuisco a Dio questa felicità, ma con il passare del tempo mi faccio delle domande sul cambiamento che sta avvenendo in me. Quando gli ho dato un nome ho iniziato il percorso che mi ha portato fino a qui.»

Don alberto Ravagnani durante un concerto con i The Sun

Come sentire la chiamata nel rumore e nella velocità che ci circonda?

«La vita oggi è molto rumorosa e frenetica: può essere un ostacolo a sentire Dio, ad ascoltare quello che ci dice e ciò che la coscienza suggerisce. È fondamentale imparare a fare silenzio, coltivare amicizie vere, approfondire la conoscenza di sé con buone letture, buone canzoni, attraverso buoni maestri. E poi la preghiera, che è la giusta distanza per vedere la nostra vita con lo sguardo di Dio. Questa è la strada che ci permette di sentire che Dio chiama ognuno di noi a diventare santo.»

Quanto c’è di te nel tuo romanzo, e per chi l’hai scritto? 

«C’è tantissimo di me. Ho scritto questo libro pensando lo leggessero i miei ragazzi. L’ho consegnato loro con l’idea di donargli quello che avrei voluto sentirmi dire da ragazzo e per questo può essere utile anche agli adulti che stanno con loro. È frutto di dialoghi elaborati assieme. Le situazioni descritte sono realmente avvenute. Non sarà uno specchio dell’intera fascia giovanile, ma i due protagonisti del libro sono genuini e questo i ragazzi lo sentono, tanto che continuano a scrivermi che la storia li smuove dentro.»

Veniamo alla tua catechesi sui social, tu dimostri che si può fare.

«Sì, anche se ho smesso ad un certo punto di fare video per dedicarmi a ciò che stava accadendo in oratorio, ed il tutto si è sviluppato in un’associazione, LabOratorium. Ho iniziato a fare progetti di comunicazione per l’evangelizzazione con i ragazzi. È nato un podcast, ho iniziato a viaggiare per l’Italia per presentare il libro, incontrare le persone e attraverso i social creare la community Fraternità: ragazzi uniti da rapporti d’amicizia e che condividono la fede. I social sono luoghi d’incontro tra me e le persone e per le persone fra di loro. Fraternità e LabOratorium si stanno avviando, quindi ora tornerò a dedicarmi ai social. Serve usare il linguaggio giusto per arrivare a tante persone.»

In che modo la fede cambia la vita delle persone?

«La fede è un modo di stare al mondo sapendo che c’è Dio in tutte le cose. È un modo di stare dentro le cose con uno sguardo diverso sugli impegni, sulla quotidianità. Un uomo di fede vive fino in fondo la vita senza scappare dalla verità.»

«Mi sono sentito veramente amato, il mio cuore si è aperto.»

Federico, il protagonista del tuo romanzo, sente che quando parla don Andrea riesce sempre a toccare i tasti più sensibili del suo cuore. Come incrociare il bisogno di Dio presente nei giovani?

«Ascoltandoli. Dando loro la possibilità di fare esperienza di Dio, perché tracce della sua presenza ci sono nella vita di ognuno: serve qualcuno più avanti nel cammino che riconosca questa presenza. Allora i ragazzi iniziano un percorso di ricerca, si sviluppa il desiderio di una vita più piena, che può sfociare in un vero cammino spirituale.»

Don Oreste Benzi diceva che bisogna passare dalla devozione alla rivoluzione e che i giovani non li avremo più con noi se non ci mettiamo con loro per rivoluzionare il mondo. Che significato ha per te una affermazione del genere?

«I ragazzi ci sono: vedi le manifestazioni sull’ambiente, o contro la violenza sulle donne. Il problema è che raccontiamo un cristianesimo debole, insignificante: parliamo di cose del cielo che si collegano poco con la terra. Serve far capire che c’è un orizzonte di vita, che Gesù è venuto a cambiare la vita delle persone, allora il ragazzo si sente interpellato. Il cristianesimo ha l’ardore di una missione nel momento in cui si sentono voluti bene. E la Papa Giovanni XXIII ne è esempio.»

I media ci raccontano di guerra, violenza, mutamenti climatici, come fanno i ragazzi a non perdere la speranza?

«I problemi di oggi non sono più grandi di quelli del passato. Nel momento in cui smettiamo di guardarli con paura e l'atteggiamento di chi cerca a tutti i costi un colpevole, e iniziamo a renderci conto che siamo tutti chiamati a fare qualcosa, i problemi non ci paralizzano. Ai giovani occorre il senso della missione: se resti spettatore dei drammi ti chiudi, se invece sei tu a dover fare qualcosa, allora il mondo si colora in modo diverso.»