Nel cuore della Basilicata, a Chiaromonte, il Centro "Giovanni Gioia" rappresenta una delle realtà più importanti in Italia dedicate ai disturbi del comportamento alimentare. È il secondo centro pubblico nel Paese per numero di pazienti seguiti e uno dei pochissimi presenti nel Sud Italia: su 51 strutture, tra pubbliche e private, sotto il Tevere sono solo quattro. Qui, dal 2006, si accolgono gratuitamente giovani provenienti da ogni regione, offrendo un percorso di cura che affianca terapie mediche e psicologiche ad attività come ippoterapia, art therapy e gruppi olistici. «Il rifiuto del cibo è solo la punta dell’iceberg, spiega la responsabile Rosa Trabace. Il nostro lavoro coinvolge anche le famiglie, ed è un processo faticoso, ma i risultati ci confermano che questa è la strada giusta».

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Da diciotto anni, accanto all’équipe sanitaria, c’è una presenza capace di sorprendere e spesso di spiazzare: quella di don Enzo Appella, sacerdote della Diocesi di Tursi-Lagonegro e docente alla Pontificia Facoltà Teologica di Napoli. Non è un cappellano, non guida momenti religiosi, non propone catechesi. È, come lui stesso si definisce, una sorta di “consulente teologico-filosofico” che offre ai ragazzi e alle loro famiglie uno spazio libero in cui interrogarsi sul corpo, sull’anima, sull’amore, sul senso dell’esistenza. «Vivo la settimana a Napoli, ma nel weekend sono sempre qui, racconta. Con i pazienti discutiamo di filosofia, di letteratura, di domande profonde. Chi soffre di anoressia fa fatica a parlare di sentimenti, ma in questi incontri spesso riesce a lasciarsi andare. Prima si guarisce nello spirito, poi nel corpo».
Il suo arrivo al Centro, anni fa, fu quasi casuale e accompagnato da un pregiudizio: «Pensavo si trattasse di ragazze che volevano fare le modelle», confessa. «Poi ho incontrato miei coetanei e ho capito quanto dolore ci fosse dietro questi disturbi». Così è nato il “Gruppo di Enzo”, che oggi è parte integrante del percorso terapeutico. Il sacerdote incontra i ragazzi nel weekend, partecipa alle riunioni con le famiglie e si confronta con l’équipe ogni volta che serve. «La mia non è una presenza missionaria», precisa. Offro un momento diverso, un ragionamento che va più in profondità senza giudicare. Cerco di aprire uno spazio di dialogo. A volte entro in modo un po’ da saltimbanco, per alleggerire, poi quando rivelo che sono un prete nessuno si tira indietro».
Negli anni, don Enzo ha visto abbassarsi l’età dei pazienti e ispessirsi quella “scorza difensiva” che tanti giovani indossano per proteggersi da un mondo percepito come ostile. «Stabilire un contatto è diventato più difficile, ma quando accade è prezioso», racconta. Lo testimoniano i tanti bigliettini che conserva con cura: parole di gratitudine lasciate dai ragazzi al termine del percorso. «Indipendentemente da ciò che accadrà nelle loro vite, mi sento orgoglioso di loro. E, nel mezzo del dolore, trovo consolazione».
La presenza di don Enzo è sostegno umano, culturale e relazionale che arricchisce il percorso terapeutico e restituisce senso e fiducia a chi fatica a ritrovare se stesso. Ma figure come la sua possono continuare a offrire liberamente questo servizio prezioso solo grazie al sostegno delle comunità parrocchiali.
I sacerdoti, infatti, non ricevono uno stipendio né dallo Stato né dal Vaticano: il loro sostentamento si regge unicamente sulle offerte liberali dei fedeli allIstituto Centrale Sostentamento del Clero, offerte che sono interamente deducibili in fase di dichiarazione dei redditi. In fondo, la presenza di don Enzo al Centro “Giovanni Gioia” è un dono silenzioso: non risolve tutto, ma apre spiragli di luce dove il dolore sembra chiudere ogni strada. È il dono di un tempo condiviso, di uno sguardo che non giudica, di una parola che rialza.
Un dono che cambia la vita e che possiamo custodire e rendere possibile con un piccolo gesto di sostegno.