Cento anni fa, il 7 settembre 1925, nasceva Oreste Benzi. A Rimini, si celebrano giornate in sua memoria. Don Oreste, come San Francesco, ha scelto di mettere la sua vita accanto a quella dei poveri, dei semplici e con loro ha dato vita a un movimento che ha influito in maniera unica sulla società e sulla Chiesa.
«Di personaggi del genere – si dice – ne nasce uno ogni cent’anni!». Di quelli che ti fanno vedere che l’uomo non è il suo errore, che nessuna donna nasce prostituta e che il cuore dei giovani batte per relazioni autentiche e per partecipare al mondo le proprie capacità; di quelli che ti scuotono dicendo che di fronte ai poveri non basta aprire il portafoglio e neppure il cuore, ma occorre andare a cercare anche quei poveri che non
verranno mai a chiedere; di quelli che non si danno pace finché ogni bambino abbia una famiglia e che non hanno paura di scendere nelle piazze e sui marciapiedi perché a ogni persona sia riconosciuta dignità; di quelli che credono in Dio, ma che denunciano anche che la fede non basta se non sovverte i meccanismi delle ingiustizie; di quelli che combattono i potenti a mani nude e che credono che proprio i più fragili, i meno efficienti e che non valgono “due soldi”, sono coloro che, invece, aiutano questo mondo a rimanere umano e sono le vere risorse di progresso.
Uno di quei personaggi, insomma, che ti squarcia una vision di un mondo nuovo e rovesciato rispetto a quello in cui viviamo a disagio, e che in un lampo, con sorriso pacioso e innocente, ti spariglia quelle poche certezze che con sudore e sangue hai raggranellato in tasca.
Questo personaggio disarmato e disarmante è don Oreste Benzi, conosciuto come il “prete dalla tonaca lisa”: un san Francesco – non si sbaglia a dire – del nostro tempo.
Non lasciare nessuno soffrire da solo
Se si volesse riassumere tutta la sua vita e il suo operato in una sola frase, non ce ne sarebbe una migliore di quella pronunciata dalle sue stesse labbra: «Non lasciare nessuno soffrire da solo».
È questa – ripeteva – la via dell’evangelizzazione, far “toccare” l’amore di Dio e farlo “sentire” a chi non si sente amato, riconosciuto, accolto. Ricco o povero che sia non importa, perché tutti siamo “poveri” in una società che ci riempie di cose e di brame, che prima illudono e poi deludono. «Non c’è chi salva – il sano, il ricco, il giusto – e chi è salvato – il malato, il povero, il peccatore – ma ci si salva insieme» ha insegnato per tutta la sua vita.
La profezia della relazione
La “relazione” è al centro del suo messaggio; anzi, della sua profezia! Il poverello di Assisi ci ha portato la profezia della “povertà”, intesa come il non avere “nulla di proprio” per essere solo di Dio e per gli uomini, ossia “fratello” di tutti. Don Benzi, il prete di tutti, invece, ci è venuto incontro con la profezia della “relazione”, come condivisione radicale di ciò che si è e che si possiede, ossia gratuita.
Un’unica profezia, quella della “fraternità”, a due voci, distinte e convergenti.
Due uomini mandati dallo stesso Dio, per risvegliarci dal torpore della cupidigia e dell’egoismo e per ritornare a essere liberi. Liberi perché amati senza misura; liberi per amare senza misura.
Tutto ha inizio da un dramma
Tutto ha inizio da un “dramma” e da uno “stupore”. Il “dramma” è che la stragrande maggioranza dei giovani, già dagli anni ’50 del secolo scorso, non incontra più la sorgente della vita e finisce per vivere di “surrogati” dell’infinito, dell’assoluto, della bellezza, del bene, della verità a cui il cuore anela e brama: «Gli adolescenti – scriveva – non incontrano Cristo. Il dramma è enorme!». Allora va lui a cercarli: nelle case, nelle scuole come insegnante, nelle strade, sui muretti e, da anziano, perfino nei pub e nelle discoteche e sui palchi dei grandi concerti. «La Chiesa – denunciava – è attestata sulla catechesi e organizzata per una cristianità che non c’è più», per cui – stoccava tagliente e provocatorio all’inizio degli anni ’90 – «i giovani non vanno in chiesa perché cercano Dio!» (intendendo che lì non lo trovano più).
Allo stesso modo, 800 anni prima, ebbe inizio il movimento francescano. Da quei giovani, “pescati e mietuti” con l’amo e il seme della Parola viva di Dio – gettati con empatia e simpatia da quel prete solo apparentemente “di una volta” – sono nate centinaia di famiglie aperte all’accoglienza, case famiglia, pronto soccorso e cooperative sociali, comunità terapeutiche per svariate dipendenze, corpi di pace in zone di conflitto, centri alternativi al carcere e di aiuto alla maternità, unità di strada per le donne prostituite e tanti altri “nuovi mondi di relazioni”, in Italia e nel mondo.
Sarà proprio in mezzo ai giovani che il prete dalla tonaca lisa terminerà la sua vita terrena: anziché accettare il ricovero dopo un attacco cardiaco, all’aeroporto di Roma, riprende subito l’aereo, perché atteso in una discoteca della piccola Repubblica di San Marino. La notte seguente l’attacco fatale. «Spero che prima di morire il Signore mi faccia la grazia di andare in tutte le discoteche» aveva detto. È morto come è vissuto e come desiderava.
E da uno stupore
Lo “stupore” al termine del primo soggiorno estivo sulle Dolomiti, o meglio, di quella sfida che lanciò ai suoi ragazzi liceali nell’estate del ‘68: “dare una vacanza a chi non ce l’ha”. Valeva dire, portare anche i ragazzi con gravi disabilità. Una sfida (e un azzardo) non da poco in quegli anni, quando gli “handicappati” erano ritenuti piuttosto una vergogna da nascondere, che amici con cui andare su funivie e per sentieri scoscesi con le loro carrozzelle (e sulle spalle!). Tornati a casa, la sorpresa, che così ricorda dopo tanti anni: «Quella vacanza ci tolse le cataratte dagli occhi. Capimmo che il disabile non è un oggetto di assistenza, ma una ricchezza che crea vita. I disabili sono i nostri maestri, nel senso che ci fanno scoprire valori che in noi sono sopiti, se non addirittura scomparsi: la semplicità, la gioia delle piccole cose, la condivisione». Un «incontro bruciante» – scriveva – ma anche sorprendente, perché quei ragazzi, insieme, scoprirono essere vero il paradosso paolino: «Le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie» (1Cor 12,22).
Da lì, il suo impegno a capofila e a capofitto per la chiusura degli istituti in cui erano ghettizzate (e segretate) le persone con disabilità e per l’affido famigliare, per «dare – invece – una famiglia a chi non ce l’ha». Da lì, soprattutto, l’invenzione dell’autentica e genuina “casa famiglia”, in cui un padre e una madre, veri, accolgono chi un padre e una madre non ce l’ha, o non li può avere, generando non fisicamente, ma con l’amore che donano gratuitamente.
Sarà proprio per “chi una famiglia non ce l’ha” che il prete di strada spenderà le sue ultimissime forze, a 82 anni, quando il corpo non gli risponde più, perché all’aeroporto a Roma ci era andato per inaugurare l’Osservatorio nazionale dell’infanzia a Palazzo Ghigi, e a margine della vittoria della sua battaglia per la chiusura degli istituti (fissata per legge al 31.12.2006) con la collocazione dei minori in famiglia.
Tanti anni prima aveva fatto un giuramento: «Finché c'è un bimbo che chiede una famiglia, io non mi darò pace». Poteva allora morire in pace. Aveva fatto ciò per cui era nato cento anni fa.
La prima pietra
La prima pietra della sua vita e della sua opera, però, non è stata la casa famiglia, ma una pietra reale, ossia la costruzione di una casa alpina per i ragazzi, ad Alba di Canazei (CN), affinché potessero avere un “incontro simpatico con Gesù” e vivere un’esperienza indimenticabile di autentica gioia nella convivenza prima, e poi nella condivisione diretta con le persone con disabilità e i poveri, negli spazi immensi e vertiginosi delle Dolomiti.
Anche il “pazzo” di Assisi non aveva capito bene la chiamata di Dio di “riparare la mia casa” (la Chiesa), andando a riparare le vecchie mura della chiesetta di San Damiano.
Questi due “pazzi di Dio” (come titola al singolare il docufilm su don Benzi) si sono inizialmente sbagliati, ma Dio, invece, non si è sbagliato! Ha fatto anche del prete romagnolo il fondatore di un popolo nuovo, costruttore di un mondo nuovo, la “Società delle relazioni”, o, meglio, “del gratuito”.
La prima vera pietra di questa nuova società è appunto la casa famiglia, che amava chiamare il «primo fiore di giustizia», perché risponde alla più intima e vitale necessità umana di essere riconosciuti e amati per ciò che si è. Un fiore che spegne tutti i focolai di guerra appiccati dalla Società che chiamava invece “del profitto”, che scarta chi non è efficiente, intelligente, denaroso, bianco, sano, autonomo; ossia tutti, prima o poi!
Una prima pietra che è stata estratta dalla dura roccia della famiglia in cui è nato cento anni fa: numerosa, povera e con genitori non perfetti, ma garanzia di amore gratuito; scuola di fede, di valori umani e sociali, e di sacrificio gioioso.
Non è nato santo, né sarà un santino
Un ultimo aspetto che accomuna don Benzi e il Santo d’Assisi è che entrambi non sono nati santi. Lui stesso, soprattutto nei primi anni di ministero sacerdotale, si riconosce orgoglioso, impulsivo, impaziente, ostinato, distratto e poco delicato con le persone, apostrofandosi come un “bufalo in discesa”! Gli piace apparire, fare colpo, essere punta di diamante e prete di frontiera nella Chiesa e nella società.
Eppure, il suo animo è buono, come lo era anche quello del figlio scapestrato di Pietro di Bernardone. Un animo contadino, generoso e vivace; sempre sorridente e ottimista come la mamma; schietto e deciso come il vino; instancabile e capace di amore smisurato; ma soprattutto empatico: quando lo incontravi avevi l’impressione che stesse aspettando proprio te e sentivi che ti capiva al volo. Intellettualmente curioso, ama studiare le discipline più disparate ed è sempre informato su tutto. Ha stoffa da leader, è un creativo, anzi, un “sognatore”, proprio come il Poverello, ma con gli occhi aperti e i piedi per terra.
Da educatore di ragazzini è divenuto terapeuta dell’umano; da parroco di periferia fondatore e padre di un popolo nuovo, che ruota attorno alla Comunità Papa Giovanni XXIII; da insegnante di religione a pubblicista prolifico e opinion maker su temi scottanti (droga, affido, aborto, prostituzione, disabilità).
Solo l’amore e la creatività di Dio potevano fare di questi “due poveri diavoli”, “due fuori serie”: opere d’arte, strumenti di pace, fratelli di tutti, padri nella fede.
A nessuno, perciò, è lecito ridurre a “santini” di devozione, coloro che Dio dona come profeti di rivoluzione interiore e sociale.
Ora tocca a noi
Personaggi del genere, davvero, “ne nasce uno ogni cent’anni”: cento ne sono appena scoccati dalla nascita del prete dalla tonaca lisa.
Domani, anzi oggi, tocca allora a noi prendere il suo testimone e continuare la discendenza dei profeti per costruire la storia. La Storia di Dio con gli uomini.