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1 Maggio 2023

Sudan in guerra: «Negli ospedali manca tutto»

Solo i più ricchi possono scappare. La testimonianza di un italiano.
Sudan in guerra: «Negli ospedali manca tutto»
Foto di Archivio Aispo 2018
Il racconto di Matteo Todeschini, cooperante che è stato in Sudan. La preoccupazione per una crisi umanitaria che sta sfuggendo al controllo.
In un Sudan ormai teatro di scontri e dell'escalation bellica, la capitale Khartoum, ma anche ad ovest il Darfur, sono incendiati dalle escursioni armate. Postazioni militari e carroarmati governativi sono schierati per le strade. Si starebbero registrando in queste ore bombardamenti aerei e si conterebbero già un centinaio di vittime. Solo più ad oriente, verso la costa, la situazione pare ancora essere sotto controllo.

Si scontrano: da una parte i paramilitari del vice-presidente del Consiglio, generale Mohamed Hamdan Dagalo, individuato come responsabile di efferati crimini di guerra nella regione del Darfur tra il 2003 e il 2008; dall'altra l'esercito regolare, ai comandi del presidente del Consiglio al-Burhan. Detenuto in un ospedale militare sarebbe l'ex dittatore Omar al-Bashir, deposto e arrestato nel 2019 dopo una serie di proteste popolari.

Abbiamo intervistato Matteo Todeschini (nella foto a destra), capoprogetto in una struttura sanitaria sudanese fra metà 2018 a metà 2019 per Aispo, l'Associazione Italiana per la Solidarietà fra i Popoli (collegata all'Ospedale San Raffaele di Milano).

«Un collega di Port-Sudan mi conferma che gli ospedali della città affacciata sul Mar Rosso continuano a rimanere operativi. Fa paura però il blocco delle forniture del materiale medico che provenivano dalla capitale, dove tutto è bloccato. Le strutture sanitarie stanno provando ad organizzare importazioni dall'Egitto, ma con costi insostentibili».

L'areoporto internazionale di Khartoum è chiuso, ma tutti gli italiani che desideravano lasciare il paese sono riusciti ad evacuare.

«Il vero problema stà nella difficoltà delle persone a fuggire dal conflitto. Come spesso accade all'inizio delle guerre, solo chi dispone di maggiori risorse economiche riesce a scappare, mentre chi ha un reddito medio o è povero non può farlo».

Di cosa ti sei occupato in Sudan? Com'era la situazione sanitaria?

«Ho trascorso un anno a Port Sudan, nell'est del paese sul Mar Rosso, operando per Aispo in un ospedale pubblico. C'erano carenze mediche molto gravi. Mi sono occupato principalmente di una riabilitazione di alcuni edificii ospedalieri e di creare delle procedure per la disinfezione degli ambienti, per superare gravi mancanze sanitarie. Ho lavorato in ostetricia e in pediatria.

I riflettori internazionali si spegneranno troppo presto.
Matteo Todeschini

A causa della mancanza di formazione, il personale infermieristico era abituato a lasciare le siringhe usate sul pavimento o sul letto dei pazienti; capitava che le donne delle pulizie spesso si pungessero, causando un alto tasso di incidenti biologici. Ho dedicato sei mesi al miglioramento delle procedure di pulizia e alla formazione del personale sul come prevenire infezioni. Poi c'era da organizzare uno smaltimento sicuro dei rifiuti ospedalieri.

Il 60% delle strutture sanitarie oggi si è fermato. Eppure le donne continuano a partorire; le patologie croniche ci sono ancora e non sono più trattate. I diabetici non riescono a trovare l'insulina».

Qual era il contesto politico e sociale in Sudan durante il tuo soggiorno?

«All'epoca, il Sudan era governato dalla dittatura di Al-Bashir. Durante l'ultimo periodo della mia permanenza si respirava la tensione, con manifestazioni sempre più frequenti; l'esercito sparava sulla gente per disperderla. Con la caduta del governo la situazione si è fatta più tesa.



La popolazione civile era stata artefice del cambiamento. Le persone speravano in una transizione del potere dalla giunta militare a un governo civile; poi si sono trovate coinvolte in un conflitto di potere tra l'esercito nazionale e i paramilitari. L'economia si fermò. Le priorità da affrontare ora sono quelle di base: l'accesso all'acqua potabile diventa sempre più difficile; la sicurezza nelle strade è una preoccupazione costante.

Ti sei lasciato coinvolgere emotivamente?

«Per me è stato un periodo molto intenso, in senso positivo. Mi sono legato emotivamente molto al Sudan e alle persone che ho incontrato. Avevo la mia casa, la mia bicicletta e i miei vicini di casa; un'esperienza molto bella è stata quando i nostri vicini invitarono a un banchetto in strada alla fine del Ramadan, fu un gesto di appartenenza molto significativo. Ho anche avuto l'opportunità di entrare in contatto con la comunità dei Comboniani, pur essendo la popolazione per la stragrande maggioranza musulmana.

Cosa può insegnare a noi italiani la crisi del Sudan?

La situazione in Sudan è drammatica. La guerra accenderà i riflettori dell'attenzione internazionale solo per un un breve periodo, ma stiamo entrando in un momento di crisi umanitaria gravissima che durerà per anni. I primi fuggitivi ad arrivare in Itailia saranno i più ricchi, via areoplano. Poi saranno costretti a fuggire i più poveri. Pensando al Bel Paese, sarà interessante vedere come la politica si muoverà nella gestione delle migrazioni legate al conflitto.