Deir al-Balah, “il posto dei datteri”, nel mezzo della Striscia di Gaza, Territori occupati palestinesi.
Domenica 20 luglio, mattina presto. Dal cielo blu piovono biglietti, con un messaggio: «Tutta la zona va evacuata. Andate via, tutti. Spostatevi verso Sud, verso la “città umanitaria” di Mawasi».
Al-Mawasi è un lembo di terra costiera, largo un chilometro e lungo quattordici. Si estende dalla città di Khan Younis a quella più meridionale di Rafah. Prima della guerra, l’area ospitava 6.000 residenti, che facevano affidamento principalmente sull’agricoltura e sulla pesca lungo la costa. Ora è l’area più densamente “popolata” al mondo, centinaia di migliaia di palestinesi in tendopoli o nel nulla, senza i servizi vitali, bloccati dalle bombe e dalla fame.
Il mare si vede da vicino, ma non ci si può arrivare.
Nella Striscia ogni giorno ci sono ordini di evacuazione, ormai l’85% è evacuato dai civili e non c’è più spazio fisico in cui spostarsi.
Nel 15% non sfollato – l’area di Deir al-Balah appunto - c’erano le zone dove le poche ONG presenti e le Nazioni Unite hanno le sedi.
Il 20 luglio è cominciato l’attacco anche a questa ultima parte.
«Volevano che evacuassimo anche noi senza portare via nulla - racconta l’operatore umanitario italiano Gennaro Giudetti - .Ci siamo rifiutati. In primo luogo perché non sappiamo dove andare, poi se andiamo via perdiamo tutto, il rischio di saccheggio e distruzione è certo. E senza più nulla saremmo costretti a interrompere le operazioni».
Giudetti continua: «La popolazione civile è disperata. Le persone, famiglie, anziani, bambini, raccolgono in fretta poche cose e improvvisano trasporti di fortuna. Vagano, senza sapere dove. Molti bambini per strada non riescono neppure a trasportare i loro carichi, anche nonni in sedia a rotelle. Mi viene da piangere. Se andiamo via noi internazionali è proprio la fine per tutti, i nostri colleghi locali ci pregano di non lasciarli soli».
Da domenica le bombe non hanno mai smesso di cadere. «È la resa dei conti, stanno utilizzando bombe più grosse del solito. Il 27 luglio chiude il parlamento israeliano e per tre mesi il governo non può cadere. Vogliono accelerare le operazioni in questi giorni. Questi ordini di evacuazione sono folli. Per questioni di sicurezza ci siamo spostati negli uffici, hanno iniziato a bombardare proprio di fianco a noi, a pochi metri, era troppo pericoloso. È insostenibile. Stanno buttando giù l’impossibile, all’esercito erano state notificate tutte le nostre coordinate GPS, sanno benissimo dove siamo e chi siamo. I bambini corrono per strada: ci sono carri armati, aerei e droni ovunque.
Dobbiamo coprirci il volto a causa dello zolfo. L’inferno, se esiste, è qualcosa di simile a questo. Brucia tutto. L’avevano detto e lo stanno facendo: “Raderemo tutto al suolo”, non si fermano un secondo.
I carri armati sono arrivati a 200 metri da noi, e abbiamo paura dell’«errore collaterale». Sono saltati tutti gli schemi. Ad un certo punto hanno bombardato il terzo piano della nostra casa».
Questa di Deir al-Balah è una deconflicted area, ovvero un’area segnalata e riconosciuta come neutrale e protetta, in cui dovrebbe essere garantita la sicurezza degli operatori umanitari. Sono state colpite tutte le basi delle Nazioni Unite presenti nell’area. Hanno sparato e distrutto le macchine e – racconta ancora Gennaro – «senza le macchine qui siamo veramente bloccati. Per noi le macchine sono il bene più importante qui per poterci muovere».
In serata è stato colpito il warehouse (magazzino) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dove c’erano tutti i farmaci, apparecchiature mediche e ciò che può servire negli ospedali. Tutto distrutto: hanno bombardato tre volte consecutive nonostante gli operatori Onu continuassero a segnalare di fermarsi. Mentre scriviamo i bombardamenti continuano.
Il 22 luglio a Gerusalemme il cardinale Pierbattista Pizzaballa di ritorno dalla visita pastorale alla comunità cristiana di Gaza, ha incontrato la stampa. «Abbiamo camminato tra la polvere delle macerie, ovunque, nei cortili, nelle strade come pure nei vicoli. E nelle spiagge abbiamo visto migliaia di tende che sono diventate le case di chi ha perso tutto. Famiglie che hanno perso il conto dei giorni di esilio dalle loro residenze, e che non vedono un orizzonte di ritorno. Bambini che parlano e giocano senza battere ciglio, perché ormai abituati al rumore delle bombe». Tuttavia, ha sottolineato, «abbiamo incontrato qualcosa di più profondo: la dignità dello spirito umano che rifiuta di estinguersi.
«Ci sono lunghe distese di tende, dove la gente vive in condizioni di estrema precarietà sia dal punto di vista igienico che sotto qualsiasi altro profilo. E poi, l'altra immagine è l'ospedale: i bambini mutilati, accecati per le conseguenze dei bombardamenti. Tutto questo non è giustificabile. Vorrei chiarire una cosa: non abbiamo nulla contro il mondo ebraico e non vogliamo assolutamente apparire come coloro che vanno contro la società israeliana e contro l'ebraismo, ma abbiamo il dovere morale di esprimere con assoluta chiarezza e franchezza la nostra critica alla politica che questo governo sta adottando a Gaza».
E sugli aiuti ha dichiarato: «Non sono solo necessari, sono una questione di vita e di morte. La fame è un’umiliazione moralmente inaccettabile e ingiustificabile».
«Oggi ho incontrato questo bambino – ci scrive stasera Gennaro – mi ha detto che è solo. Si è salvato per miracolo, ma i suoi genitori no. Vive per strada, mi ha chiesto da bere. Ha fame, non mangia da giorni. Aveva un piccolo sacchetto in mano e gli ho chiesto cosa ci fosse dentro. L’ha aperto, farina mescolata a polvere e sassolini. L’aveva raccolta da terra, caduta dai sacchi degli adulti lungo il tragitto. Forse sarebbe stato meglio non chiedergli come si chiama. Magari sarei stato meno male. Ma certe storie ti si infilano dentro. E lì restano. Buona via S., e perdonaci per tutto.
E anche oggi si dorme domani…»