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13 Novembre 2020
Ultima modifica: 13 Gennaio 2021 ore 11:31

Don Luigi Ciotti. Il Vangelo e la Costituzione

I giovani sono i grandi dimenticati di oggi, esistono solo come consumatori. «Un giovane ha bisogno di riconoscimento. Non basta dargli un posto, bisogna fargli posto!»
Don Luigi Ciotti. Il Vangelo e la Costituzione
Scopre la vocazione grazie a un senza fissa dimora. Il vescovo gli affida la strada come parrocchia. A 75 anni traccia un bilancio della sua esperienza, con un titolo provocatorio: «L'amore non basta».
Di lui si sono dette tante cose: il prete antimafia, di strada, antidroga, attribuendogli talvolta colorazioni politiche. Ma ha sempre replicato dicendo: «Sono un prete e basta!». 

Don Luigi Ciotti con suoi 75 anni ben portati, di cui 48 di sacerdozio, mantiene intatto lo sguardo fiero, l’entusiasmo e la forza combattiva che hanno caratterizzato una vita spesa contro le ingiustizie, i pregiudizi e le discriminazioni sociali. Una forza infusa dal Vangelo, senza dimenticare la Costituzione perché – dice citando il Concilio – «Non va dato per carità ciò che è dovuto per giustizia».

Don Luigi Ciotti: l'amore non basta!

Il bilancio di un’esistenza segnata da tanti incontri è ora contenuto nel libro L’amore non basta scritto per Giunti editore. Le inquietudini giovanili, le tante battaglie, la nascita nel 1965 del Gruppo Abele e poi di Libera contro le mafie, in una sorta di autobiografia collettiva.  

Don Luigi Ciotti nasce nel 1945 a Pieve di Cadore in provincia di Belluno. Le sue radici lo segnano fortemente. «Essere cristiani a casa Ciotti-Tabacchi – dice – era una faccenda seria, non significava baciare i santini o prostrarsi alla Madonna, ma si viveva l’amore verso Dio e alle persone». A cinque anni lascia le sue amate montagne e con la famiglia si trasferisce nella città di Torino. 

L'incontro di don Luigi Ciotti con Sempre Magazine questa estate ad Asiago (VI), in occasione della presentazione del suo libro: L'amore non basta.
Foto di Alessio Zamboni

Don Luigi Ciotti anche lui immigrato

Figlio d'immigrati. Una condizione comune a tante persone che aiuti. Come l’hai vissuta?
«Papà, che faceva il muratore, a Torino aveva trovato lavoro ma non casa. Così andammo a vivere in una baracca nel cantiere in cui era impegnato nella costruzione del Politecnico. Trattandosi di una “zona bene” del centro, qualcuno mi etichettò. Fu un trauma dal quale, crescendo, ho cercato d’imparare. Non mi sembrava giusto che, come altri immigrati, solo perché venivamo da fuori e non avevamo le stesse possibilità economiche fossimo guardati con diffidenza, a volte disprezzo. Storie di ieri ma anche di oggi. Sono grato a Dio per averle vissute: quelle esperienze giovanili mi hanno indicato la via dell’impegno, della responsabilità e della libertà come bene comune. Si è liberi con gli altri, non contro di loro, e il compito che ci affida la vita è di mettere la nostra libertà a disposizione per liberare chi ancora libero non è.»
 
Come sei diventato sacerdote?
«A 17 anni, mentre andavo a scuola per radiotecnici, vedevo un signore su una panchina, intento a leggere libri. Era ripiegato su se stesso, aveva tre cappotti addosso per difendersi dal freddo. Quella panchina era la sua casa. Dopo un po’ di tempo vinsi la timidezza e gli chiesi se voleva un caffè: non mi rispose. Negli occhi aveva una muta disperazione. Ci sono incontri indimenticabili, in cui percepisci qualcosa di misterioso. Questo signore aveva staccato la spina della comunicazione, tuttavia qualcosa mi diceva di non mollare. Così feci e dopo svariati incontri mi parlò. Se sono sacerdote, lo devo anche a lui.»
 
Cosa ti disse?
«Era un medico molto amato e stimato dalla gente, travolto da una tragedia personale che gli aveva provocato qualche squilibrio. Da quella panchina osservava cosa facevano alcuni ragazzi che stazionavano di fronte a un bar: compravano alcolici da mischiare alle droghe dell’epoca, soprattutto anfetamine. “Devi fare qualcosa per quei ragazzi – mi disse – io sono stanco”. È stato il suo testamento. Lo capii una settimana dopo quando, passando, trovai la panchina vuota. Da quell’incontro è nato il Gruppo Abele, che oggi compie 55 anni.»

Don Luigi Ciotti: la strada, il Vangelo e la Costituzione

«Non basta commuoversi, bisogna muoversi» sostieni. Come ti sei mosso in questi anni di Gruppo Abele?
«La strada me l’hanno indicata i poveri, gli ultimi, i fragili. Sono loro che ci fanno muovere, se siamo disposti ad ascoltarli e accoglierli. I sogni e bisogni delle persone, le loro speranze, le loro ferite: ecco i motori dell’impegno sociale, gli ingredienti di una vita piena, non condizionata dall’io.»
  
Nel libro citi come fondamentale l’incontro con il vescovo di Torino Michele Pellegrino.
«Portava al collo una croce di legno e si faceva chiamare semplicemente “padre”. Fu lui a ordinarmi sacerdote nel 1972 e di fronte a quei ragazzi che avevo accolto al Gruppo Abele – per molti dei disadattati – disse: “Voi pensate che adesso vi porti via il vostro Luigi. Che gli affidi una parrocchia e delle responsabilità che lo terrebbero lontano da voi. Ma ho capito che la sua vocazione è per voi, in mezzo a voi. Ed è per questo che come parrocchia gli affido la strada”. Non mi ha mandato sulla strada a insegnare ma a incontrare e imparare. I poveri, gli ultimi sono stati e continuano a essermi maestri. Per me strada e Vangelo sono inseparabili, il mio riferimento, ma come cittadino cerco di vivere e trasmettere anche lo spirito della Costituzione.»
 
È quel saldare il Cielo e la terra di cui parli nel libro?
 «Sì, è quel vivere la crucialità della fede saldando la dimensione verticale di Dio con quella terrena e orizzontale della storia.»
 
“L’amore non basta”. Detta da un sacerdote ha il sapore di una provocazione. 
«Quello che non basta, anzi che è spesso nocivo, è l’amore dell’io. Perché l’io non ama: usa. L’io dice “amore” ma intende possesso, assoggettamento dell’altro. L’amore autentico presuppone l’empatia, il sentimento di giustizia, il darsi per l’altro non come sacrificio ma realizzazione di sé. Chi ama davvero non si limita ad accorgersi degli altri ma li riconosce, perché li sente dentro di sé.»

Manifestazione Libera

Il prete antimafia

Dalla strage di Capaci nasce “Libera”, l’associazione che lotta contro le mafie. Di cosa hanno paura le mafie?
«Della libertà, della cultura, delle coscienze inquiete, critiche, coraggiose. Il dominio delle mafie presuppone ignoranza, paura, complicità. Oggi si è creata un’osmosi tra le mafie e il tessuto malato della società, che si manifesta soprattutto nella corruzione. Per sconfiggere le mafie non bastano gli arresti e i processi, occorre una società dei diritti, dei beni comuni, della giustizia sociale. Della corresponsabilità come anima della cittadinanza». 

Don Ciotti con Papa Francesco
Un incontro speciale per don Luigi Ciotti con Papa Francesco che il 21 marzo a Roma, nella chiesa di San Gregorio VII, per la prima volta incontra i familiari delle vittime di mafia.

Il prete ribelle e papa Francesco 

Per alcune tue prese di posizione sei stato considerato un “prete ribelle”. Oggi dici: «Nella Chiesa di Francesco mi trovo bene». Cos’è cambiato?».
«La Chiesa che sogna e s’impegna a costruire Papa Francesco è la Chiesa del Vangelo autentico, radicale, la Chiesa povera per i poveri, la Chiesa che non vuole ricchezza né potere. Chiesa non per se stessa ma per il mondo, come diceva un grande sacerdote e amico: don Tonino Bello. La Chiesa che ho visto per la prima volta incarnata e testimoniata da padre Michele Pellegrino. Come potrei non starci bene?»

Don Ciotti ricorda don Oreste Benzi  

Hai conosciuto don Oreste Benzi. Non sempre vi siete trovati sulla stessa lunghezza d’onda sulle soluzioni per contrastare l’emarginazione, eppure c’era grande rispetto tra di voi. Che ricordo hai di lui?
«Ho incontrato tante volte don Oreste. Sono anche emerse, certo, differenze d’impostazione. Ma la sua passione per una carità affacciata sulla soglia della giustizia è stato il punto che ci ha visti sempre concordi. In un’epoca ferocemente individualista don Oreste ha tenacemente promosso e costruito il “noi”. La sua testimonianza ci aiuterà a ricordare come solo nella prossimità la nostra vita si realizzi nella sua essenza più profonda. Come solo nella corresponsabilità diventi strumento di libertà per noi stessi e per chi della libertà è stato privato.». 
 
Tu che navighi dentro il disagio giovanile e hai visto nel tempo la sua evoluzione, cosa vedi oggi negli occhi dei giovani? 
«Hanno bisogno di stimoli positivi, costruttivi, e di opportunità. Quando ne hanno, rispondono alla grande! È così ed è sempre stato così, perché la gioventù è un’età aperta e ricettiva, un’età inquieta e protesa alla vita. A un giovane non basta sapere che qualcosa esiste, vuole sapere perché esiste. Viviamo un tempo che si sta macchiando di un reato gravissimo, il reato di lesa gioventù. I giovani sono stati dimenticati, privati di opportunità e dunque di futuro.

Esistono solo come “consumatori”, come categoria di mercato. La mancanza di lavoro, o la disponibilità solo di lavori indegnamente retribuiti, privi di ogni diritto e di garanzia, al limite dello sfruttamento, è un grande scandalo della nostra epoca. Perché un giovane dovrebbe studiare, coltivare una passione, sviluppare saperi e competenze, se poi la società gli volta le spalle, se non si accorge della sua esistenza? Un giovane ha certo bisogno di lavoro, ma prima ancora ha bisogno di riconoscimento. Non basta dargli un posto: bisogna fargli posto! E questo chiama in causa noi adulti, i nostri egoismi, i nostri attaccamenti, la nostra indisponibilità a condividere, a trasmettere, a restituire».