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22 Aprile 2019

Giulia Longo: «La pace mi ha contagiato»

Come tutti i giovani – o quasi – Giulia Longo sogna un mondo in cui regni la pace. Lei però ci crede davvero e per costruirla ha scelto di vivere tra le vittime della guerra. Un'esperienza che ha potuto raccontare a Papa Francesco e al presidente Mattarella.
Giulia Longo: «La pace mi ha contagiato»
Foto di Operazione Colomba
Giulia Longo nasce a Valdagno (VI) il 9 aprile del 1995. Dopo il liceo linguistico si iscrive a Scienze politiche a Padova. Nel gennaio 2016 parte per la prima esperienza in Palestina con Operazione Colomba. Torna in Italia per dare gli esami all’università per poi partire a gennaio 2017 per il progetto Libano/Siria. A maggio del 2017 torna nuovamente in Italia e si laurea con una tesi sui Corpi Civili di Pace italiani e sulla sua esperienza con Operazione Colomba. Continua la sua esperienza con il Corpo Civile di Pace in Libano nel campo profughi di Tel Abbas.
Giulia Longo è stata una dei 34 giovani scelti ad intervenire davanti al Papa in occasione del Sinodo dei giovani. Ha parlato al Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella in occasione del 50° anniversario di fondazione della Comunità Papa Giovanni XXIII. A loro ha raccontato la sua esperienza di volontaria con Operazione Colomba, il Corpo Nonviolento di Pace di cui fa parte.
È stata sei mesi in Palestina, dove ha compiuto i suoi primi 20 anni. Tra i profughi siriani del campo di Tel Abbas in Libano. Tutto questo, bruciando tappe che normalmente costano una vita.

Chi è Giulia Longo

Giulia Longo, vicentina di Valdagno, ha 23 anni e una laurea all’Università di Padova in Scienze politiche, Relazioni internazionali e diritti umani, conseguita tra studio e vita “sul campo”. Uno stage a New York presso la sede delle Nazioni Unite, compiuto durante gli studi universitari, avrebbe potuto aprirle una carriera diplomatica di tutto rispetto, invece le ha fatto capire che quella vita non fa per lei. Con una semplicità disarmante dice: «Metto a disposizione la mia vita. Cerco di portare con me la fatica e la sofferenza che ognuno di noi individualmente e ogni popolo ha, per raggiungere pace e giustizia».

Giulia è giovane e sogna un mondo di pace dove regnino il dialogo, l’ascolto tra le diverse religioni, la speranza e l’amore. Affonda quotidianamente le mani nelle vite straziate dai conflitti che altri hanno voluto, ma lo fa con il sorriso.
Ho visto negli occhi di questa ragazza dal viso d’angelo e dalla voce dolcissima una luce che chiamerei coraggio, forza, che non significa incoscienza, ma determinazione a vincere la paura per un amore più grande – come amava dire don Benzi – rischiando anche la vita. «Perché vivere lì è pericoloso, ma non solo per me», dice.
Dal campo profughi in Libano, a tre km dal confine con la Siria, scrive: «Il rischio della vita è questo: per misurarla devi vivere. Se non impari a viverla nei suoi dolori più profondi non saprai vedere le piccole gioie che ti tengono a galla.»
 
Giulia, cosa ti ha portato ad una vita scomoda nel campo di Tel Abbas, in una tenda di cartone e nylon?
«Avevo solo 19 anni quando ho scelto di partire. È stata una scelta molto combattuta tra la me stessa più interiore, quella che ha bisogno di andare a fondo nella verità delle cose, e la me stessa che si accontenta, che sta bene dov’è. Non sono scappata perché non stavo bene, sono partita perché avevo ancora molta fame. Di sicuro la scomodità non era quello che cercavo.»
 
Ma ci sei dentro.
«Io sto molto bene anche nei posti belli, nelle case comode. Le cose belle mi piacciono molto, ma come accade a tanti giovani della mia età, i soldi potrebbero farmi perdere tanti valori in cui credo. Quindi ho scelto di andare in un posto dove potevo avere il meno possibile questa tentazione di guardare il bello delle occasioni, ma potevo conoscere delle persone nella verità, sentirmi più nuda possibile.»
 
Giulia, non è stata la tua prima esperienza all’estero.
«Nel 2014, durante il primo anno di Università, ho fatto uno stage all’ONU di New York, ma sentivo che l’ufficio candido, l’hotel ben sistemato, le associazioni che puntavano soprattutto al bilancio e poco al nome delle persone, mi facevano fare fatica. Non perché non fossi come loro, piuttosto perché ero troppo come loro, forse anche peggio. Se fossi rimasta avrei fatto danni a delle persone che poi non avrei visto in faccia. Perciò ho deciso che non era la mia via.»
 
Come sei finita con Operazione Colomba?
«Ci ho messo dei mesi a capire come avrei potuto concretizzare quello che sentivo. È stato l’incontro con il professor Papisca, all’Università di Padova, a darmi una visione diversa del diritto alla pace, dando forma alle teorie – da cui ero molto attratta – attraverso un’esperienza sul campo. Mi ha parlato dei Corpi civili di pace della Papa Giovanni XXIII, associazione che conoscevo attraverso le scelte dei miei genitori. Mi ha parlato della disobbedienza civile e di quello a cui può portare. Così, dopo gli esami e la preparazione come volontaria, nel 2016 sono partita per il villaggio di At-Tuwani in Palestina. Dovevo stare un mese, invece ci sono rimasta tre mesi.»
 
L’impatto?
«Dalla teoria sono passata immediatamente alla pratica. Ho conosciuto anche troppo la forza delle persone, la vita vera: era molto diverso dal studiarle. Era proprio casa mia.»
 
Questa ricerca di giustizia e di pace che radici ha?     
«Le radici si sono sviluppate nella mia famiglia. Quando sono nata, i primi profughi della Sierra Leone vivevano a casa mia. Per me erano persone come le altre e chiamarle profughi mi fa sempre un certo senso. Senza accorgermene era entrato in me il senso di giustizia, che era fuori da ogni legge numerata o da codici di diritto, era parte di una vita che mi è stata data, anche con le fatiche che derivano da una condivisione così stretta, nella stessa casa.»
 
Che significato ha avuto per te crescere in una famiglia Longo così particolare?
«Sono nata in casa famiglia e non so cosa significhi crescere in una famiglia normale, solo con mamma e papà, come è avvenuto ai miei due fratelli e a mia sorella più grandi, nati prima che i miei genitori facessero la scelta di aprirsi all’accoglienza. Non ho sempre compreso qual era la mia fortuna e perché la gente venisse a conoscerci. Da una parte eravamo apprezzati, dall’altra una parte di società ci perseguitava, perché da noi c’erano dei fratelli di colore diverso: cosa di cui io non mi ero mai accorta perché ero nata con loro, non sapevo che era questa la differenza. L’ho capito confrontandomi con il mondo fuori di casa mia. È stato quello che mi ha fatto entrare più in conflitto con certe scelte dei miei genitori. Alcune le condivido, altre fatico ancora a comprenderle. Ma è stato giusto così.»
 
Attraverso questa questa rottura cosa hai scoperto?    
«La rottura è stata un allontanarmi dalle matrici del conflitto, confrontandomi con altri mondi e con altre case famiglia che avevano fatto scelte simili. Mi ha portato ad esternarmi per poi rientrare con un ruolo diverso. Mi ha arricchito molto. Ad oggi vivere con dei profughi, con dei carcerati, significa anche rivivere cose vissute in casa mia. Questo è molto terapeutico. Oggi le ingiustizie che mi hanno combattuto le combatto, ma a modo mio.»        

Giulia Longo
Giulia Longo, volontaria di Operazione Colomba nei campi profughi in Libano
Foto di Vatican Media


Anche Dio lo hai allontanato e poi ritrovato?
«Sono stata lontana da Dio dai 14 ai 18 anni. Avevo 17 anni e avevo lavorato sodo per pagarmi il viaggio in Francia come ragazza alla pari, ma all’ultimo tutto saltò. Così accettai la proposta dei miei genitori di andare in una famiglia della Papa Giovanni XXIII a Lourdes, a patto di poter andare a trovare i miei amici a Lione, a Parigi, in Portogallo. Quando sono arrivata mi sono scontrata con una coppia molto giovane, piena di figli naturali e figli accolti, tutti con un modo diverso di mettermi in discussione. Mi serviva un incontro estremo per andare alle radici della mia fede. Lourdes non l’ho vissuta come un luogo di pellegrinaggio, come lo vivono tante persone, ma come luogo di famiglia dove sedermi e pregare a modo mio, cullando un bambino, andando a fare una passeggiata, e piano piano ho riscoperto i miei silenzi.»
 
Ora però vivi tra altre religioni.
«Effettivamente condividiamo moltissime religioni in questa varietà di profughi e di libanesi. Cristiani, sciiti, drusi, ognuno porta la propria vita. E quella che condividiamo è vita vera, che passa dai corridoi umanitari alla proposta di pace, al salvare davvero per un pelo le persone portandole in ospedale dove gli ospedali sono privati, al contattare le associazioni che potrebbero aiutarli ma che non si muovono dalla capitale, al passare la serata con qualche signora che ci racconta la sua vita e noi la nostra.»
 
La tua fede in Gesù ti aiuta in quei mondi diversi che incontri?
«La mia religione è basata sull’amore incondizionato verso tutti, cosa per niente facile quando si vive in posti in cui si vedono persone molto violente. La mia fede è collegata alla loro, anche se appartengono a religioni diverse. Convivere è un valore aggiunto per costruire la pace. Gesù è la mia guida, che mi fa incontrare la guida degli altri.»

Giulia Longo volontaria della nonviolenza

«Il rischio è la sofferenza» scrivi dal Libano. A cosa ti riferisci?
«È lo scontro con il dolore, con una sofferenza talmente forte, pregnante, che una volta capita può creare dei forti cambiamenti. Queste persone soffrono e hanno imparato a soffrire talmente tanto che, una volta mostrata la loro sofferenza, invece che scottarti ti scaldano e scaldandoti ti fanno sentire molto più viva. Ci fanno capire quanto siamo importanti per il loro cambiamento, ma anche quanto loro sono importanti per noi.»
 
Dove abitate, al campo?
«Prima vivevamo in una tendina. Poi, piano piano, i volontari del campo hanno costruito una tenda come quella dei siriani e paghiamo l’affitto della terra, l’elettricità, l’acqua proprio come ogni siriano. Il campo è di un libanese. Prima piantava patate, adesso pianta siriani.»
 
State promuovendo un progetto di pace per la Siria. In che cosa consiste?
«Nel 2015 abbiamo iniziato a scrivere quello che ad oggi si chiama “la proposta di pace”, con le parole di ogni siriano incontrato. I siriani chiedono la realizzazione di un futuro di giustizia e di pace nella loro terra. E noi con loro. Il promotore è un siriano a noi molto caro, che vive in Italia perché è stato minacciato di morte.»
 
Credi davvero che la pace sia possibile?
«Io credo che la pace parta da noi. È molto banale da dire, ma una volta che una persona comincia a crederci è difficile smettere di crederci. Quando si incontra anche solo un assaggio di quello che può essere un futuro di pace, non si riesce più a smettere di inseguirlo, è molto contagioso».