Mentre la scienza rafforza il legame tra glifosato e cancro, l'Unione Europea continua a permetterne l'uso e a importare cereali trattati con sostanze vietate nei propri confini
C’è una contraddizione che attraversa le politiche agricole dell’Unione Europea: da un lato proclami di sostenibilità e tutela della salute pubblica, dall’altro la tolleranza – quando non la legittimazione – di pratiche agroindustriali dannose per l’ambiente e per le persone. A rivelare l’ipocrisia di questo sistema è il caso del glifosato, erbicida tra i più utilizzati al mondo, ma anche tra i più controversi.
Il verdetto della scienza: il glifosato è cancerogeno
Il Centro di Ricerca sul Cancro dell’Istituto Ramazzini di Bologna ha recentemente
pubblicato su Environmental Health i risultati di uno studio decennale che non lascia spazio a dubbi:
il glifosato provoca un aumento significativo dell’incidenza di tumori nei topi, anche a dosi considerate sicure dalle normative europee. Gli scienziati hanno riscontrato una crescita dose-dipendente di tumori benigni e maligni in entrambi i sessi e hanno documentato un’insorgenza precoce e una maggiore mortalità per diverse forme tumorali.
Il glifosato agisce come diserbante sistemico: penetra nella pianta attraverso le foglie, raggiunge le radici e si diffonde nel terreno, dove può restare attivo per anni. Utilizzato non solo per il controllo delle infestanti ma anche, in alcune aree del mondo, per accelerare la maturazione del grano (una tecnica nota come “dessiccazione”), è stato dichiarato “probabilmente cancerogeno” già nel 2015 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC), un’agenzia dell’OMS. Tuttavia, la Commissione Europea ha recentemente rinnovato per altri dieci anni l’autorizzazione all’uso del glifosato nei Paesi membri, ritenendolo compatibile con la sicurezza umana se usato entro certi limiti.
Secondo
Slow Food Italia, che si è mobilitata con una campagna pubblica a seguito della pubblicazione dello studio del Ramazzini, questa decisione rappresenta
una grave negligenza politica. «In ballo c’è la sacralità della salute e della vita umana», afferma la presidente Barbara Nappini. «Chiediamo al Governo italiano e alla Commissione europea di vietare subito non solo l’uso, ma anche la produzione e la commercializzazione del glifosato, compresa l’esportazione verso Paesi terzi».
Un sistema agroalimentare che esporta veleni e reimporta cereali
Ma c’è
un secondo paradosso, ancora più difficile da spiegare ai cittadini europei: se in Europa certe sostanze come il glifosato sono soggette a limiti precisi, nei paesi extra-UE le stesse possono essere usate senza restrizioni. Anzi, paradossalmente, molti pesticidi vietati in Europa vengono esportati proprio da aziende europee verso paesi terzi, dove vengono utilizzati su colture destinate all’esportazione... verso l’Europa.
È il caso emblematico delle
filiere del mais e del grano, al centro di
un nuovo dossier pubblicato da Slow Food. Ogni anno l’UE importa circa 15 milioni di tonnellate di mais, soprattutto da Ucraina, Brasile, Argentina e Stati Uniti; per il grano tenero le importazioni si aggirano intorno agli 8 milioni di tonnellate, mentre per il grano duro –
utilizzato in larga parte per la pasta – le importazioni del 2024 sono state pari a 1,7 milioni di tonnellate. Paesi come il Canada, per esempio, utilizzano abitualmente il glifosato in pre-raccolta sul grano, una pratica vietata in Italia, ma ammessa per i prodotti importati.
Le “clausole specchio” e i doppi standard
Questa dinamica è resa possibile dall’assenza delle cosiddette “clausole specchio”, cioè norme che impongano agli alimenti importati gli stessi criteri di sicurezza e sostenibilità richiesti alle produzioni europee. Attualmente, invece,
la regolazione si limita a controllare i “limiti massimi di residui” (LMR) nelle derrate alimentari. Ma questo parametro, da solo, non basta a garantire la sicurezza. Come evidenzia Slow Food, i diserbanti come il glifosato vengono spesso impiegati in pre-emergenza, cioè al momento della semina, quando il rischio di residui nel prodotto finito è minimo. Eppure, gli impatti sull’ambiente – inquinamento del suolo, contaminazione delle falde, danni alla biodiversità – restano gravissimi e invisibili.
La mancanza di regole uniformi
favorisce la concorrenza sleale, penalizzando i produttori europei che rispettano standard più rigorosi e premiando invece quei paesi che, potendo produrre a costi inferiori, invadono il mercato con cereali trattati con sostanze vietate nell’UE. Ma soprattutto, denuncia Slow Food, si sacrifica la salute delle comunità locali dei Paesi esportatori, esposte a un uso massiccio di pesticidi pericolosi, spesso senza tutele o adeguate misure di protezione.
Una questione di giustizia ambientale e coerenza politica
La richiesta di Slow Food è chiara: introdurre clausole specchio vincolanti, vietare l’uso e la produzione di glifosato in Europa e favorire una transizione agroecologica che metta al centro la fertilità del suolo, la tutela della biodiversità e la salute delle persone. «Non si tratta solo di proteggere i consumatori europei», sottolinea l’associazione, «ma anche di affermare un principio di giustizia globale:
non possiamo continuare a esportare veleni e reimportare alimenti coltivati a discapito dell’ambiente e delle comunità locali».
Di fronte a uno scenario agricolo mondiale dominato dai colossi dell’agrobusiness – spesso capaci di influenzare le scelte normative a livello internazionale – emerge la necessità di ripensare radicalmente le regole del commercio agroalimentare. Perché la sostenibilità non può fermarsi ai confini dell’Unione. E perché la credibilità delle politiche europee si misura anche nella capacità di superare i doppi standard e di porre fine, una volta per tutte, all’ipocrisia dei pesticidi.